Sezioni Unite: la comunione “de residuo” ha natura creditizia
Nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi, costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella cd. comunione “de residuo”, al momento dello scioglimento della comunione legale, all’altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data. (ABSTRACT ITA)
In the case of an enterprise attributable to only one of the spouses, established after the marriage, and falling within the so-called “communion of the residual”, at the time of the dissolution of the legal community, the other spouse is entitled to a credit right equal to 50% of the value of the company which, organized complex, determined at the time of the termination of the legal property regime, and net of eventualities existing to the same data. (ABSTRACT ENG)
Sommario: 1. Introduzione: cenni sul contrasto giurisprudenziale sulla c.d. comunione “de residuo” in costanza del regime di comunione legale tra i coniugi – 2. I fatti di causa nel giudizio di I grado: costituzione di società di capitali tra coniugi in regime di comunione legale e il reimpiego degli utili societari – 2.1. L’incipit della vertenza giudiziaria – 2.2. La pronuncia di primo grado e gli esiti dell’appello – 3. La posizione della Suprema Corte: i motivi di ricorso – 4. L’ordinanza interlocutoria n. 28872/2021 – 5. La decisione delle Sezioni Unite: il principio solidaristico della comunione legale tra coniugi e il carattere recessivo – 6. La soluzione delle Sezioni unite: la comunione “de residuo” ha natura creditizia.
1. Introduzione: cenni sul contrasto giurisprudenziale sulla c.d. comunione “de residuo” in costanza del regime di comunione legale tra i coniugi
La Seconda Sezione civile della Cassazione ha disposto la remissione al Primo Presidente con ordinanza interlocutoria n. 28872 del 19 ottobre 2021 su questione di massima e particolare importanza: la natura del diritto vantato da un coniuge non titolare dell’azienda sui beni dell’azienda stessa, ex art. 178 c.c.. Segue la devoluzione alle Sezioni Unite con fissazione di udienza pubblica per il giorno 10 maggio 2022. Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte ed entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.
L’ordinanza interlocutoria di remissione è la chiave di volta comprendere il contrasto giurisprudenziale tra le distinte impostazioni dottrinali e giurisprudenziali in tema di “comunione de residuo“. Una posizione dottrinale, seguita da parte della giurisprudenza, la inquadra come fonte di un diritto di credito. Talune pronunce di legittimità (ex multis, Cass. n. 7060/1986, conforme Cass. n. 4533/1997) ricollegano la comunione “de residuo” ai principi contenuti all’art 178 c.c., in ragione del quale i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi -costituita dopo il matrimonio- e gli incrementi dell’impresa (costituita anche precedentemente), sarebbero da considerarsi oggetto della comunione soltanto se sussistano al momento dello scioglimento di questa. In regime di comunione legale tra i coniugi, tutti i beni, siano essi immobili e mobili iscritti in pubblici registri, che vengano acquistati da uno dei coniugi, conferendogli destinazione all’esercizio d’impresa costituita dopo il matrimonio, rientrerebbero nella comunione stessa solo “de residuo”, cioè “se e nei limiti” in cui essi sussistano al momento del suo scioglimento. Prima di tale evento, sono suscettibili di aggressione per intero da parte del creditore del coniuge acquirente.
Altra posizione propende, invece, per la tesi opposta: la comunione “de residuo” avrebbe natura reale. L’orientamento fa capo, principalmente, alla pronuncia della Corte di Cassazione, Sez. Tributaria n. 19567/2008, Qui, si rileva che «in tema di imposta sulle successioni, il saldo attivo di un conto corrente bancario, intestato – in regime di comunione legale dei beni – soltanto ad uno dei coniugi e nel quale siano affluiti proventi dell’attività separata svolta dallo stesso, se ancora sussistente, […] entra a far parte della comunione legale dei beni, ai sensi dell’art. 177, comma 1, lett. c), c.c., al momento dello scioglimento della stessa, determinato dalla morte, con la conseguente insorgenza, solo da tale epoca, di una titolarità comune dei coniugi sul predetto saldo, evidenziandosi che lo scioglimento attribuisce invero al coniuge superstite una contitolarità propria sulla comunione e, attesa la presunzione di parità delle quote, un diritto proprio, e non ereditario, sulla metà dei frutti e dei proventi residui, già esclusivi del coniuge defunto […]»[1].
La Cassazione, a Sezioni Unite, scioglie il nodo gordiano pronunciandosi con la sentenza del 17 maggio 2022 n. 15889. I giudici di piazza Cavour elaborano il seguente principio di diritto: “Nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio e ricadente nella cosiddetta comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all’ altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data.“
Nei paragrafi a seguire si esamineranno in maniera mirata, nell’ordine, i fatti e le ragioni di diritto delle fasi giudiziali di merito. Si darà, poi, spazio ai motivi del ricorso per cassazione, per introdurre la sentenza del 17.05.2022 n.15889 delle Sezioni Unite della Suprema Corte di legittimità. Il fine dell’elaborato è comprendere il percorso logico-giuridico seguito per giungere al principio di diritto enunciato.
2. I fatti di causa nel giudizio di I grado: costituzione di società di capitali tra coniugi in regime di comunione legale e il reimpiego degli utili societari
Due coniugi, in regime patrimoniale di comunione legale, costituirono nel 1997 una società di capitali, finalizzata al commercio di macchine industriali. La società, amministrata dal marito, vedeva questi quale titolare di quote pari al 55% con attribuzione della restante porzione alla moglie. Seguiva alla costituzione societaria, l’acquisto di un’area, realizzato con il conseguimento dei corrispondenti utili societari. L’area acquisita era destinata a edificare una sede più adatta alle esigenze dell’attività. Era prevista, anche, l’edificazione di locali da destinare a officine dell’impresa individuale che il coniuge aveva avviato in proprio. Scopo primario dell’attività autonoma del coniuge era quello di manutenere e fornire assistenza ai mezzi commercializzati dall’anzidetta società. Seguivano ulteriori sei atti, con cui i due coniugi avevano acquistato altri fondi per la superficie complessiva di 18.000 mq., senza però menzionare nei relativi rogiti il regime di comunione legale esistente tra loro. Gli acquisti risultavano, così, eseguiti esclusivamente dal marito. Di fatto, negli atti, la moglie pur intervenuta alla stipula, aveva dichiarato che gli immobili oggetto degli acquisti non rientravano nella comunione dei beni in quanto da considerarsi necessari per l’esercizio della professione del coniuge, e ciò in conformità all’art. 179, lett. d), c.c..
2.1. L’incipit della vertenza giudiziaria
La donna convenne in giudizio il marito innanzi al Tribunale di Cagliari. La domanda attrice aveva come fine la divisione di tutti i beni aziendali intestati al convenuto, nonché l’accertamento degli utili percepiti e percipiendi dallo stesso, oltre che dell’equivalente pecuniario riconducibile agli eventuali beni aziendali che fossero stati alienati dal medesimo convenuto successivamente all’intervenuto scioglimento della comunione legale. Ciò, a giudizio dell’attrice conseguiva quale effetto della pronuncia di separazione giudiziale, avutasi con sentenza del Tribunale di Cagliari del 2 maggio 2000, passata in giudicato. La difesa processuale dell’ attrice, sulla base di tale circostanza, ritenne corretto affermare che gli immobili acquistati dal marito fossero da considerarsi caduti “ipso iure” in comunione, ragion per cui l’attrice dichiarò di vantare il suo diritto di comproprietà nella misura del 50% su beni mobili ed immobili, nonché su quanto sugli stessi edificato, e ciò in virtù dell’art 178 c.c..[2]
L’attrice sosteneva, infatti, di essere «comproprietaria , per metà, anche di tutti i beni mobili dell’impresa artigiana del coniuge (ivi compresi gli utili, gli incrementi, le attrezzature nonché di qualsiasi altra posta patrimoniale ancora esistente all’atto dello scioglimento della comunione), oltre che delle quote della citata società ancora intestate al medesimo coniuge (poiché egli aveva sottoscritto tutte le quote di nuova emissione per effetto di un’operazione di abbattimento del capitale sociale e di contestuale ricostituzione)»[3].
Il convenuto resistette alla domanda, chiedendone il rigetto ed eccependo il consolidato acquisto per usucapione di tutti gli immobili dedotti in controversia, compresi quelli aziendali, e delle costruzioni su di essi insistenti.
In merito alla domanda di parte attrice, replicò la pendenza dello stato passivo a carico dell’azienda individuale da lui esercitata, di circa 400 milioni (di lire) e di circa 100 milioni (di lire) sui beni immobili acquistati. Il convenuto chiese, pertanto, che «l’attrice venisse condannata al pagamento della metà di tutti gli oneri correlati alla realizzazione delle opere edificate sugli immobili di sua proprietà esclusiva, nonché al rimborso a proprio favore di tutti gli oneri che erano derivati dall’esecuzione di quelle opere da parte di soggetti terzi, ai sensi degli art. 934 e 935 c.c. (…) All’udienza di trattazione l’attrice proponeva, in via subordinata rispetto alle domande già indicate nell’atto di citazione, domanda di annullamento o revoca o dichiarazione di nullità ovvero di inefficacia delle dichiarazioni di esclusione dei beni dalla comunione rilasciate dalla stessa attrice nei rogiti di compravendita per dolo, per errore e/o di diritto. Il convenuto eccepiva, a sua volta, la prescrizione di queste ultime azioni ulteriormente avanzate dalla (…), nonché la decadenza dalle stesse»[4].
2.2. La pronuncia di primo grado e gli esiti dell’appello
Con sentenza non definitiva del 5 novembre 2003, il Tribunale di Cagliari, accolse la domanda dell’attrice riconoscendole la proprietaria del 50% dei beni immobili oggetto di causa, in applicazione dell’art. 178 c.c. e rigettò la domanda riconvenzionale di usucapione del convenuto. Il Tribunale dispose la prosecuzione del giudizio per le successive operazioni di divisione dei beni con emissione di altre due sentenze non definitive. La prima n. 2414/2007, con la quale il Tribunale rigettò la domanda riconvenzionale del convenuto, in quanto gli edifici realizzati sui terreni acquistati erano divenuti di sua proprietà individuale, per accessione ex art. 934 c.c.; la seconda n. 2297/2014, rilevò la sussistenza del diritto in capo alla moglie alla rappresentazione dei frutti e degli utili percepiti e percipiendi dei beni comuni a far data dallo scioglimento della comunione, beni sui quali il marito aveva esercitato il possesso esclusivo, con decorrenza dalla data della domanda di divisione.
Con sentenza definitiva n. 1186 del 2017, il Tribunale, infine, ritenne non necessaria l’osservanza delle formalità previste dall’art. 789 c.p.c., e dichiarò esecutivo il progetto di divisione approntato dal c.t.u. ed, per l’effetto, assegnò all’attrice il complesso artigianale e relative pertinenze con l’obbligo per l’assegnataria di versare al convenuto un conguaglio pari a euro 38.500,00.
Il convenuto interpose appello presso la Corte d’Appello di Cagliari avverso tutte le pronunce e la moglie avanzò gravame incidentale.
Con la sentenza n. 557/2019, la Corte territoriale pur accogliendo parzialmente l’appello principale, confermò l’applicazione dell’art. 178 c.c. e l’esistenza della comunione “de residuo” dichiarandone lo scioglimento. Dichiarò la titolarità della moglie di un diritto di credito, corrispondente al 50% del valore dei beni, tra cui l’impresa esercitata a titolo personale dal marito durante il matrimonio. Dispose con ordinanza, la prosecuzione del giudizio di appello ai fini dell’accertamento in concreto dell’esistenza e dell’entità del credito, nonché dei relativi frutti.
La Corte cagliaritana ritenne che il Tribunale avesse correttamente considerato applicabile l’art. 178 c.c., in virtù del valore negoziale della dichiarazione resa dalla moglie negli atti pubblici di acquisto dei terreni. Di conseguenza, i beni da dividere avrebbero dovuto considerarsi inseriti nella realtà produttiva dell’azienda. Quindi, trattandosi al contrario di beni destinati all’esercizio dell’impresa individuale e, quindi, di beni oggetto della comunione de residuo, l’attrice potesse vantare per gli stessi solo un diritto di credito.
La Corte d’appello dà conto del dibattito che ha affannato la dottrina[5] e la giurisprudenza occupatasi della questione: propende per la tesi della natura obbligatoria del diritto del coniuge non titolare dell’azienda, il cui oggetto era il valore monetario dei beni che costituiscono l’azienda, dedotte le passività. In ragione di ciò, è, quindi, necessario considerare i beni in quanto inseriti nella realtà produttiva dell’azienda, «potendo l’attrice beneficiare dell’incremento residuo, pro quota, e ciò alla data in cui era intervenuto lo scioglimento della comunione legale».
3. La posizione della Suprema Corte: i motivi di ricorso
Avverso la sentenza non definitiva della Corte di appello di Cagliari la moglie propose ricorso per cassazione sulla base di tre motivi. Resistette con controricorso il marito intimato.
Con il primo motivo la ricorrente denunciava «la violazione e falsa applicazione degli artt. 177, 178, 179, 186, 191, 194, 718, 725, 726, 727, 728, 729, 1111, 1114, 1115 e 1116 c.c., dovendosi considerare, in difformità dall’impugnata sentenza, che l’esigenza di ripartire tra i coniugi pure i debiti gravanti sui beni destinati all’esercizio dell’impresa avrebbe dovuto considerarsi pienamente salvaguardata, anche riconoscendo al coniuge non imprenditore un diritto reale sugli stessi beni, senza necessità di trasformare il diritto di detto coniuge in un diritto di credito».
Il ragionamento logico proposto dalla ricorrente fa capo, alla portata letterale da attribuirsi all’art. 178 c.c., che in caso di diversa interpretazione condurrebbe a risultatati pregiudizievoli per il coniuge non imprenditore, soggetto principale che la norma mira a tutelare con l’istituto della comunione legale, anche a seguito dello scioglimento del vincolo coniugale. A tal proposito, la difesa della ricorrente evoca l’assenza di un orientamento univoco della Suprema Corte, così come l’esistenza di molteplici filoni dottrinari[6] che, sviluppati su argomenti contrapposti, condurrebbero a conseguenze differenti nell’applicazione della norma.
Con il secondo motivo, in via subordinata al primo, la ricorrente dedusse «la violazione e falsa applicazione degli artt. 177, 178, 179, 186, 189, 191, 192, 194, 718, 725, 726, 727, 728, 729, 1111, 1113, 1114, 1115, 1116, 2646, 2652, 2653, 2740 e 2741 c.c., sostenendosi che, ove si fosse qualificato il diritto del coniuge dell’imprenditore come diritto di credito, si sarebbe dovuto ritenere che, in caso di scioglimento della comunione “de residuo” ai sensi dell’art. 178 c.c., il coniuge dell’imprenditore avrebbe avuto diritto di prelevare, in relazione all’art. 192, comma 5, c.c., beni ricadenti nella predetta comunione sino a concorrenza del proprio diritto di credito, dovendosi reputare tale norma applicabile anche all’ipotesi della cd. comunione de residuo. In via ancora più subordinata, si chiede che la Corte dichiari che, al fine di evitare il concorso del credito del coniuge non imprenditore con quello degli altri creditori chirografari del coniuge imprenditore, al primo spetta una causa di prelazione facendo applicazione della previsione di cui all’art. 189 co. 2 c.c., e ciò sul presupposto che i beni della comunione de residuo vanno a comporre una massa separata dal patrimonio del coniuge imprenditore».
La ricorrente richiedeva inoltre che in ipotesi in cui i beni di cui all’art. 178 c.c. avessero natura immobiliare, si affermasse il principio in virtù del quale al coniuge non imprenditore non sarebbero opponibili le iscrizioni e le trascrizioni intervenute successivamente all’avvenuta trascrizione della domanda di divisione.
L’ultima doglianza della ricorrente -espressa nel terzo motivo di ricorso- denunciò «- ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c.- la violazione e falsa applicazione degli art. 99 e 112 c.p.c., nonché degli articoli 177, 178, 179 e 194 c.c., e congiuntamente – in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) – la nullità del procedimento o della sentenza, sull’asserito presupposto dell’illegittimità della decisione gravata nella parte in cui aveva dichiarato che ogni statuizione successiva all’espletamento della c.t.u. avrebbe potuto limitarsi soltanto all’accertamento del credito ad essa ricorrente spettante, ma non anche alla condanna del Cannas Piero al relativo pagamento».
4. L’ordinanza interlocutoria n. 28872/2021
Come anticipato in epigrafe, l’ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione civile della Corte di Cassazione ha richiamato l’attenzione sul dubbio atavico circa la natura (creditizia oppure reale) della cd. “ comunione de residuo”, mai pienamente chiarito da un orientamento univoco delle pronunce della Suprema Corte. Ad avviso della Sezione rimettente, in favore della tesi della natura creditizia del diritto del coniuge non imprenditore[7], la valorizzazione delle esigenze sottese all’istituto della comunione “de residuo” si imporrebbe come priorità. Da questo punto prospettico, pari dignità giuridica avrebbero sia l’esigenze del coniuge non imprenditore di vantare una legittima aspettativa sugli incrementi di valore di quei beni, sia quelle del coniuge imprenditore di operare liberamente le sue scelte imprenditoriali. Le Sezioni unite enfatizzano questo profilo soffermandosi sulla disciplina della comunione legale dei coniugi e sulla ratio giuridica ad esso sottesa. Conseguente all’accoglimento della tesi, il diritto creditizio, sarebbe pari alla differenza tra la metà del valore del patrimonio dell’altro – ovviamente determinato con riferimento ai beni ex art. 177, lett. b) e c), c.c., nonché eventualmente ex art. 178 c.c. – e la metà della propria massa ugualmente destinata alla comunione residuale (valori, questi, che, secondo tale seconda tesi, andrebbero calcolati, oltretutto, una volta dedotti i rispettivi debiti personali) [8].
La Corte rimettente segnala l’impostazione, a contrario, di altra parte della dottrina sostenitrice della natura reale del diritto del coniuge non imprenditore sui beni ricadenti nel novero della cd. “ comunione de residuo”. Il suo principale argomento è dato dall’art. 177 lett. a) e b), ove si prevede che i beni interessati “costituiscono oggetto della comunione”, e dall’art. 178 c.c., (quanto all’azienda gestita solo da un coniuge), dove il dettato normativo statuisce che i beni destinati all’esercizio dell’impresa, quando essa sia costituita dopo il matrimonio, e gli incrementi dell’azienda, nel caso in cui questa sia costituita anche in precedenza, “si considerano oggetto della comunione”, sempre che sussistano ancora al momento dello scioglimento della comunione legale[9].
La questione devoluta alle Sezioni Unite, se si tratti di un diritto reale oppure di un diritto di credito, assume particolare rilevanza non solo per l’incidenza diretta sulla posizione dei coniugi, ma anche, e forse in maniera ancora più significativa, nei rapporti con i terzi, e soprattutto con i creditori del coniuge imprenditore, e ciò in particolare nel caso in cui la situazione debitoria abbia infine determinato l’insorgenza, ad esempio, di una procedura concorsuale.
5. La decisione delle Sezioni Unite: Il principio solidaristico della comunione legale tra coniugi e il carattere recessivo
La Suprema Corte parte esaminando la novella del 1975 che, a più di 40anni dalla sua pubblicazione, ha assistito a numerose soluzioni interpretative con evidenti esiti contrapposti in tema di comunione “de residuo“.
Il regime patrimoniale della comunione legale tra coniugi, voluto dalla legge n. 151/1975, esteso oggi alle unioni civili tra persone dello stesso sesso per effetto dell’art. 1, comma 13, della legge n. 76/2016, ha dato fondamento al concetto di compagine familiare considerata come “consortium omnis vitae”, rispondendo in pari tempo all’esigenza di fornire tutela al coniuge economicamente e socialmente più “debole”, e ciò in funzione complementare rispetto al sistema degli obblighi nascenti dal matrimonio stesso ed incidenti, direttamente o indirettamente, sul patrimonio dei coniugi. Con ciò non si è inteso privare ciascuno dei coniugi di una sfera di autonomia nell’esercizio delle proprie attività professionali o imprenditoriali ed, in generale, nella gestione dei propri redditi da lavoro come pure dei frutti ricavati dai beni personali.
Il legislatore del 1975 ha disciplinato la materia, infatti, con l’intento di coniugare principi costituzionali, di pari rango, operando un necessario ed equilibrato bilanciamento (art. 29 Cost., art. 3 Cost. art. 41 Cost., art. 35 Cost.). La diretta conseguenza voluta dalla legge 151/1975 è stata di quella di prevedere accanto ai beni che ricadono in comunione immediata, al momento del loro acquisto, tutta una serie di beni altri che vanno a ricadere in comunione de residuo, che restano «personali durante la vigenza del regime patrimoniale legale, ma che sono attratti alla disciplina della comunione legale nella misura in cui gli stessi siano sussistenti al momento dello scioglimento della comunione (essendovi poi una serie di beni che nascono come personali e restano tali anche una volta cessata la comunione legale). Affinché possa insorgere il diritto dell’altro coniuge su detti beni è però necessario che gli stessi siano effettivamente e concretamente esistenti nel patrimonio dei coniugi al momento dello scioglimento, di guisa che l’instaurazione di una situazione di comunione de residuo è configurata nel sistema della riforma come evento incerto nell’an, in quanto subordinato alla circostanza della sussistenza del residuum al momento dello scioglimento della comunione legale, ed incerto altresì nel quantum, poiché la contitolarità riguarderebbe esclusivamente quella parte di beni che residuino alla cessazione del regime patrimoniale legale. L’individuazione dei beni oggetto della cd. comunione de residuo si trae dagli articoli 177 lett. b) e c) e 178 c.c., che però differiscono nella loro formulazione letterale, in quanto mentre l’art. 177 prevede che i beni ivi contemplati «costituiscono oggetto» della comunione, se ed in quanto esistenti all’atto dello scioglimento, nell’art. 178 c.c. i beni destinati all’esercizio dell’impresa costituita da uno dei coniugi dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa, anche costituita precedentemente, «si considerano oggetto». La disciplina dei beni personali e quella specificamente dettata per i beni oggetto della cd. comunione de residuo testimoniano l’evidente emersione, pur all’interno di un regime ispirato alla tutela di esigenze solidaristiche tra i coniugi, della necessità di attribuire rilevanza anche a legittime aspirazioni individuali, che non potrebbero essere del tutto mortificate, e ciò in quanto il matrimonio presuppone comunque il riconoscimento della persona e della sua sfera di autonomia come valore primario che gli istituti giuridici sono chiamati ad attuare, soprattutto ove l’attività individuale si rivolga all’esercizio dell’attività di impresa o professionale»[10].
In particolare, l’art. 178 c.c., appare munito del fine di non coinvolgere il coniuge “non imprenditore” nella posizione di responsabilità illimitata dell’altro, assicurando al primo il potere di gestione dell’impresa, investendo a suo piacimento gli utili, e disponendo nel modo più libero dei beni e degli utili aziendali. Ciò comporta che i beni oggetto della comunione de residuo, ed in particolare quelli di cui all’art. 178 c.c., non possano considerarsi comuni, almeno fin tanto che non sia intervenuta una causa di scioglimento del regime legale, parimenti non rilevando, a tale scopo, la sola cessazione della destinazione dei beni all’impresa ovvero il venir meno della qualità di imprenditore in capo al coniuge.
La Corte reputa, però, necessario osservare come le esigenze solidaristiche familiari, cui risponde il regime di comunione legale, siano state in parte reputate dal legislatore, come “recessive” di fronte all’esigenza di assicurare il soddisfacimento di altri concorrenti diritti di pari dignità costituzionale.
La Corte di Cassazione rintraccia in ciò la possibilità di prediligere la tesi della natura creditizia del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo, «tesi che, senza vanificare in termini patrimoniali l’aspettativa vantata dal coniuge sui beni in oggetto, tra l’altro garantisce la permanenza della disponibilità dei frutti e dei proventi e dell’autonomia gestionale, quanto all’impresa, in capo all’altro coniuge, nelle ipotesi previste dall’art. 178 c.c., evitando un pregiudizio altresì per le ragioni dei creditori, consentendo in tal modo la sopravvivenza dell’impresa, e senza che le vicende dei coniugi possano avere una diretta incidenza sulle sorti della stessa».
Si arriva con questo ad escludere la tesi che afferma la natura “reale” del rapporto, per cui si «avrebbe un incremento dei legami economici fra i due coniugi proprio quando e, anzi addirittura, proprio “perché” si sono prodotte vicende che, secondo la stessa previsione legislativa, ne dovrebbero invece comportare la cessazione. Né va trascurato il fatto che il passaggio automatico dei beni comuni de residuo dalla titolarità e disponibilità esclusive del coniuge al patrimonio in comunione si tradurrebbe in una menomazione dell’autonomia e della libertà del coniuge stesso, che il legislatore ha, invece, inteso salvaguardare nella fase precedente allo scioglimento, con il rischio che la conflittualità tra coniugi, che spesso caratterizza alcune delle fattispecie che determinano le cessazione del regime patrimoniale legale, possa riverberarsi anche nella gestione e nelle scelte che afferiscano ai beni aziendali caduti nella comunione de residuo».
6. La soluzione delle Sezioni unite: la comunione de residuo ha natura creditizia
La soluzione – che la Corte di Cassazione intende affermare – riconduce la comunione “de residuo” al carattere creditizio del diritto sui beni che ne siano oggetto. Invoca, la non univocità del testo normativo che, ciò nonostante, appare esprimere coerenza con il canone espresso all’art. 12, co 1, delle Preleggi.
Si impone all’interprete di «attribuire alla legge il senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la loro connessione, costituendo la lettera della norma, infatti, limite invalicabile dell’interpretazione, che è uno strumento percettivo e recettivo e non anche correttivo o sostitutivo della voluntas legis. […] Così come del pari non si rivela insormontabile il richiamo alla mancata disciplina all’interno dell’art. 192 c.c. tra i rimborsi e le restituzioni dovuti tra coniugi al diritto di credito spettante al coniuge non imprenditore, potendosi obiettare che in realtà l’omissione si giustifica per la esaustività della disciplina della comunione de residuo nelle norme appositamente dettate. Così come parimenti priva di solidità risulta l’obiezione secondo cui l‘attribuzione di un mero credito pecuniario vanificherebbe l’aspettativa del coniuge non imprenditore alla partecipazione all’ulteriore aumento di valore dei beni aziendali intervenuto dopo lo scioglimento della comunione legale, potendosi agevolmente opporre a tale deduzione il rilievo per cui, proseguendo la gestione dell’impresa da parte del coniuge che già lo faceva prima, non è giustificabile alcuna aspettativa del coniuge non imprenditore, essendo venute meno, con la cessazione del regime della comunione legale» (…)[11].
La Corte di legittimità opta, pertanto, per la tesi della natura creditizia del diritto nascente dalla comunione de residuo, e riconosce un diritto di compartecipazione di natura creditoria, quantificabile in un valore pari alla metà dell’ammontare del denaro o dei frutti oggetto di comunione de residuo, ovvero del controvalore dei beni aziendali e degli eventuali incrementi, al netto delle passività.
Afferma il seguente principio di diritto:
“Nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella cd. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all’altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data”.
In applicazione del principio enunciato, quindi, la Suprema Corte perviene al rigetto del primo motivo di ricorso, avendo la sentenza impugnata deciso in maniera conforme, optando appunto per la tesi della natura creditizia del diritto della ricorrente. La decisione della questione nei termini sopra esposti determina l’infondatezza anche delle censure mosse nel secondo motivo di ricorso.
Meritevole di accoglimento è, invece, il terzo motivo di ricorso.
La Corte di legittimità parte dalla natura creditizia del diritto spettante alla ricorrente e considera il fatto che che la ricorrente abbia proposto una domanda di divisione, respinta dalla Corte territoriale in ossequio ad un principio che, la Corte di Cassazione nella sentenza in commento definisce come “un approccio eccessivamente formalistico” del giudice di merito e che “[…] la soluzione adottata non tenga conto del diverso principio secondo cui il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, […] non è tenuto a uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti, ma deve aver riguardo al contenuto della pretesa fatta valere in giudizio e può considerare, come implicita, un’istanza non espressa ma connessa al “petitum” ed alla “causa petendi“[12]. Per la Suprema Corte non può tralasciarsi, infatti, il dettato dell’art. 195 co. 2 c.p.c. che consente ad una tale domanda di sostenere anche una richiesta di condanna.
In termini di estrema sintesi, la Cassazione ha dato accoglimento al motivo in esame, cassando nella parte de qua la sentenza impugnata. Ha rinviato alla Corte d’Appello di Cagliari, che nel prosieguo del giudizio dovrà altresì condannare il convenuto al pagamento di quanto eventualmente dovuto alla ricorrente, una volta esaurite le ulteriori attività istruttorie.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
[1] Conforme, Cass. 4393/2011.
[2] I beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa.
[3] Cass. civ. sent. Sez. U., 17/05/2022 n.15889 (ECLI:IT: CASS:2022:15889CIV), udienza del 10/05/2022, Presidente SPIRITO A., Relatore CRISCUOLO M. in www.cortedicassazione.it, p.4
[4]. Cass. civ.. 15889/2022, cit., p.5
[5] Il contrasto esistente anche in ambito dottrinale è riportato sul punto da, Cass. sez. II civile, ord. Interlocutoria n.28872 del 19/10/2021: “Per un verso, si è fatta strada la tesi della formazione ex lege di una situazione di reale contitolarità circa i diritti in oggetto e, per altro verso, è stata sostenuta quella della natura puramente creditizia delle pretese dei coniugi, che si risolverebbero in una mera partita di conto tra i valori delle due masse, con conseguente nascita di un diritto di credito, in capo al coniuge titolare della massa meno consistente, sulla differenza tra la metà del valore del patrimonio dell’altro – ovviamente, ci si riferisce solo a quello rilevante ex art. 177 c.c., lett. b) e c), nonché eventualmente ai sensi dell’art. 178 c.c. – e la metà della propria massa ugualmente destinata alla comunione residuale (valori, questi, che, secondo tale seconda tesi, andrebbero calcolati, oltretutto, una volta dedotti i rispettivi debiti personali)”. In dottrina DE ROSA, La natura della comunione de residuo, in familia.it , 11/2021, Pacini Giuridica;
[6] In dottrina, PARENTE, Struttura e natura della comunione residuale nel sistema del codice riformato, FI, 1990, I, 2333 ss.; AULETTA 1999, 112 ss.; RIMINI 2001, 68 ss.; SPITALI 2002, 134 ss., OBERTO, I contratti della crisi coniugale, Milano, 1999, I, 164 s..; GIGLIOTTI, Trattamento di fine rapporto e regime patrimoniale della famiglia, D. FAM., 1997, 723, TRANI, D. FAM.,5/1997 GIUSTI, L’amministrazione dei beni della comunione legale, Milano, 1989, 34; BIANCA, La comunione legale, a cura di Bianca, I, 2ss.; BUSNELLI, R. not. 76, I, p. 32, Sulla comunione si veda SCHLESINGER, Comm. dir. it. fam., III, p.73. GABRIELLI, Regime patrimoniale della famiglia, D. 4a ed., p.33; AVONDOLA, Fam., pers. e succ.,2006, p.218; RUSSO, Considerazioni sull’oggetto della comunione, in Studi sulla riforma del diritto di famiglia, Milano, 1973, p. 11 ss, ed altri.
[7] Così sostenuta in motivazione da Cass. n. 7060/1986 e Cass. n. 4533/1997. La II sezione remittente evidenzia (come si legge nella sentenza in commento) che: «La stessa Corte d’Appello ha però richiamato in motivazione Cass. n. 19567/2008 della Sezione tributaria di questa Corte, la quale, invece, lascerebbe presupporre – ma anche in tal caso senza una presa di posizione del tutto chiara ed approfondita – la preferenza per la natura reale del diritto in questione, essendosi statuito che, in tema di imposta sulle successioni, il saldo attivo di un conto corrente bancario, intestato – in regime di comunione legale dei beni – soltanto ad uno dei coniugi, e nel quale siano affluiti proventi dell’attività separata svolta dallo stesso, se ancora sussistente, entra a far parte della comunione legale dei beni, ai sensi dell’art. 177, primo comma, lett. c), c.c., al momento dello scioglimento della stessa, determinato dalla morte, con la conseguente insorgenza, solo da tale epoca, di una titolarità comune dei coniugi sul predetto saldo, evidenziandosi che lo scioglimento attribuisce invero al coniuge superstite una contitolarità propria sulla comunione e, attesa la presunzione di parità delle quote, un diritto proprio, e non ereditario, sulla metà dei frutti e dei proventi residui, già esclusivi del coniuge defunto».
[8] L’ordinanza di rimessione non manca di segnalare che la questione è stata oggetto di interesse anche della giurisprudenza di merito, che si è però in prevalenza schierata nel senso che la comunione de residuo determina l’insorgenza di un mero diritto di credito e non attribuisce al coniuge non imprenditore alcuna automatica ragione di contitolarità rispetto ai beni aziendali, essendo la sua posizione subordinata al previo soddisfacimento dei creditori dell’impresa. A tale ultima soluzione, ha aderito la giurisprudenza di Cassazione -sezioni penali- con di questa Corte che, con la sentenza n. 42182/2010, in tema di confisca dell’intero del complesso aziendale, acquistato in regime di comunione legale dal solo coniuge imprenditore poi condannato, ove l’attività imprenditoriale continui ad essere svolta anche dopo lo scioglimento della comunione, in quanto bene strumentale rientrante nella cosiddetta comunione “de residuo”. Si veda massima: «È legittima la confisca per l’intero del complesso aziendale acquistato in regime di comunione legale dal solo coniuge imprenditore poi condannato ove l’attività imprenditoriale continui ad essere svolta anche dopo lo scioglimento della comunione, in quanto bene strumentale rientrante nella cosiddetta comunione “de residuo”. (In motivazione la Corte ha precisato che al momento dello scioglimento della comunione legale dei beni, al coniuge non imprenditore spetta soltanto un diritto di credito di natura personale pari alla metà del valore dei beni facenti parte della comunione “de residuo” sicché l’effettiva disponibilità, a titolo di proprietà, di detti beni, può essere attribuita al coniuge non imprenditore solo se vi sia stata cessazione dell’impresa o se il bene sia stato sottratto alla sua originaria destinazione attraverso la richiesta di divisione dei beni oggetto della comunione: in difetto di tali condizioni il bene è soggetto a confisca per l’intero) ». Cassazione penale, Sez. III, sentenza n. 42182 del 29 novembre 2010 (Cass. pen. n. 42182/2010).
[9] Tra precedenti a sostegno della natura reale, ex multis, Cass. n. 2680/2000, Cass. n. 7060/2004, Cass. n. 19567/2008, Cass. n. 13760/2015, Cass. n. 4393/2011.
[10] Cass. civ. sent. Sez. U., 17/05/2022 n.15889, cit. par. 7,7.1.
[11] Principio fondamentale più volte riaffermato dalla Cassazione in Cass. S.U. n. 8230/2019 e più di recente, in tal senso, Cass. S.U. n. 24413/2021, secondo cui “l’attività interpretativa, quindi, non può superare i limiti di tolleranza ed elasticità dell’enunciato, ossia del significante testuale della disposizione che ha posto, previamente, il legislatore e dai cui plurimi significati possibili (e non oltre) muove necessariamente la dinamica dell’inveramento della norma nella concretezza dell’ordinamento ad opera della giurisprudenza” (conf. Cass. S.U. n. 2061/2021).
[12] Così, ex multis, Cass. n. 7322/2019; Cass. n. 118/2016
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Avvocato, iscritta presso Ordine Avvocati di Salerno, con patrocinio in Corte di Cassazione e altre Magistrature Superiori.
Laureata in Giurisprudenza nel 1994 presso UNISA-Università degli Studi di Salerno.
Tra i vari, titoli conseguiti si annoverano:
Specializzazione universitaria in professioni legali; Master universitario in E-Government e Management della Pubblica Amministrazione; Master universitario in diritto amministrativo.Dal 2019 è membro confermato del Consiglio Direttivo Provinciale di Salerno dell’associazione Nazionale-Europea A.N.AMM.I.. Ha, inoltre, conseguito idoneità in concorso pubblico per titoli ed esami per attività giuridico-amministrativo e medico-legale del laboratorio di igiene e medicina del lavoro presso UNISA (Dipartimento di medicina e chirurgia), Scuola Medica Salernitana dell´Università degli studi di Salerno.Dal 2020 ha conseguito titoli di aggiornamento professionale per funzioni di mediatore civile e commerciale; idoneità REI CINECA (collaboratori Area Economica) per docenza, esercitazioni/laboratori, didattica presso UNIMIB Università degli Studi di Milano-Bicocca; idoneità Collaboratori Alta Formazione triennio 2019 - 2022 - Area Giuridica/ Higher Education Collaborators – presso UNIMIB Università degli studi Milano Bicocca.
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