Silenzio, accertamento atipico e potere discrezionale non esercitato

Silenzio, accertamento atipico e potere discrezionale non esercitato

Le questioni sottese all’ammissibilità di un’azione di accertamento atipica in ipotesi di potere discrezionale non esercitato attengono alla tematica del cd. silenzio inadempimento: si tratta di una fattispecie trasversale, che investe sia profili sostanziali, specie in punto di obbligo dell’amministrazione di provvedere, sia profili processuali, relativi ai poteri di cui dispone il giudice amministrativo a fronte del mancato esercizio del potere.

L’attenzione deve essere rivolta all’attività amministrativa discrezionale posto che, come si vedrà nel prosieguo, quella vincolata è meno problematica in parte qua, e di più agevole soluzione.

La premessa metodologica muove dalla distinzione tra silenzio significativo, o provvedimentale, e silenzio non significativo, ed attiene al piano squisitamente sostanziale. Nel primo caso la legge riconnette all’inerzia della PA il significato di accoglimento o di rigetto dell’istanza: si tratterà, rispettivamente, degli istituti del silenzio assenso, generalizzato per i procedimenti ad istanza di parte dall’art. 20 L. 241/90 e del silenzio diniego, previsto espressamente dall’art. 25 c. 4 L. 241/90 in materia di accesso ai documenti amministrativi.

Il silenzio inadempimento, viceversa, opera negli ambiti non coperti da silenzio significativo, e non ha valenza provvedimentale ma di pura omissione, id est inadempimento dell’obbligo della PA di provvedere. In particolare nei procedimenti discrezionali ad istanza di parte l’istituto in parola coincide con le eccezioni normative che impediscono l’operatività del meccanismo del silenzio assenso, previste dall’art. 20 c. 4 L. 241/90. Presupposto perché si perfezioni l’inerzia non qualificata è l’esistenza dell’obbligo di provvedere, che l’art. 2 L. 241/90 ricollega sia ai procedimenti che seguano obbligatoriamente ad un’istanza di parte, sia a quelli che debbano essere iniziati d’ufficio, in virtù di situazioni di interesse qualificato che possono sorgere in capo ad eventuali controinteressati.

L’obbligo di provvedere discende direttamente dai principi di imparzialità e buon andamento, e non è escluso neanche dal carattere manifestamente infondato della domanda: in questo caso la PA è comunque tenuta a rispondere seppur in forma semplificata, con un provvedimento espresso la cui motivazione consista in un sintetico riferimento alla questione di fatto o di diritto ritenuta risolutiva.

L’obbligo di provvedere non sorge, invece, a fronte di attività vincolate non solo nel quid o quomodo, ma anche nell’ an: così non potrà mai formarsi il silenzio inadempimento a fronte della richiesta del privato di attivazione del potere di autotutela amministrativa, trattandosi di potere assolutamente discrezionale anche in ordine alla scelta se attuarlo o meno.

A fronte del silenzio illegittimamente serbato dalla PA sull’istanza del privato, titolare di interesse pretensivo, un primo rimedio di carattere sostanziale consiste nell’attivazione del potere sostitutivo previsto dall’art. 2 c. 9 bis ss L. 241: decorso il termine di conclusione del procedimento, che va dai trenta giorni (come termine ordinario) ai 180 in caso di procedimenti complessi, il privato può rivolgersi al soggetto apicale che sia stato individuato dall’organo di governo della PA come titolare del potere sostitutivo. Questi sarà tenuto a concludere il procedimento entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto, e l’inerzia del funzionario inadempiente verrà valutata ai fini disciplinari e amministrativo-contabili.

Il rimedio giudiziale contro il silenzio è invece disciplinato dal Codice del Processo, artt. 31 e 117: l’azione processuale è esperibile quando il privato non abbia ricevuto risposta alcuna, neppure a fronte dell’attivazione del potere sostitutivo.

Prima di esaminare l’azione de qua giova individuarne i precipitati in punto di giurisdizione, a partire dall’art. 7 CPA che devolve alla giurisdizione amministrativa le controversie concernenti “l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo”: questo significa che l’omissione non provvedimentale è diretta espressione di potere amministrativo. Lo schema è anche qui norma- potere- effetto, in cui a fronte della norma attributiva del potere la sua mancata attivazione comporta lesione dell’interesse, verosimilmente pretensivo, dell’istante. Il fatto che in concreto il provvedimento non sia stato adottato non recide nè attenua il collegamento funzionale con il potere e la posizione giuridica di interesse del privato non muta né si rafforza. Questo è confermato dall’art. 7 c. 4 che devolve alla giurisdizione generale di legittimità le controversie su “atti, provvedimenti o omissioni” delle PP.AA.: con il termine “omissioni” il legislatore ha inteso riferirsi all’inerzia non qualificata, posto che il silenzio provvedimentale già rientra nella giurisdizione generale di legittimità per effetto del riferimento ad “atti” o “provvedimenti”.

Il giudizio sul silenzio è attivabile dall’interessato per ottenere l’accertamento dell’obbligo di provvedere: dal combinato disposto degli artt. 31- 117 CPA emerge un sistema in cui è sufficiente che sia decorso il termine di conclusione del procedimento , senza necessità di previa diffida. Con ciò il legislatore ha inteso porre fine all’orientamento che, considerando non autonomamente impugnabile l’inerzia che non esitasse in un provvedimento lesivo, aveva introdotto la fictio iuris di considerare l’inerzia sulla diffida come silenzio provvedimentale, sotto forma di rigetto dell’istanza. Tale soluzione, resasi necessaria in un sistema in cui unica azione esperibile era quella caducatoria, non ha più ragion d’essere nell’attuale sistema impostato sul carattere proteiforme delle tutele.

Oggi il giudizio in parola si snoda attraverso due fasi: la prima, necessaria, è di cognizione, in cui il giudice valuta la sussistenza o meno dell’obbligo della PA di provvedere e si conclude con l’ordine di fornire una risposta al privato entro un certo termine (art. 34 c. 1 lett b); la seconda fase, meramente eventuale, è esecutiva e si attiva nei casi in cui la PA persista nell’inerzia a provvedere. In tale ultimo caso il giudice nominerà un commissario ad acta che provvederà in luogo nell’amministrazione inerte. Ma, si badi, la natura giuridica del commissario non è quella di organo ausiliario del giudice, poiché egli pone in essere un’attività prettamente amministrativa; sicché sarà considerato organo straordinario della PA, a differenza del suo omonimo nel giudizio di ottemperanza.

Occorre, altresì, precisare che mentre nel silenzio significativo il decorso del termine per provvedere esclude un intervento tardivo della PA poiché si perfeziona la fattispecie provvedimentale (salvi i successivi ed eventuali poteri di autotutela), nel silenzio inadempimento il decorso dei termini non consuma il potere. Da ciò consegue che nelle more del giudizio è ben possibile che intervenga il provvedimento tardivo: se di accoglimento, il giudice dichiarerà la cessazione della materia del contendere, salvi i profili risarcitori per il danno da ritardo; se di rigetto, il ricorrente ha l’onere di impugnarlo con i motivi aggiunti e il giudizio proseguirà con rito ordinario.

Tanto premesso, giova passare all’analisi dell’azione di accertamento, le cui problematicità attengono in particolare al fatto che non risulta essere ascritta al novero delle azioni tipiche a tutela dell’interesse legittimo. Tra queste, invero, ritroviamo l’azione di annullamento (art. 29), di condanna (art. 30), avverso il silenzio e dichiarativa di nullità (art. 31), ma nulla è detto sull’azione di accertamento.

Prima di esaminare la quaestio iuris sull’ammissibilità, in senso atipico, di un’azione di tal fatta nel processo amministrativo, nonché i relativi rapporti con l’azione avverso il silenzio, preme operare una distinzione tra azione di mero accertamento dell’illegittimità e azione di accertamento del rapporto. Nel primo caso l’accertamento giudiziale non esita in una pronuncia costitutiva, sicché si forma il giudicato sull’illegittimità provvedimentale ma non sussiste un corrispondente obbligo demolitorio da parte della PA. Tale azione è stata inizialmente avversata, sul presupposto che il giudizio amministrativo avrebbe carattere propriamente demolitorio, quindi impostato su una tutela tipica e costitutiva; sicché ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit. Negli anni successivi le novità più importanti in senso opposto sono rappresentate dall’azione di condanna al risarcimento del danno, prevista dalla legge 205/2000 e dall’azione di nullità di cui all’art. 21 septies L. 241/90; oggi è azione generalmente ammessa.

Le ragioni dirimenti sono sostanzialmente due: la prima parte dalla constatazione per cui l’accertamento è un minus rispetto all’annullamento, che lo presuppone, quindi qualsiasi pronuncia costitutiva presenta una componente di accertamento; la seconda motivazione trae linfa dal rinnovato assetto codicistico, incentrato sull’atipicità delle tutele sulla falsariga del processo civile. Conseguentemente si giunge ad ammettere l’esperibilità dell’azione de qua in via induttiva, sulla base delle disposizioni del CPA che si riferiscono alla componente dichiarativa delle pronunce giudiziali: senza pretesa di esaustività si pensi, a titolo esemplificativo, all’art. 31 c. 1 sull’ “accertamento” dell’obbligo della PA di provvedere; all’art. 31 c. 4 sull’ “accertamento delle nullità”; all’art. 34 c. 3 che prevede che ove nel corso del giudizio l’annullamento non risulti più utile per il ricorrente, il giudice “accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”. Non vi rientrerebbe, invece, il giudizio di cui all’art. 21 octies c. 2 in merito alle illegittimità non invalidanti che, sebbene si ponga sulla scia del giudizio sul rapporto, è piuttosto accertamento della “non illegittimità” del provvedimento affetto da vizi formali.

L’azione di accertamento del rapporto è, invece, quella che, ove fosse ammissibile, consentirebbe al giudice di conoscere della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio a fronte di interessi pretensivi. È quella che maggiormente interessa le ipotesi di potere discrezionale non esercitato, ove non c’è spazio per l’azione atipica di accertamento dell’illegittimità sia perché non c’è un provvedimento, neppure implicito, di cui lamentare la non conformità a legge sia perché la valutazione dell’illegittimità dell’inerzia rientra tra i poteri tipici del giudice del silenzio, ai sensi degli artt. 31-34 CPA. La cognizione sul rapporto nella giurisdizione su interessi legittimi implica che il giudice esamini il potere, poiché il rapporto esistente tra l’autorità e il cittadino è quello governato dallo schema norma-potere-effetto e si identifica nella gamma di soluzioni che il soggetto pubblico può prendere nel concreto esercizio di detto potere.

Proprio la pluralità di soluzioni in astratto possibili rende la cognizione sul rapporto spesso impraticabile, se non nell’ambito della tutela risarcitoria, che non ha incidenza diretta sull’attività amministrativa.

E infatti a lungo dottrina e giurisprudenza ne hanno escluso la configurabilità, rilevando come vi osti il principio della separazione dei poteri: se si consentisse al giudice di valutare la fondatezza dell’istanza si legittimerebbe una valutazione del merito amministrativo, con un’inammissibile invadenza degli spazi di discrezionalità riservati alla PA. A conforto di tale impostazione si suole richiamare la tassatività delle ipotesi di giurisdizione estesa al merito, oltre che la natura del processo amministrativo come giudizio sull’atto, teso essenzialmente a vagliarne la legittimità per mezzo di pronunce caducatorie. Tutto ciò impediva al giudice, in ipotesi di atto o inerzia illegittimi, di valutare la spettanza del bene della vita in capo al privato titolare dell’interesse pretensivo.

L’importanza della tematica de qua è ancor più evidente se si considera che, nell’impianto codicistico, l’accertamento del rapporto sotteso alla pretesa azionata in giudizio non sarebbe fine a se stesso bensì propedeutico all’azione di condanna al rilascio del provvedimento richiesto (azione di adempimento ex art. 34 c. 1 lett. C secondo inciso), esperibile solo contestualmente all’azione caducatoria o a quella avverso il silenzio. Mentre, tradizionalmente, un’azione di condanna stricto sensu si riteneva esperibile solo in sede di rito sull’accesso, sub specie di ordine di esibizione dei documenti richiesti.

Oggi al quesito se sia ammissibile l’accertamento atipico del rapporto in caso di potere discrezionale non esercitato il CPA offre una risposta parzialmente diversa rispetto al passato, collocata sistematicamente proprio nell’ambito del giudizio sul silenzio, ex art. 31 CPA. Vale a dire che il legislatore ha codificato lo scrutinio diretto sul potere, ma vi ha posto dei limiti, correlati alla sua effettiva estensione nel caso concreto.

In particolare, nell’attuale formulazione del c. 3 emerge come il legislatore abbia inteso, a tali fini, applicare un diverso modulo operativo a seconda che si tratti di attività discrezionale o vincolata.

Se l’attività è vincolata il giudice adito con il rito sul silenzio, una volta accertata la sussistenza dell’obbligo della PA di provvedere, può senz’altro procedere a valutare la fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, id est procedere ad accertare il rapporto sottostante e, conseguentemente, condannare la PA all’adozione del richiesto provvedimento. La ragione sta in ciò che, in casi di attività vincolata, il giudice si limita a conoscere di un effetto che è già implicito nei presupposti legali, non invadendo per questa via spazi riservati alla PA e non effettuando ponderazione di interessi contrastanti. Questo ha portato alcuni ad ipotizzare addirittura che l’attività vincolata sia retta dallo schema norma – fatto – effetto, limitandosi la PA ad un’operazione di “certificazione” di un effetto che si è già prodotto; pur tuttavia si ritiene prevalentemente che anche in tal caso lo schema operativo sia norma – potere – effetto, essendo comunque necessaria, affinché si produca il risultato finale, l’intermediazione del potere amministrativo.

Le fattispecie di attività discrezionale sono più problematiche. L’art. 31 c. 3 ammette il giudice a pronunciare sulla fondatezza in caso di “attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità”. La congiunzione “o” sottintende una relazione di alternatività: non si riferisce cioè all’attività vincolata “pura” che sia scevra da profili di discrezionalità ma all’attività discrezionale, in cui nondimeno la discrezionalità sia esaurita.

Per comprendere la ratio di siffatta limitazione giova ripercorrere i tratti essenziali della discrezionalità, id est del merito amministrativo, che è lo spazio riservato alla PA: essa implica un momento di giudizio (ponderazione di interessi contrapposti) ed uno di scelta (individuazione della soluzione che, in vista degli interessi coinvolti, è quella ottimale per il perseguimento dell’interesse pubblico).

È il momento della scelta ad essere pregnante: quella stessa scelta che nell’attività vincolata è fatta a monte dal legislatore qui è operata a valle sulla base della sola norma attributiva del potere, e passa necessariamente per il momento del giudizio operato dalla PA.

Orbene: in tali circostanze ammettere, sic et simpliciter, un sindacato pieno sulla spettanza, sol che il provvedimento emesso sia illegittimo o che la PA sia inadempiente all’obbligo di provvedere, implicherebbe condensare in capo al giudice il momento della scelta, con un inammissibile sconfinamento nel merito amministrativo. Analogamente escludere tale sindacato a priori esporrebbe il cittadino a possibili abusi, poiché questi resterebbe privo di tutela pure a fronte di reiterati provvedimenti illegittimi ovvero reiterata inerzia/inadempimento all’obbligo di provvedere.

L’art. 31 c. 3 CPA sposa una soluzione di compromesso ammettendo che, nell’ambito dell’azione avverso il silenzio o caducatoria, quindi mai in via autonoma, il giudice possa procedere all’accertamento della spettanza del bene se la discrezionalità, pur inizialmente presente, si sia in seguito esaurita. Sono questi, dunque, i presupposti che legittimano l’esperibilità dell’azione di accertamento del rapporto: la natura sostanzialmente vincolata dell’attività e la contestualità rispetto al rimedio caducatorio o avverso il silenzio.

L’ipotesi di “discrezionalità esaurita” è quella che, in passato, veniva considerata come di carenza di potere in concreto: il potere discrezionale si esaurisce in virtù dell’effetto conformativo del giudicato caducatorio, vale a dire che la reiterata adozione dei provvedimenti illegittimi aventi il medesimo oggetto e lo stesso destinatario consente al giudicato, che si forma in maniera progressiva, di coprire tutti gli aspetti della discrezionalità. Sicché la soluzione provvedimentale che residua può essere una soltanto, e di essa può conoscere il giudice amministrativo in sede di accertamento del rapporto.

Questa opzione interpretativa si applica non solo alla reiterata adozione di provvedimenti illegittimi ma anche alle ipotesi di reiterazione del contegno inadempiente, a fronte di successive sentenze che ne accertano l’illegittimità (id est : che accertino l’obbligo della PA di provvedere).

Il c. 3 art. 31 CPA prevede un’ulteriore condizione per l’accertamento del rapporto, che riguarda sia i casi di attività vincolata che quella a discrezionalità esaurita: vale a dire che non devono essere necessari adempimenti istruttori. Questo conferma che il locus naturale per l’istruttoria è il procedimento non il processo, che non può essere gravato da tali adempimenti. Il limite di questa impostazione è che circoscrive l’accertamento del rapporto al solo silenzio che intervenga in fase decisionale, non anche a quello endoprocedimentale.

In conclusione, e cercando di tirare le fila del discorso, si può affermare che la semplice circostanza che il potere discrezionale non sia stato esercitato non può ex se giustificare l’accertamento, da parte del giudice adito con l’azione contro il silenzio inadempimento, della spettanza del bene della vita in capo all’istante. Perché quest’effetto si produca è necessario che l’attività sia vincolata o che, se discrezionale, la discrezionalità sia esaurita per il tramite di plurimi provvedimenti od omissioni tutti parimenti illegittimi. Lo conferma l’art. 34 c. 2 CPA, che afferma come “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”.

Mentre è possibile affermare l’esistenza dell’azione autonoma e atipica di accertamento dell’illegittimità, non è parimenti predicabile la piena autonomia dell’azione di accertamento del rapporto. Sia a voler considerare l’azione ex art. 31 c. 3 CPA come tipica, perchè descritta nei suoi tratti e presupposti essenziali, sia a volerla considerare atipica perché non espressamente qualificata come azione di accertamento autonoma da parte del legislatore, può  concludersi che non è ammessa un’azione atipica di accertamento al di fuori dei presupposti ex art. 31 c. 3.

Il giudizio sul rapporto non può spingersi oltre il limite, intangibile, del merito e della discrezionalità amministrativa pura.


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