Sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa: il delitto di abuso d’ufficio

Sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa: il delitto di abuso d’ufficio

Il potere del giudice ordinario di sindacato sugli atti amministrativi trae origine dalla Legge sul contenzioso amministrativo, che agli artt. 4 e 5 prevede la disapplicazione per quegli atti che abbiano illegittimamente sacrificato un diritto soggettivo. Tale potere era ritenuto, da una parte della dottrina, una facoltà di carattere processuale che consentiva al giudice ordinario di decidere la causa senza tener conto dell’atto illegittimo; un’altra parte lo riteneva un istituto sostanziale riguardante non il provvedimento ma i suoi effetti, considerati giuridicamente irrilevanti.

La soluzione a cui si giunse era che, fuori dal processo de quo, l’atto avrebbe conservato la propria efficacia.

Oggi la questione deve essere rielaborata tenendo presenti i principi generali dell’ordinamento: l’istituto della disapplicazione può essere configurato come un conflitto tra norme in cui la lex superior derogat inferiori quindi il giudice, nell’applicazione della legge penale, può sindacare l’atto amministrativo, fonte di rango inferiore. Si può aggiungere altresì che, in base all’art. 101 della Costituzione, il giudice è soggetto solo alla legge e non ai regolamenti che possono dallo stesso essere applicati solo se conformi alle leggi: questo principio, contenuto all’art. 4 disp. Prel. c.c., è esplicazione del principio di legalità e di preferenza della legge, sovraordinata ad ogni tipo di regolamento (che non può disporre in contrasto con essa), ed è ulteriore giustificazione del potere di disapplicazione del giudice ordinario.

Tale potere di sindacato incontra un limite nell’impossibilità di valutare il merito amministrativo, cioè l’opportunità del provvedimento. Il controllo è quindi legato ai vizi dell’atto per violazione di legge e incompetenza: discussa era la possibilità di sindacato sull’eccesso di potere perché secondo parte della dottrina ciò è legato ad un controllo sul merito, precluso al giudice ordinario. Tale tesi è ormai superata dal dettato dell’art. 113 della Costituzione che vieta limitazioni al potere di impugnativa dei provvedimenti amministrativi.

In sintesi al giudice, civile o penale, è consentito controllare la legittimità dei provvedimenti in esame solo in via incidentale, disapplicando quelli illegittimi con effetti limitati alla controversia a lui sottoposta: solo il giudice amministrativo può annullare gli atti della pubblica amministrazione con effetti erga omnes.

L’istituto della disapplicazione è posto in funzione di garanzia del cittadino, è quindi pacifico che il giudice possa disapplicare in bonam partem. Profili di problematicità si sono posti in ambito penale per la disapplicazione in malam partem in quanto contraria ai principi generali del diritto penale. È necessario a riguardo distinguere il caso in cui il provvedimento concorre ad esprimere la regola di condotta come norma integrativa del precetto penale dal caso in cui invece l’atto ha rilevanza esterna: solo in quest’ultima ipotesi la Cassazione ammette la disapplicazione del provvedimento in malam partem anche quando questo si ponga come scriminante, escludendo l’antigiuridicità della condotta, o operi come causa estintiva del reato.

Un esempio può essere fatto considerando l’art. 734 c.p. sul deturpamento e distruzione di bellezze naturali: in questo caso la Cassazione ritiene che un’eventuale autorizzazione a costruire non valga ad escludere la punibilità del fatto penalmente rilevante, in quanto l’unico presupposto per l’applicazione della norma è la sottoposizione a  vincolo del bene, operando l’autorizzazione come modalità di gestione di tale vincolo considerabile al più per la valutazione dell’elemento soggettivo.

Uno dei reati in cui può senza dubbio prender vigore il sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa è l’abuso d’ufficio.

Soggetti attivi di questo reato, previsto all’art. 323 c.p., sono il pubblico ufficiale, l’incaricato di pubblico servizio, anche non pubblico impiegato, ma non il privato che riceva un ingiusto vantaggio, salvo accordo con il soggetto pubblico. L’abuso consiste nell’esercizio del potere fuori dal perimetro per cui questo è stato conferito e per finalità illegittime, sintomo di uno sviamento dello stesso. Evento del reato è l’ingiusto vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto: si postula a riguardo la teoria della doppia ingiustizia secondo cui, accanto al comportamento contrario al diritto deve trovare spazio l’ingiustizia del vantaggio o del danno che vi conseguono.

Da quanto premesso si deduce che, se il giudice non potesse sindacare sulla discrezionalità dell’agente pubblico, si restringerebbe ingiustificatamente l’area del penalmente rilevante.

Dal momento che l’abuso può realizzarsi anche attraverso gli strumenti civilistici, con cui sempre più spesso agisce la pubblica amministrazione, e non più solo con un formale atto amministrativo, la più attenta dottrina ha spinto il legislatore a rendere chiaro che il giudice penale ha il potere di verificare l’istruttoria e la motivazione del provvedimento così da ricavarne elementi per valutare il comportamento del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.

Torna a questo punto utile l’analisi sull’eccesso di potere in quanto il giudice si trova davanti alla necessità di analizzare non solo la contrarietà dell’atto alle norme imperative ma anche lo sviamento del potere rispetto allo schema che ne legittima l’attribuzione, come confermato nel 2011 dalla Cassazione a Sezioni Unite. Tale orientamento è confermato dal fatto che il bene giuridico protetto dal 323 c.p. è il corretto esercizio del potere da realizzare in presenza dei presupposti di attribuzione dello stesso, per perseguire fini istituzionali.

La giurisprudenza si è dovuta poi confrontare con la possibilità di integrare l’elemento normativo tenendo in considerazione la violazione dell’imparzialità ex art. 97 Cost., in mancanza dell’individuazione di una specifica norma violata. Per la Cassazione l’inosservanza di tale norma costituzionale integra gli estremi del 323 c.p. in quanto l’art. 97 Cost. impone all’agente pubblico una vera e propria regola di comportamento di immediata applicazione. In questo modo quello che può essere considerato sintomo dell’eccesso di potere rientra, come violazione di legge, nel sindacato del giudice penale.

Si può quindi concludere affermando che il giudice ordinario può sindacare il provvedimento amministrativo derivante dall’abuso di potere sia in considerazione dell’art. 113 Cost. sia, facendolo figurare come violazione di legge, in base all’art. 97 Cost.: per questi motivi il giudice penale non può esentarsi dal controllo sull’atto illecito e dalla sua disapplicazione.


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