Situazioni di necessità e soccorso privato
La regola enucleata dall’antico borcardo “Necessitas non habet legem” nonché l’interpretazione fattane sin dal passato e recepita in gran parte dai moderni ordinamenti Giuridici risultano essere alla base della concezione dello stato di necessità quale situazione d’urgenza eccedente l’ordinario (“extra-ordinem”) e, perciò, insuscettibile di una previa definizione e regolamentazione specifica (essendo un dato pregiuridico ma con ripercussioni rilevanti per il diritto): di qui, il ricorso ai principi fondamentali quale idonea spinta propulsiva dell’agire del soccorritore privato e ad apposite norme per la disciplina degli effetti giuridici derivanti.
La tematica è complessa, in quanto coinvolge profili penalistici e anche civilistici, soprattutto sul piano effettuale.
Così, dall’art. 54 c.p., che, expressis verbis, riguarda lo stato di necessità in un’ottica non definitoria bensì relazionale rispetto all’afferente figura del soccorso privato, si desume l’intenzione del Legislatore di riconoscere efficacia scriminante, salva l’ipotesi del comma 2 (<<[…] chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo>>) per la quale è più corretto parlare di soccorso di necessità, sia all’autosoccorso che al soccorso altrui, cd. difensivo (cfr.: <<[…] necessità di salvare sé o altri […]>>), in caso di <<[…] pericolo attuale di un danno grave alla persona […]>>.
La tradizionale ermeneutica ravvisa, quali elementi della fattispecie, che fa venir meno l’antigiuridicità del fatto (tenuto conto che l’Ordinamento non esprime alcun giudizio di preferenza se gli interessi in conflitto sono di pari valore, prediligendo, in caso contrario, il maggiore) la situazione di necessità (per sé o per altri), il pericolo attuale di un danno grave alla persona, la non causazione volontaria del fatto e la sua non evitabilità altrimenti e la proporzione tra fatto e pericolo.
Nonostante non sia palesemente ricavabile dalla struttura dell’articolo, poi, la sua lettura combinata con le altre norme del Codice (cfr., ad esempio, art. 41,2° comma c.p.), soprattutto di Parte Speciale (ex multis, art. 593 c.p.), induce ad operare un’opportuna distinzione tra il soccorso facoltativo e quello, invece, obbligatorio. Quest’ultima ipotesi presuppone l’analisi circa la sussistenza, in capo al soccorritore, di un obbligo di garanzia (gravante su determinati soggetti, muniti di idonei poteri di impedire offese verso beni altrui affidati alla loro tutela per l’incapacità dei titolari di provvedervi), di un obbligo di sorveglianza (gravante su soggetti privi di poteri impeditivi e consistente nel sorvegliare determinate attività, avvertendo i titolari dei beni giuridici, nel caso in cui questi fossero esposti ad eventi offensivi), di un obbligo di attivarsi (imposto dalla norma incriminatrice, a causa del verificarsi di un determinato presupposto di fatto indicato dalla stessa, a soggetti privi di idonei poteri impeditivi e di sorveglianza), considerando che fonti dell’obbligo di garanzia (e della sua interna ripetizione tra obbligo di protezione, obbligo di controllo e obbligo di impedimento di reati) siano la legge (specificamente quella extrapenale, determinando quella penale, invece, la nascita di un mero obbligo di attivarsi) e il contratto.
Dal punto di vista degli effetti, tuttavia, fatta eccezione dell’esclusione dell’eventuale antigiuridicità del fatto commesso in stato di necessità (cfr.: art. 54 c.p.), nulla sembra disporre il Codice Penale, per quanto riguarda le tutele restitutorie, in caso di avvenuti spostamenti patrimoniali proprio in base al soccorso privato.
La tematica, che investe profili nettamente civilistici, mostra, per tal via, l’irrilevanza dell’autosoccorso (non sussistendo nulla da restituire!) e, per converso, la rilevanza del solo soccorso altrui.
Il paradigma legale di riferimento potrebbe essere la gestione di affari altrui (negotiorum gestio), che, unitamente al pagamento dell’indebito e all’arricchimento senza causa, compone la disciplina delle “tutele restitutorie”, le quali si aggiungono a quelle risarcitorie, come risulta dalla stessa sequenza topologica nel Libro IV del Codice Civile.
L’istituto di cui al Titolo VI risulta, oggi, investito di una nuova esegesi riscoperta dalla Civilistica moderna, alla luce delle evidenti implicazioni anacronistiche derivanti dalla tradizionale interpretazione fedele alla lettera della norma: in tal senso, l’istituto si configura quale rimedio restitutorio a favore del gestor dal parte del gestus (cfr.: art. 2031, 1° comma c.c.) e caratterizzato dal trattamento di maggior favore (rispetto a quello ex art. 2041 c.c., ad esempio) garantito al primo in considerazione dell’utilità sociale di chi provveda agli affari di un soggetto assente. Da più parti, infatti, si evidenzia come la negotiorum gestio non sia più da considerare tanto come esempio di “obligatio ex lege” (annoverata nel genus dei quasi contratti) quanto come forma di “obligatio ex facto” (“fatto” inteso come atto giuridico in senso stretto, con la conseguente irrilevanza della “protestatio contra factum”), trattandosi di ingerenza (favorevole) nell’altrui sfera giuridica patrimoniale e personale (cfr.: art. 2 Cost.), con connotazioni sempre più patrimonialistiche.
In linea generale, l’Ordinamento Giuridico considera illecita l’ingerenza nell’altrui sfera (“Est culpa miscere se rei ad se non pertinenti”), a meno che non sia autorizzata o tollerata (cd. ingerenza lecita), creando, in tal senso, il fatto un contatto sociale che obbliga l’ingerente a continuare la sua azione, non tanto per la tutela dell’affidamento da lui determinato nell’ingerito, quanto perché l’interruzione potrebbe creare danni.
Dal punto di vista degli effetti, poi, l’ingerenza può essere favorevole (cfr.: art. 1327 c.c.; art. 2028 c.c.) e sfavorevole (cfr.: art. 2043 c.c.), oltre che neutra, cioè determinante esclusivamente l’obbligo di ristabilire l’originario equilibrio patrimoniale alterato (cfr.: art. 2033 c.c.; art. 2041 c.c.).
E’ alla luce di tali premesse che vanno interpretati, perciò, i requisiti che l’art. 2028 c.c. enumera per la configurabilità della negotiorum gestio: l’absentia domini; l’assenza di obbligo (rectius, spontaneità per il gestor), che escluderebbe automaticamente l’intervento necessitato (cioè, il soccorso obbligatorio per il gestore); l’alienità dell’affare; l’animus aliena negotia gerendi (consapevolezza dell’altruità dell’affare). Nel novero dei requisiti, la moderna dottrina espunge l’utiliter coeptum, che un tempo veniva, invece, considerato elemento della fattispecie (di modo che l’assenza della sola utilità iniziale determinasse la non configurabilità della gestione di affari e lo sconfinamento nell’ingerenza illecita): si considera, infatti, che l’utiliter coeptum incida sul piano delle conseguenze, contribuendo a determinare il regime delle restituzioni. Sotto il profilo del quantum. Quindi, se in base alla lettera dell’art. 2031 c.c., in presenza del suddetto requisito, il gerito rimborserà al gestore le spese sostenute (ciò a prescindere dal fatto che la gestione sia rappresentativa o meno), in assenza, invece, il gestore non otterrà alcun tipo di rimborso, rimanendo a suo carico il rischio dell’affare. In realtà, il gestore dovrà comunque restituire l’utile netto della sua attività di gestione al gerito, in base alle norme sul mandato (cfr.: art. 2030 c.c.; art. 1713 c.c.), a differenza di quanto è previsto dall’art. 2033 c.c.: perciò, egli si troverà in una posizione di vantaggi o meno, a seconda dell’esito favorevole o non dell’affare (nel caso in cui sia andato bene, infatti, il suo patrimonio non verrà inficiato da alcuna passività; nel caso di perdite, si accollerà il rischio; e nel caso di mancata produzione di profitto a causa della sua negligenza, sarà esposto a conseguenze risarcitorie). Non viene richiesta la sussistenza dell’utiliter gestum, che, invece, si ritiene essere requisito aggiuntivo indispensabile (seppur interpretato in senso lato, ritenendolo realizzato anche in base a fatti concludenti) per la gestione di affari della P.A. da parte del privato: la ragione di ciò si individua chiaramente nella necessità di tutelare il patrimonio pubblico, consentendo esborsi solo come extrema ratio.
In disparte l’analisi della capacità del gestor (per cui l’art. 2029 c.c. induce a prediligere la sussistenza necessaria della capacità di agire, oltre, che di quella naturale), requisito fondamentale è ritenuta l’ “absentia domini” (cfr.: art. 2028 , 1° comma c.c.: << […] finchè l’interessato non sia in grado di provvedervi da se stesso >>), che, lungi dall’essere relegata in un ambito esclusivamente patrimoniale e dall’essere considerata solo in senso stretto (come veniva fatto in passato), va intesa in relazione alla “prohibitio domini”, di cui all’art. 2031, 2° comma c.c., ammettendosi, così, anche la figura dell’ “absens prohibens” oltre che quella del “praesens prohibens”. Si ritiene, infatti, l’ “absentia domini” non solo secondo un’accezione forte (assenza in senso stretto, in presenza di attività discrezionale, vertente su diritto disponibili), ma anche in una debole, da intendersi, cioè, come semplice inerzia/disinteresse, in presenza di diritti indisponibili, protetti da norme imperative (cfr.: art. 2031, 2° comma c.c.): in tal caso, l’ingerenza è lecita anche quando il gerito è semplicemente inerte. Oltretutto, si consideri che la distinzione tra attività discrezionale e attività vincolata influisce anche sulla nozione di utilità da recepire: nel primo caso, guardandosi all’utilità ritenuta tale dal dominus, nel secondo, invece, a quella dei soggetti i cui diritti sarebbero pregiudicati dai comportamenti del dominus contrari a norme imperative, ordine pubblico, buon costume.
Diversa è l’ipotesi della tolleranza della gestione, che, secondo Taluni, è autorizzazione tacita da parte del gerito per l’affidamento determinato (di modo che il successivo rifiuto di costui rappresenta una forma di abuso del diritto), secondo Altri, invece, configura, a favore del gestore un’obbligazione risarcitoria ex art. 2043 c.c., per lesione dell’autonomia negoziale. E’, tuttavia, il requisito dell’animus aliena negotia gerendi ad avallare l’inclusione del soccorso privato (anche in situazioni di necessità, ma tenendo opportunamente in disparte il soccorso obbligatorio per l’interventore, difforme alla spontaneità richiesta dall’art. 2028 c.c.) nello schema della gestione di affari altrui. Ciò è a fondamento della natura solidaristica della figura. Natura, oggi, stemperata dalle riflessioni della moderna civilistica. Autorevole Dottrina, infatti, sostiene l’altruità dell’affare, non dell’interesse, ripudiando la spiegazione che la Giurisprudenza adduceva in passato per giustificare “interventi egoistici” (cioè, la suvvalenza del cointeresse del gestor rispetto a quello del gestus, da ritenersi preminente) e ammettendo, quindi, la gestione di affari altrui anche in presenza del cd. animus depredandi. Conclusione, questa, perfettamente coerente con la considerazione per cui non è né la patrimonialità né l’altruità dell’interesse a configurare la negotiorum gestio, bensì il fatto d’ingerenza (non illecita), che, in quanto atto giuridico in senso stretto, soggiace alla regola “Protestatio contra factum non valet”. Il requisito dell’altruità dell’affare va correlato all’utiliter coeptum dell’attività, poiché, se è vero che, in caso di attività discrezionale, il gerito manifesta una lecita “prohibitio”, in adeguamento alla medesima tutela dell’autonomia di questo (vertendosi in materia di diritti disponibili), non così in caso di attività vincolata, in cui il dominus dell’affare è obbligato da norme imperative, ordine pubblico e buon costume, data la preminenza che l’Ordinamento riconosce a tali situazioni, perciò definite indisponibili (cfr.: art. 2 Cost.; art. 5 Cost.; art. 32 Cost.; art. 41, 2comma Cost.). Si consideri, in tal senso, l’esempio richiamato spesso dalla Giurisprudenza in tema di obbligazione alimentare non adempiuta dal marito separato di fatto nei confronti della moglie ma surrogata dal padre di costei.
Nonostante anche quest’ultimo sia vincolato in base all’art. 441 c.c., si ritiene tale obbligo configurabile solo se << […] le persone richiamate in grado anteriore alla prestazione non sono in condizione di sopportare l’onere in tutto o in parte […] >>: in caso contrario, a fronte dell’illecita “prohibitio” (anche inerzia, ricorrendo, qui, l’absentia debole) del gerito. È lecitamente e favorevolmente reputata l’ingerenza del gestor/padre.
Al fine di una giusta valutazione del requisito dell’altruità dell’affare, poi, concorre anche la relazione dello stesso con la spontaneità (cfr.: art. 2028, 1° comma c.c.: <<Chi […] assume scientemente […]>>): è doveroso, infatti, prescindere da soluzioni aprioristiche che vertono verso la non configurabilità dell’istituto ex art. 2028 c.c. per il solo rapporto obbligatorio intercorrente tra gerito e gestore, ma analizzare il rapporto tra l’oggetto dell’obbligazione e l’atto gestorio, potendo essere quest’ultimo estraneo al contenuto dell’obbligazione e, sconfinando ragionevolmente, perciò, nell’area della negotiorum gestio.
Alla luce di quanto sostenuto, ben potrebbe il soccorso difensivo (tanto più se in situazioni di necessità) trovare, per quanto riguarda le conseguenze civilistiche in tema di restituzioni, idonea disciplina nella gestione di affari altrui, secondo questa moderna interpretazione, distinguendo, però, opportunamente tra soccorso facoltativo e soccorso obbligatorio, avendo quest’ultimo i predetti risvolti civilistici solo se la doverosità dell’intervento fosse rivolta al gerito e non al gestore (in base alla cd. absentia domini debole), altrimenti difetterebbe il requisito della mancanza di costrizione di cui all’art. 2028, 1°comma c.c..
Tali riflessioni, quindi, inducono a prospettare una ricostruzione dell’istituto della negotiorum gestio in modo più complesso e svincolato dalla linea interpretativa tramandata dalla tradizione romanistica: si tratta di una nuova esegesi imperniata su un’analisi più oggettiva, che prescinda dal fondamento prettamente solidaristico. Ciò non vuol dire che la figura sia esclusa nel caso in cui si tratti di contenuto dell’art. 2 Cost. . Anzi, l’istituto della gestione di affari altrui si presenta quale paradigma legale di riferimento per la regolamentazione di rapporti inerenti non solo alla sfera patrimoniale ma anche all’area più prettamente personalistica, in cui si collocano i ccdd. Rapporti di fatto (si vedano, ad esempio, i rapporti di cortesia), non sottraendo, tuttavia, idonee tutele a quelle attività doverose imposte da norme imperative, ordine pubblico e buon costume, solo rispetto alle quali l’indisponibilità dell’interesse impone una lata interpretazione dell’ingerenza, optando, invece, per una più restrittiva, nel caso in cui si versi nell’area della disponibilità.
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Avv. Concetta Tenneriello
Laureata nel 2010 a pieni voti assoluti presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II” con tesi in Diritto Processuale Civile, dopo aver conseguito il diploma di specializzazione presso la “Scuola di Specializzazione per le professioni legali”, ha continuato a coltivare gli studi non solo nel diritto civile, ma anche nel diritto penale e amministrativo abilitandosi alla professione legale dal 2013.
Avvocato iscritto dal 2015 presso l'Ordine degli Avvocati di Verona, esercita la professione legale, collaborando con vari studi presenti sul territorio nazionale e vantando, altresì, una collaborazione con l'autore nella stesura del libro “Il contratto di franchising” edito nel 2016 da “Giuffrè Editore – Temi di diritto privato e di diritto pubblico (collana diretta da Guido Alpa)”.
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