Società a partecipazione pubblica: la Cassazione conferma l’assoggettabilità al fallimento

Società a partecipazione pubblica: la Cassazione conferma l’assoggettabilità al fallimento

Cassazione Civile, Sezione I, Pres. A. Nappi- Rel. M. Ferro, del 07.02.2017, n. 3196

Le società a partecipazione pubblica sono assoggettate a regole analoghe a quelle applicabili ai soggetti pubblici nei settori di attività in cui assume rilievo preminente rispettivamente la natura sostanziale degli interessi pubblici coinvolti e la destinazione non privatistica della finanza d’intervento; saranno invece assoggettate alle normali regole privatistiche ai fini dell’organizzazione e del funzionamento. E ciò vale anche per l’istituzione, la modificazione e l’estinzione, ove gli atti propedeutici alla formazione della volontà negoziale dell’ente sono soggetti alla giurisdizione amministrativa, ma gli atti societari rientrano certamente nella giurisdizione del giudice ordinario.

Questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione, sez. I, nella sentenza n. 3196 del 07.02.2017, la quale, in continuità con un suo precedente orientamento, conferma l’assoggettabilità al fallimento delle società pubbliche, comprese le società cd. in house providing.

Nel caso di specie il Tribunale di Como ha dichiarato il fallimento di una società a responsabilità limitata di cui un Ente Locale è socio al 97,76%, a cui è stata affidata la gestione e la manutenzione del relativo patrimonio immobiliare. Avverso la sentenza dichiarativa di fallimento hanno proposto reclamo ex art. 18 L.F., dinanzi alla Corte di Appello di Milano, i creditori e l’ex amministratore della fallita.

La Corte di Appello ha rigettato i reclami, confermando la fallibilità della società a partecipazione pubblica, ritenendo che la partecipazione dell’Ente Locale al capitale della società non escluda la qualità di imprenditore commerciale della stessa, qualità quest’ultima, assunta con l’iscrizione nel Registro delle Imprese. Inoltre ha escluso che la società de quo rivestisse natura di società in house, per difetto del requisito del controllo analogo da parte del Comune partecipante, socio solo al 97,76%.

Con distinti ricorsi, ciascuno affidato a due motivi, ricorrono per Cassazione la società creditrice della fallita nonché l’ex amministratore, deducendo in primo luogo la violazione dell’art. 1 L.F., ossia la mancanza dei requisiti soggettivi di fallibilità in capo alla società debitrice, essendo quest’ultima organismo di diritto pubblico non fallibile, ovvero società in house providing; in secondo luogo, hanno dedotto un vizio di motivazione sullo stesso punto, non avendo la Corte di merito esaminato la natura di società in house della fallita, alla luce dei contratti di servizio stipulati con il Comune partecipante.

La questione vagliata dalla Suprema Corte attiene dunque alla assoggettabilità o meno al fallimento di una società a partecipazione pubblica, ossia una società di capitali cui il legislatore consente l’esercizio di determinate attività funzionalizzate al perseguimento dell’interesse pubblico.

Secondo la Cassazione, le ragioni che inducono a ritenere fallibili le società a partecipazione pubblica sono molteplici.

Innanzitutto milita a favore della fallibilità il chiaro dettato normativo. La Cassazione enuncia un reticolo di norme da cui emerge la sottoposizione al fallimento delle società a partecipazione pubblica: l’art. 4 della legge n.70/1975 vieta l’istituzione di enti pubblici se non in forza di un atto normativo; la stessa legge fallimentare all’art. 1 esclude dal fallimento gli enti pubblici, non anche le società pubbliche.

Tale indiscusso dato normativo è confermato da ultimo dal d.lgs. n. 175/2016 che all’art. 1 co. 3 dispone l’applicazione della disciplina codicistica alle società a partecipazione pubblica, “per tutto quanto non derogato dal presente decreto”, ed ancora all’art. 14 assoggetta espressamente le società a partecipazione pubblica alle disposizioni sul fallimento, concordato preventivo, nonché, ove ricorrano i presupposti, all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi.

Ad avviso della Corte non risulta pertinente neppure il richiamo, fatto dai ricorrenti, alla nozione di organismo di diritto pubblico, la quale rileva solo nelle operazioni di scelta del contraente, come precisato dall’abrogato Codice degli appalti (s.v. art. 26, co. 3, d.lgs. 163/2006).

Invero, la necessità che la qualità di ente pubblico sia attribuita da un’espressa disposizione di legge rinviene la sua ratio anche e soprattutto nelle esigenze di tutela dell’affidamento dei terzi che entrano in contatto con la società. Ad avviso della Cassazione, l’iscrizione nel Registro delle Imprese, ingenera nei terzi un affidamento sull’applicabilità alle società iscritte, delle consuete regole privatistiche sull’organizzazione ed il funzionamento delle stesse. Tale affidamento sarebbe frustrato se allo statuto dell’imprenditore commerciale si sostituissero peculiari disposizioni pubblicistiche.

Inoltre la mancata sottoposizione al fallimento delle società a partecipazione pubblica avrebbe conseguenze di non poco conto per l’Erario, giacchè i creditori della società pubblica diverrebbero creditori dell’ente pubblico di cui essa è propaggine.

Resta affermato che le società partecipate da una pubblica amministrazione hanno comunque natura privatistica ed in quanto tali sono esposte ai rischi connessi alla loro insolvenza (s.v. Cass. Sez. Un. n. 17287/2006).

E’ pertanto ribadito l’orientamento espresso da Cass. n. 22209 del 2013 secondo cui: “In tema di società partecipate dagli enti locali, la scelta di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che le stesse assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità”.

Sulla base di tale principio, la Corte di Cassazione rigetta entrambi i ricorsi condannando i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

Per ulteriori approfondimenti sull’argomento si veda:

Gli ermellini confermano il recente dettato normativo: anche le società in house providing possono fallire


Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.

Articoli inerenti