Società a ristretta base sociale: un habitat pericoloso

Società a ristretta base sociale: un habitat pericoloso

Principi generali sulla distribuzione degli utili[1]

Il profitto aziendale è il risultato positivo derivante dall’operatività dell’azienda, che è determinato valutando gli elementi attivi e passivi del bilancio patrimoniale.

Il risultato operativo aziendale può essere verificato solo alla fine del ciclo produttivo, ma per motivi pratici di soddisfazione delle esigenze reali e quotidiane dei soci la legge permette loro di ottenere un ritorno (se realizzato) a intervalli regolari: gli esercizi sociali annuali.

L’approvazione regolare del bilancio costituisce la base fondamentale e determinante per la decisione della distribuzione dei profitti.

L’assemblea dei soci, in base all’articolo 2433 primo comma del codice civile, approva il bilancio e decide sulla eventuale distribuzione dei profitti ai soci. Pertanto, l’assemblea ordinaria della società, se intende procedere alla distribuzione dei profitti, deve farlo solo dopo l’approvazione del bilancio.

Secondo l’orientamento prevalente nella giurisprudenza, l’invalidità della decisione di approvazione del bilancio di esercizio si riflette, anche sulla validità della decisione di distribuzione dei profitti realizzati ed evidenziati dal documento contabile.

Una situazione diversa si verifica quando, a seguito dell’impugnazione della decisione di approvazione del bilancio, sulla base del quale sono stati pagati dei dividendi, risulta che, in realtà, il dividendo ricevuto dai soci non corrisponde a un profitto effettivamente realizzato dalla società. Questa ipotesi è espressamente disciplinata dall’articolo 2433, quarto comma, del codice civile, secondo cui «i dividendi pagati in violazione delle disposizioni del presente articolo non sono ripetibili, se i soci li hanno ricevuti in buona fede sulla base di un bilancio regolarmente approvato, da cui risultano profitti netti corrispondenti».

L’azione legale presentata per ottenere la dichiarazione di invalidità della decisione di approvazione del bilancio di esercizio mira, di norma, a ottenere la modifica dei risultati dell’esercizio sociale, per determinare un aumento del profitto da distribuire ai soci. La giurisprudenza è consolidata nel riconoscere anche l’interesse a contestare la decisione sul bilancio, indipendentemente dai vantaggi economici che potrebbero derivare dall’accoglimento di questa.

Il tema della distribuzione tra i soci dei profitti realizzati nello svolgimento dell’attività imprenditoriale rappresenta il punto di incontro di numerosi interessi, interni ed esterni alla società.

La normativa del Codice civile condiziona la distribuzione dei profitti al rispetto di precise precauzioni e condizioni.

Riguardo alle società di capitali (S.r.l., S.p.A.), l’articolo 2350 del codice civile afferma che “ogni azione conferisce il diritto a una quota proporzionale degli utili netti”. Questo diritto è giustificato dalla stessa definizione di società, come fornito dall’articolo 2247 del codice civile, secondo il quale i contributi dei soci sono destinati all’esercizio comune di un’attività economica “con l’obiettivo di condividere gli utili”.

Tuttavia, nonostante il contenuto di queste norme, secondo l’orientamento dominante nella dottrina e nella giurisprudenza, il socio non ha un diritto alla distribuzione periodica degli utili nei confronti della società, poiché ogni decisione in merito è esclusivamente dell’assemblea.

Pertanto, il diritto individuale di ogni socio a ottenere l’utile di bilancio sorge solo se e nella misura in cui la maggioranza dell’assemblea decide di distribuirlo ai soci. Prima di questo momento, c’è solo un’aspettativa, poiché l’assemblea può utilizzare diversamente gli utili o anche ritardare la loro distribuzione nell’interesse della società.

In particolare, prima di tale decisione, il socio ha solo un diritto astratto agli utili nei confronti della società, ovvero un’aspettativa di fatto nei confronti della società, che si concretizza nel diritto al dividendo solo dopo la decisione dell’assemblea di distribuire gli utili.

In conclusione, si ritiene che i soci non abbiano un diritto al dividendo nei confronti della società solo perché sono titolari di azioni o quote; tale diritto si forma gradualmente e costituisce una fattispecie a formazione progressiva, perché sorge solo dopo la chiusura dell’esercizio sociale, la registrazione di eventuali utili, l’approvazione del bilancio e infine la decisione dell’assemblea di distribuire o meno gli utili ai soci.

Poiché il diritto alla percezione sorge solo a seguito dell’atto di devoluzione dell’assemblea, ne consegue che il dividendo spetta, in assenza di un accordo diverso, a colui che è socio al momento della decisione dell’assemblea di distribuzione. In caso di trasferimento delle quote di partecipazione sociali, gli utili risultanti alla fine dell’esercizio spettano, se ne viene decisa la distribuzione, ai soci che hanno tale status al momento della loro distribuzione; quindi, solo nei confronti di questi ultimi e non anche nei confronti della società il cedente può rivalersi per la quota che eventualmente gli spetta.

Società a ristretta base azionaria

Tanto premesso ci soffermeremo sulle società a ristretta base azionaria che sono società di capitali composte da un numero limitato di soci, spesso legati da vincoli di parentela e/o affinità [2]. In tali società, secondo l’orientamento tradizionale della giurisprudenza, se vengono accertati utili extra-bilancio non dichiarati dalla società, si presume che tali utili siano stati distribuiti ai soci e quindi debbano essere tassati direttamente a loro carico.

Questa presunzione si basa sul fatto che le società di capitali a ristretta base azionaria sono caratterizzate da un piccolo numero di soci, da un vincolo di solidarietà tra di loro, dalla possibilità che ciascuno di essi abbia conoscenza degli affari societari e dal controllo reciproco tra i soci.

I soci hanno la possibilità di superare questa presunzione, dimostrando che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma sono stati accantonati dalla società o reinvestiti da essa.

Inoltre, i soci possono superare la presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio fornendo la prova della loro estraneità alla gestione e alla conduzione societaria, in particolare se sono soci di minoranza.

La giurisprudenza ha ritenuto che la dimostrazione della ristrettezza della base societaria sia una condizione necessaria, ma non sufficiente per l’accertamento dei maggiori redditi di capitale a carico dei soci, in quanto la presunzione di distribuzione degli utili ai soci può essere superata:

  • se l’Agenzia delle Entrate fornisce la cosiddetta “prova rafforzata” della ristretta base sociale e dell’effettiva distribuzione degli utili;

  • se il contribuente dimostra la sua estraneità alla gestione e alla conduzione societaria.

In definitiva, perché possano considerarsi esistenti i caratteri di gravità, precisione e concordanza propri delle presunzioni, l’Agenzia delle Entrate deve dimostrare, oltre al requisito della ristretta base, l’esistenza di ulteriori indizi dai quali si possa dedurre la percezione e distribuzione di extra utili societari.

La ristretta base azionaria di una società di capitali non legittima di per sé l’imputazione pro quota al socio dei redditi societari occultati, se non vi sono elementi idonei a dimostrare che i maggiori utili della società sono stati effettivamente ripartiti tra i soci.

Lo statuto della S.r.l. può attribuire a uno o più soci una quantità di dividendi maggiore rispetto a quella che gli spetterebbe in base all’entità della propria quota di partecipazione al capitale sociale, ma deve essere rispettato il limite del patto leonino, ovvero il principio secondo il quale nessuno dei soci può essere escluso dalla partecipazione agli utili e alle perdite.

È inoltre possibile che lo statuto attribuisca a uno o più soci:

  • una priorità nella percezione dei dividendi, garantendo a un socio il conseguimento di una misura minima del dividendo oggetto di distribuzione e mantenendo la proporzionalità nella ripartizione del residuo tra gli altri soci;

  • il dividendo relativo all’andamento di uno specifico settore dell’attività della società;

  • una distribuzione dell’attivo di liquidazione diversa da quella che a ciascun socio competerebbe in base all’entità della propria quota di partecipazione al capitale sociale.

Invece, non è legittima una clausola dello statuto di una S.r.l. che imponga una integrale e automatica distribuzione degli utili.

La giurisprudenza, da quasi un ventennio, ha stabilito una presunzione di distribuzione di utili non contabilizzati ai soci di società con una base sociale ristretta.  Questo ha permesso all’Agenzia delle Entrate di emettere un accertamento nei confronti di una società con una base azionaria ristretta e dei suoi soci.

Questa presunzione di distribuzione di utili societari basata sulla ristretta base azionaria è il risultato di una doppia presunzione;

  1. si presume l’esistenza di utili extra-bilancio nella società.

  2. si presume che questi utili siano stati distribuiti ai soci.

Nonostante il divieto di presunzioni di secondo grado, la giurisprudenza ha riconosciuto la legittimità di questa doppia presunzione.

La giurisprudenza per giustificare la propria tesi ha sostenuto che il fatto noto su cui si baserebbe la presunzione non sarebbe la presenza di maggiori redditi accertati induttivamente nella società, ma la ristrettezza dell’assetto societario, che include l’elemento della familiarità tra i soci e il vincolo di solidarietà, presumendo la complicità e il controllo reciproco dei soci. Il ragionamento della giurisprudenza non è condivisibile, perché si fonda su una scelta arbitraria dell’elemento noto che è individuato nella ristretta base azionaria, anziché nell’accertamento di ricavi non contabilizzati. Se il ragionamento della giurisprudenza fosse ineccepibile sarebbe opportuno un intervento che vietasse le società a ristretta base azionaria, perché quest’ultime, secondo il ragionamento della giurisprudenza, sarebbero la causa dell’evasione che sarebbe solo l’effetto della struttura imprenditoriale.

La presunzione può operare nei confronti del singolo socio, solo se è stato notificato preventivamente un avviso di accertamento nei confronti della società in riferimento agli utili non dichiarati.

La ristretta base partecipativa assume un valore principale, come se fosse una presunzione legale, di distribuzione di utili per le società di capitali. Tuttavia, la sola ristrettezza della base azionaria non può essere considerata sufficiente sul piano probatorio per dimostrare la distribuzione di utili occulti. Sono necessari altri elementi gravi, precisi e concordanti che consentano di far risultare la distribuzione di utili come conseguenza ragionevole della ristrettezza della base partecipativa.

Inoltre, attraverso la presunzione di distribuzione di utili, basata sulla ristretta compagine sociale, si riconosce automaticamente l’esistenza di un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo della società da parte dei soci.

Il punto centrale della questione è la corretta ripartizione dell’onere della prova. La presunzione di distribuzione degli utili inverte l’onere della prova che ricade esclusivamente sul contribuente, che dovrà dimostrare la mancata distribuzione degli utili non contabilizzati o di non aver percepito nulla dalla società.

L’inversione dell’onere della prova è grave, essendo difficile dimostrare la mancata percezione degli utili non contabilizzati. Infatti, una recente sentenza della Cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, ritenendo non sufficiente, per superare la presunzione di distribuzione di utili non contabilizzati, la denuncia proposta dal socio nei confronti dell’amministratore societario per appropriazione indebita, né la richiesta di informazioni sull’andamento della società.

L’uso di presunzioni giurisprudenziali come elementi di prova della pretesa fiscale non pare conforme ai principi dello Statuto del contribuente, tra l’altro, novellato di recente.

È necessario definire per legge cosa si intende per società a ristretta base sociale, perché attualmente la giurisprudenza considera a “ristretta” base sociale una società composta da uno a cinque soci, soprattutto se legati da rapporti di parentela. Questa interpretazione non offre garanzia alcuna al contribuente, perché non è sufficiente né a definire ristretta la base azionaria né, tanto meno, a rilevare l’importanza economica e professionale dei singoli soci in una struttura inevitabilmente influenzata dal vincolo di solidarietà e conoscenza.

Un intervento legislativo che regolamenti la società a base azionaria ristretta rappresenterebbe un elemento di utilità, certezza e garanzia per il contribuente. Inoltre, sarebbe necessario invertire l’onere della prova. L’Agenzia delle Entrate, quindi oltre ad accertare utili non contabilizzati a carico della società, dovrebbe essere in grado di accertare e dimostrare la distribuzione degli utili non contabilizzati a carico del socio ai fini dell’emissione dell’avviso di accertamento nei confronti di quest’ultimo.

L’Ufficio, nell’emettere gli accertamenti, presume che gli utili non contabilizzati siano stati distribuiti in parti uguali ai singoli soci, o in base alle quote di partecipazione. Tuttavia, è ragionevole ipotizzare che gli utili non contabilizzati potrebbero non essere stati ripartiti tra i soci in proporzione alle rispettive quote di partecipazione. Infatti, bisogna tenere conto di elementi come il diverso contributo dato dai singoli soci nella realizzazione degli utili in questione, i vincoli, le responsabilità, le gerarchie familiari esistenti nella società e, soprattutto, che solo alcuni soci ne abbiano effettivamente beneficiato.

L’amministrazione, ai sensi dell’art. 53 della Costituzione, deve verificare la capacità contributiva concreta ed effettiva dei soci, in presenza di una base azionaria ristretta.

Sarebbe utile basare la presunzione di distribuzione di utili extra-bilancio a carico dei soci su presunzioni legali, in grado di individuare sulla base di requisiti specifici l’istituto della base sociale ristretta.

Sono necessari interventi riguardanti l’onere della prova contraria che ricade sul contribuente, perché secondo la giurisprudenza, il contribuente ha l’onere di fornire la prova che i maggiori ricavi non siano stati distribuiti, ma siano stati invece messi da parte dalla società o reinvestiti in essa (Cass. n. 18383 del 04.09.2020). Questo orientamento richiede che il contribuente fornisca esclusivamente una prova contraria piena e diretta, come previsto anche dal precedente orientamento giurisprudenziale relativo agli accertamenti bancari (Cass. n. 18016/2005).

  1. La supposizione di distribuzione non ha origine nella legge fiscale, ma piuttosto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. Anni fa, la Corte ha stabilito che, nel caso di verifica nei confronti di una società a capitale limitato, non si può escludere a priori che una base azionaria ristretta e/o familiare possa giustificare la supposizione di distribuzione ai soci dei profitti non registrati (sentenze n. 780 del 1980, 941 del 1986, 4051 e 4133 del 1987, 11785 del 1990, 2870 del 1992, 5729 e 6225 del 1995).

  2. Queste sentenze affermano che è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati (Cassazione 5076/11, 9519/09, 7564/03, 6780/03, 7564/03, 16885/03, 18640/08 e 8954/13)

  3. Queste sentenze sostengono che, nel caso di società di capitali a ristretta base sociale, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati (Cassazione 5607/2011, 18640/2008 e 17358/2009; Ordinanza n. 17359 del 30 luglio 2014)

Tuttavia, dato che l’Ufficio basa gli avvisi di accertamento su semplici presunzioni, sarebbe opportuno, che il contribuente possa fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici. Questa argomentazione deriva dal recente orientamento di legittimità in materia di accertamenti bancari, che con la sentenza n. 27818 del 04.12.2020, ha stabilito che il contribuente non deve fornire presunzioni semplici, ma la prova piena contraria. Queste sentenze precisano che la presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio può essere vinta dando la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria (Cassazione 1932/2016, 17461/2017 e 26873/2016).

Nel 2021, l’Agenzia delle Entrate ha effettuato numerosi accertamenti, prevalentemente di natura induttiva, su società con una base azionaria ristretta, senza prescindere da una serie di principi stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità negli ultimi anni. Questi principi hanno reso sempre più complessa la formulazione della prova contraria da parte della società e dei soci, volta a delegittimare le richieste dell’Amministrazione finanziaria.

In particolare, nel caso di accertamento delle imposte sui redditi per società di capitali a base azionaria ristretta, se vengono accertati utili non contabilizzati, la giurisprudenza prevalente applica una sorta di presunzione di attribuzione “pro quota” ai soci degli utili stessi, salvo la prova contraria. Questa prova contraria, che incombe inevitabilmente sui soci accertati, riguarda la circostanza che i maggiori ricavi siano stati accantonati o reinvestiti.

La giurisprudenza applica da tempo una presunzione secondo la quale, se l’Amministrazione finanziaria accerta in capo a una società di capitali a base azionaria ristretta la presenza di utili occulti, questi sono automaticamente imputati, nello stesso esercizio annuale e in quote uguali ai soci della società stessa. Questo meccanismo che legittima la pretesa impositiva dell’Agenzia delle Entrate è simile a quello delle società di persone, ovvero, del principio di trasparenza.

Inoltre, la movimentazione dei conti correnti bancari dei soci persone fisiche è riferibile alla società a base azionaria ristretta di cui fanno parte, configurandosi una presunzione legale relativa utilizzabile dall’ufficio impositore in sede di accertamenti bancari. Questo è quanto ha disposto la Corte di Cassazione nella Sentenza n°1658 del 19 gennaio 2022.

In questa sentenza, la Corte ha confermato la stretta sinergia tra il comportamento dei soci e le società con un limitato numero di azionisti di cui fanno parte. Questa peculiarità ha permesso ai giudici di ritenere fondata a favore dell’ufficio fiscale la configurabilità di una presunzione legale relativa. Attraverso questa presunzione, il comportamento assunto dai soci nella gestione dei loro conti correnti personali può essere ricondotto alla società con un limitato numero di azionisti di cui fanno parte.

Esaminiamo quindi le principali caratteristiche che distinguono questa particolare categoria di società con un limitato numero di azionisti, a cui è strettamente legata la presunzione ex lege che legittima gli avvisi di accertamento emessi e notificati dall’Agenzia delle Entrate. Inoltre, è importante sottolineare come il socio verificato può articolare la prova contraria, pur con tutte le limitazioni e i vincoli evidenziati dalla giurisprudenza, che nelle sue molteplici sentenze ha sempre sostenuto il modus operandi dell’Agenzia delle Entrate.

Per prevenire fin dall’inizio le condizioni che potrebbero portare a un possibile accertamento induttivo da parte dell’Agenzia delle Entrate è fondamentale costituire società con più membri in cui nessuno detiene la maggioranza e, se possibile, senza alcun legame di parentela. I migliori soci sono i dipendenti che non possono interferire con la società o comunque soci che hanno altre principali fonti di reddito. È importante avere un conto corrente bancario attraverso il quale dimostrare che nulla è passato dalla società di capitali; tuttavia, come già sottolineato, non è esclusa la possibilità che gli utili non contabilizzati siano stati distribuiti tra i soci in nero; quindi, non saranno mai tracciabili sul conto corrente bancario.

La mancata partecipazione all’approvazione del bilancio della società di capitali o meglio avere formalizzato, in sede assembleare, il proprio rifiuto all’approvazione del bilancio stesso riferito all’annualità accertata, rappresenta sicuramente una circostanza che torna utile, al fine di convincere il giudice tributario adito circa la totale estraneità del socio rispetto a una possibile distribuzione, anche in nero, di utili extra contabili riconducibili alla società.

Nei quattro paragrafi che seguono presteremo particolare attenzione agli ultimi orientamenti giurisprudenziali in materia di società a ristretta base sociale.

Ordinanza della Corte di Cassazione n. 29794/2021

L’Ordinanza n. 29794 del 25 ottobre 2021 si occupa della questione della prova da presentare in tribunale per superare l’assunzione di distribuzione dei profitti ai soci, spesso legati da legami familiari, o, in generale, nel caso di una base societaria ristretta [3].

Una società con una base azionaria ristretta è definita come una società di capitali composta da un numero limitato di soci, spesso legati da legami familiari e/o affinità. La crescente generalizzazione e diffusione di questo modello societario ha portato le autorità fiscali a tassare i maggiori profitti extra-bilancio non dichiarati e accertati dalla società, presumendo che tali profitti nascosti fossero distribuiti ai soci [4].

Si sottolinea che nel corso degli anni si è arrivati a una sorta di “equiparazione” tra le società di persone e le società di capitali con una base partecipativa ristretta, ritenendo, anche per queste ultime, legittimo tassare i maggiori profitti extra-bilancio non dichiarati e accertati dalla società, ai soci, presumendo che tali profitti nascosti fossero distribuiti a loro. In sostanza, se viene dimostrato che la società non ha dichiarato i ricavi, il fatto che il gruppo sociale sia estremamente ristretto (pochi soci, in molti casi parenti o affini) fa presumere che il reddito maggiore sia stato anche “ripartito” tra le persone fisiche [5].

La ridotta compagine sociale, quindi, rappresenta in tutti i sensi il fulcro che permette all’Amministrazione Finanziaria di presumere la distribuzione di profitti ai soci, di recuperare le tasse non versate da questi e di ribaltare su di loro l’onere di dimostrare in tribunale il contrario [6]. Di conseguenza, il contribuente è incaricato di fornire una prova volta a dimostrare il contrario.

Nel caso in questione, con un unico motivo di ricorso in Cassazione, l’Agenzia delle Entrate contestava la sentenza della CTR che aveva accolto l’appello del contribuente che, socio al 50% di una società, si era visto attribuire il reddito maggiore accertato. Infatti, il socio non partecipa al procedimento di accertamento del maggior reddito a carico della società di capitali, pertanto lo stesso deve sempre avere la possibilità di contestare la pretesa dell’ufficio, anche quando questa si fondi sul maggior reddito societario concordato per adesione della persona giuridica (Cass., sez. V, ord. n. 16810 del 7 luglio 2017; occorre, peraltro, considerare che in quest’ultima decisione viene accolto il ricorso dell’Agenzia, perché la questione consisteva nel fatto che l’Ufficio voleva provare, rispetto ai soci, maggiori redditi societari attraverso gli accertamenti bancari mentre la CTR li aveva evidentemente esclusi sulla base del valore accertato in adesione dalla società. Il principio affermato nella sentenza ovvero l’autonomia tra reddito accertato con adesione e maggior reddito effettivo della società, si è tradotto quindi in termini favorevoli all’Agenzia).Sebbene, la Corte di Cassazione, per prima, abbia ritenuto esistente, nel caso specifico, una presunzione di distribuzione dei profitti ai soci in società con una base partecipativa ristretta, ha, nel tempo, riconosciuto, al contribuente, la possibilità di superare tale presunzione mediante prova contraria e con la dimostrazione che i maggiori ricavi sono stati accantonati o reinvestiti; in ogni caso, secondo l’autore, la base ristretta della compagine sociale è un dato di fatto che non permette di per sé di trarre come unica o, comunque, più probabile, rispetto ad altre possibili, la conclusione che i profitti societari non dichiarati siano stati effettivamente distribuiti ai soci [7]. Infatti, il socio non è coinvolto nel procedimento di accertamento del reddito maggiore a carico della società di capitali, quindi deve sempre avere l’opportunità di contestare la richiesta dell’ufficio, anche quando questa si basa sul reddito societario maggiore concordato per adesione della persona giuridica (Cass., sez. V, ord. n. 16810 del 7 luglio 2017; tuttavia, è importante considerare che in questa ultima decisione viene accolto il ricorso dell’Agenzia, perché la questione riguardava il fatto che l’Ufficio voleva dimostrare, rispetto ai soci, redditi societari maggiori attraverso gli accertamenti bancari mentre la CTR li aveva chiaramente esclusi sulla base del valore accertato in adesione dalla società. Il principio affermato nella sentenza, ovvero l’autonomia tra il reddito accertato con adesione e il reddito effettivo maggiore della società, si è quindi tradotto in termini favorevoli all’Agenzia).

Ordinanza della Corte di Cassazione n. 24732/2022

Esiste una vasta giurisprudenza fiscale e societaria che ha affrontato ripetutamente la questione della prova della destinazione dei profitti in caso di società con una base azionaria limitata. Nel caso pratico che esamineremo oggi – estratto dall’ordinanza della Corte di Cassazione n. 24732/2022, datata ma ancora attuale – la Commissione Tributaria Provinciale aveva parzialmente accolto il ricorso presentato dal contribuente contro un avviso di accertamento relativo ai redditi derivanti dalla sua qualità di socio al 97% di una S.r.l, società che era stata sottoposta ad accertamento di maggiori ricavi non dichiarati per l’anno 2004 [8].

Il contribuente aveva sottolineato, nel suo ricorso, che anche la società aveva presentato un ricorso contro il suddetto avviso di accertamento e che era stato parzialmente accolto dalla Commissione Tributaria Provinciale; quindi, tale decisione doveva avere effetto anche nei confronti del socio. I giudici di primo grado concordavano con l’assunto relativo alla rideterminazione delle quote di utili percepiti dal socio e decidevano di accogliere integralmente i contenuti della sentenza relativa alla società, accogliendo quindi parzialmente (nella stessa misura) il ricorso del socio.

Contro questa decisione l’Agenzia delle Entrate ha presentato un appello, che, nel merito, ribadiva l’argomento secondo cui nel PVC e nel conseguente avviso di accertamento si contestava l’annotazione nei registri IVA di fatture di acquisto per un importo complessivo di 6.427.548,40 euro, ritenute oggettivamente inesistenti in quanto emesse da società considerate “cartiere”.

La Commissione Tributaria Regionale ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, confermando così l’avviso di accertamento impugnato. Contro tale sentenza il contribuente ha infine presentato un ricorso per cassazione, lamentando la nullità della sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare dell’art. 295 cod. proc. civ., in tema di sospensione del giudizio.

Con un secondo motivo di impugnazione, il contribuente ha poi dedotto la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare dell’art. 83 Dpr. 29 settembre 1973, n. 600, e degli artt. 2727 e 2729 cod. civ. Secondo la Corte Suprema, la prima censura era, nel frattempo, divenuta inammissibile.

Con essa, infatti, il contribuente lamentava l’errore nel giudizio nella parte in cui la Commissione Tributaria Regionale non aveva sospeso il procedimento ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., laddove la società (da cui derivava anche la contestazione a carico del socio) aveva già presentato un ricorso per cassazione contro la sfavorevole sentenza di secondo grado, all’epoca pendente.

I giudici di legittimità sottolineano che la stessa Corte (Cass. 26/01/2021, n. 1574), sul punto, ha stabilito che, in tema di redditi da partecipazione in società di capitali a base ristretta, ogniqualvolta vi sia una pendenza separata di giudizi relativi all’accertamento del maggior reddito contestato alla società di capitali e di quello di partecipazione conseguentemente contestato al singolo socio, si impone, in effetti, la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ., applicabile anche al giudizio tributario in forza dell’art. 1, comma 2, del Dlgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in attesa del passaggio in giudicato della sentenza emessa nei confronti della società, costituente l’antecedente logico giuridico non solo nelle ipotesi di controversie su contestazioni di utili extracontabili, ma in tutti i casi di contestazioni rivolte alla compagine sociale relativi ai maggiori redditi derivanti da ricavi non dichiarati o da costi non sostenuti.[9]

Nel caso di specie, però, il ricorso per cassazione proposto dalla società era stato nel frattempo deciso, con sentenza che lo aveva rigettato. Pertanto, la censura era divenuta inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse. Anche il secondo motivo di impugnazione, poi, secondo la Cassazione, era inammissibile e comunque infondato.

Rileva a tal proposito la Corte che, con esso, il contribuente lamentava l’errore nel giudizio nella parte in cui, nella sentenza impugnata, la Commissione Tributaria Regionale aveva ritenuto che il maggior reddito accertato a carico della società di capitali costituisse il fatto noto idoneo a consentire di presumere induttivamente ex art. 2727 cod. civ. il fatto ignoto, concernente l’avvenuta ed effettiva distribuzione dei relativi utili in capo ai soci in misura perfettamente proporzionale alle rispettive quote di partecipazione sociale.

Società a base azionaria ristretta e prova della destinazione degli utili extracontabili: la posizione della Corte di Cassazione. Affermano i giudici, che l’Ufficio era correttamente partito dal dato oggettivo del riscontro di utili non contabilizzati, derivanti dall’attività di impresa di una società a base sociale ristretta, deducendo che tali utili si dovessero presumere distribuiti ai soci in proporzione alle quote dagli stessi detenuti.

Soci a cui incombeva, semmai, la prova della loro diversa destinazione. La sentenza impugnata si collocava nel solco di un consolidato orientamento di legittimità, in base al quale l’accertamento del maggior reddito nei confronti di società di capitali a base partecipativa ristretta legittima la presunzione di distribuzione degli utili tra i soci, in quanto la stessa ha origine nella partecipazione e pertanto prescinde dalle modalità di accertamento, fermo restando la possibilità per i soci di fornire prova contraria rispetto alla pretesa dell’Amministrazione finanziaria, dimostrando che i maggiori ricavi dell’ente sono stati accantonati o reinvestiti[10] (ex plurimis, Cass. 20/12/2018, n. 32959, Cass. 07/12/2017, n. 29412).

Una volta accertato il maggior reddito di una società a base partecipativa ristretta, lo stesso reddito si presume quindi distribuito pro quota ai soci in forma di utili extracontabili, poiché la ristrettezza dell’assetto societario implica, normalmente, reciproco controllo e solidarietà tra i soci[11] (così Cass. 24/01/2019, n. 1947, Cass. 29/07/2016, n. 15824, Cass. 28/11/2014, n. 25271).

La Commissione Tributaria Regionale, nella specie, aveva pertanto, sul punto, motivato congruamente, affermando proprio il principio della presunzione della distribuzione ai soci degli utili extracontabili accertati a carico di una società di capitali a base partecipativa ristretta, unitamente all’argomentazione relativa alla importante quota di partecipazione del contribuente (97 per cento) e alla mancata produzione di qualsivoglia elemento atto a dimostrare la mancata distribuzione degli utili. In generale, indipendentemente dal caso specifico, è importante sottolineare quanto segue. Quando si tratta di accertamento fiscale di un reddito maggiore per una società di capitali, organizzata come una società a responsabilità limitata con una base partecipativa ristretta, e di un accertamento conseguente nei confronti dei soci, l’obbligo di motivazione degli atti fiscali notificati ai soci è soddisfatto anche attraverso il riferimento alla motivazione dell’avviso di accertamento relativo ai maggiori redditi percepiti dalla società, anche se notificato solo a quest’ultima.

Il socio, infatti, secondo l’art. 2476 del codice civile, ha il diritto di consultare la documentazione relativa alla società e, quindi, di prendere visione dell’accertamento presupposto e dei suoi documenti giustificativi (cfr., Cass., 2/10/2020, n. 21126; Cass., 28/11/2014, n. 25296; Cass., 4/06/2018, 14275; Cass., 18/02/2020, n. 3980, e, più recentemente, Cass. n. 4239 del 2022).

Nella presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili, il fatto noto, che sostiene la distribuzione degli utili extracontabili, non è costituito dalla loro esistenza, ma piuttosto dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e controllo reciproco tra i soci, che normalmente caratterizza la gestione sociale (Cass., 19 marzo 2015, n. 5581)

L’accertamento nei confronti del socio è comunque formalmente indipendente da quello effettuato nei confronti della società, costituendo quest’ultimo solo il presupposto di fatto, ma non la condizione dell’accertamento nei confronti del socio stesso. Di conseguenza, ad esempio, anche un vizio di notifica relativo all’avviso di accertamento emesso nei confronti della società non impedisce l’accertamento nei confronti del socio (cfr., Cass., n. 39285 del 2021).

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 29794 del 25 ottobre 2021, ha comunque affermato che la prova contraria che i soci possono fornire può consistere nel fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma sono stati accantonati dalla società o reinvestiti da essa.

La presunzione di distribuzione degli utili extracontabili può essere inoltre superata dimostrando l’estraneità del socio alla gestione societaria.

Ancora in tema di ricostruzione induttiva degli utili extracontabili in caso di società a base azionaria ristretta, la Cassazione, con la Sentenza n. 2224 del 2 febbraio 2021, ha infine chiarito un importante aspetto relativo ai costi indeducibili della società (e non solo ai ricavi non dichiarati)[12].

La Corte afferma che i costi costituiscono in tutti i casi un elemento rilevante ai fini della determinazione del reddito d’impresa, quindi, quando questi sono “fittizi” o “indeducibili”, scatta comunque la presunzione che il reddito stesso sia maggiore di quanto dichiarato o indicato in bilancio.

Questo principio trova quindi applicazione anche nelle società a base partecipativa ristretta, quando la società ha indicato in bilancio dei costi inesistenti, o indeducibili perché non documentati. In tale ipotesi, infatti, il reddito maggiorato (dei costi inesistenti o indeducibili) si presume sia stato distribuito nel corso dello stesso esercizio ai soci.

I costi indeducibili, qualunque sia la ragione della loro indeducibilità, infatti, non possono essere considerati nel passivo del conto economico del bilancio, che, per il principio di derivazione di cui all’art. 83 TUIR, è alla base del bilancio fiscale.

Pertanto, eliminando le voci indeducibili dal passivo del conto economico, ne deriva inevitabilmente, a parità di ricavi già contabilizzati, un aumento del reddito d’impresa e maggiori imposte a carico della società e, quindi, dei soci.

In definitiva, si può parlare di distribuzione di utili non solo in presenza di maggiori ricavi in nero, ma anche laddove siano stati accertati costi non deducibili.

La ristretta compagine sociale determina, in sostanza, in tutti questi casi, un’inversione dell’onere della prova a carico del socio.

I maggiori utili contestati in questi casi ai soci si presumono, infatti, derivare da utili conseguiti dalla società in evasione di imposta e, dalla parte del socio, costituiscono redditi di capitale che il contribuente non ha fatto concorrere alla determinazione del proprio reddito complessivo.

Sentenza della Corte di Cassazione n. 6202/2023

Il “decalogo” oggetto della pronuncia della Corte di Cassazione numero 6202/2023, i cui principi costituiscono una guida in materia, derivano dall’ordinanza della Corte di Cassazione n. 40844 del 2021:

  • Nel contesto del processo tributario, l’impugnazione limitata alla parte della sentenza relativa all’atto fiscale emesso nei confronti di una società con una base azionaria ristretta non consente la formazione di un giudicato interno sulla parte relativa agli atti fiscali nei confronti dei soci. Questo perché esiste una stretta e indissolubile dipendenza dalla definitività della decisione relativa, il cui passaggio in giudicato deve essere unitario data la pregiudizialità del primo sul secondo.

  • È legittima la presunzione di attribuzione ai soci di eventuali utili extracontabili accertati. Tuttavia, il contribuente ha il diritto di offrire la prova contraria del fatto che i maggiori redditi non sono stati distribuiti, ma sono stati accantonati dalla società o reinvestiti da essa.

  • La ristrettezza della compagine societaria implica un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale. Questo rende plausibile in tutti la conoscenza degli affari sociali e la consapevolezza dell’esistenza di utili extra bilancio, la cui distribuzione si presume che tutti i soci abbiano partecipato in misura conforme al loro apporto sociale. Tuttavia, il contribuente ha il diritto di fornire la prova contraria.

  • L’accertamento a carico della società in merito ai ricavi non contabilizzati è il presupposto necessario per l’accertamento a carico dei soci in merito ai dividendi. In assenza di tale presupposto, non esiste la prova dello stesso fatto costitutivo della pretesa fiscale. Pertanto, deve essere dichiarato illegittimo l’avviso di accertamento che ipotizza la percezione di maggiori utili societari in capo al socio, quando non sia stata preventivamente accertata la posizione della società di capitali, evidenziando in capo alla stessa un maggior reddito non dichiarato.

  • L’annullamento per motivi attinenti al merito della pretesa fiscale dell’avviso di accertamento emesso nei confronti della società, sancito con sentenza passata in giudicato, ha un carattere pregiudicante. Questo spiega i suoi effetti a favore di tutti i soci e quindi anche nel giudizio connesso avente ad oggetto l’avviso di accertamento notificato al singolo socio e relativo al suo reddito da partecipazione derivante da una rettifica operata nei confronti della società.

  • Nel giudizio avente ad oggetto l’avviso di accertamento relativo al socio di una società di capitali a base sociale ristretta, si deve riconoscere l’efficacia riflessa del giudicato formatosi nel giudizio intercorso tra l’Agenzia delle Entrate e la società, con cui sia stata accertata l’inesistenza di utili extracontabili della stessa. Questo accertamento negativo rimuove il presupposto da cui dipende il maggior utile da partecipazione conseguito dal socio.

  • In tema di redditi da partecipazione in società di capitali a base azionaria ristretta, ogni volta che vi sia una pendenza separata dei giudizi relativi all’accertamento del maggior reddito contestato alla società di capitali e di quello di partecipazione conseguentemente contestato al singolo socio, si impone la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ. Questo è applicabile al giudizio tributario in forza dell’art. 1 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, in attesa del passaggio in giudicato della sentenza emessa nei confronti della società. Questo costituisce l’antecedente logico-giuridico non solo nelle ipotesi di controversie su contestazioni di utili extracontabili, ma in tutti i casi di contestazione rivolti alla compagine sociale relativi ai maggiori redditi derivanti da ricavi non dichiarati o da costi non sostenuti.

  • La sospensione necessaria del processo ex art. 295 cod. proc. civ. è applicabile anche al processo tributario quando risultino pendenti, davanti a giudici diversi, procedimenti legati tra loro da un rapporto di pregiudizialità tale che la definizione dell’uno costituisce un indispensabile presupposto logico-giuridico dell’altro. In questo senso, l’accertamento dell’antecedente viene postulato con effetto di giudicato, in modo che possa astrattamente configurarsi l’ipotesi di conflitto al giudicato.

  • La sospensione si impone ogni volta che vi sia una pendenza separata di procedimenti relativi all’accertamento del maggior reddito contestato a una società di capitali e di quello di partecipazione conseguentemente contestato al singolo socio, in attesa del passaggio in giudicato della sentenza emessa nei confronti della società.

  • L’accertamento fiscale nei confronti di una società di capitali a base ristretta, in ipotesi come quelle riferibili alla contestazione di utili extracontabili, costituisce un indispensabile antecedente logico giuridico dell’accertamento nei confronti dei soci. Questo è dovuto all’unico atto amministrativo da cui entrambe le rettifiche promanano e non ricorrendo, come invece accade per le società di persone, un’ipotesi di litisconsorzio necessario. In relazione ai rapporti tra i rispettivi processi, quello relativo al maggior reddito accertato in capo al socio deve essere sospeso ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., applicabile nel giudizio tributario in forza del generale richiamo dell’art. 1 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546.

Questi principi vengono quindi ribaditi nella pronuncia numero 6202/2023, e non riguardano solo le controversie su contestazioni di utili extracontabili: «ma più in generale tutti i casi di contestazioni rivolte alla compagine sociale, che siano relativi ai maggiori redditi derivanti da ricavi non dichiarati o da costi non sostenuti»

Pertanto: «nel caso di instaurazione (o pendenza) di un unico giudizio, come quello in esame, avente a oggetto la contestuale impugnazione degli atti impositivi nei confronti della società e dei soci, è evidente che il gravame interposto dall’Amministrazione finanziaria sul capo della sentenza che attiene alla società, si estende anche al capo della sentenza che attiene ai soci, giacché il passaggio in giudicato non può che essere unitario per la pregiudizialità del primo sul secondo»

Quindi, secondo gli Ermellini, «nel caso di un ricorso parziale, l’accettazione delle parti della sentenza non impugnate si verifica solo quando le diverse parti sono completamente autonome l’una dall’altra e non quando la parte non impugnata è in relazione consequenziale con l’altra e trova in essa il suo presupposto (cfr. Cass., 24 gennaio 2019, n. 1850). Di conseguenza, la sola impugnazione della parte relativa all’annullamento dell’atto fiscale emesso nei confronti della società non consente la formazione di un giudicato interno sulla parte relativa all’annullamento degli atti fiscali emessi nei confronti dei soci, rispetto alla quale non si può rilevare un’accettazione parziale tacita a causa della stretta e indissolubile dipendenza dalla definitività della decisione relativa».

Sentenza della Corte di Cassazione n. 2752/2024

La Guardia di Finanza di Chiari (BS) ha realizzato un controllo fiscale nei confronti della società Luma Plastic S.r.l., al termine del quale sono stati emessi due avvisi di accertamento per gli anni 2003 e 2004 relativi all’IVA e alle Imposte dirette. Successivamente, sono stati emessi due atti fiscali nei confronti del socio L.L., sostenendo la presunta distribuzione di utili extra-bilancio, considerando la base azionaria ristretta di tale società. Con questi atti, l’Agenzia delle Entrate ha accertato rispettivamente il 95% dei maggiori ricavi accertati a carico della società per l’anno 2003 e il 100% per l’anno 2004.

Il contribuente ha presentato ricorsi separati contro gli avvisi di accertamento, sostenendo, oltre alla necessaria integrazione del contraddittorio definito in via pregiudiziale, l’illegittimità degli atti fiscali, poiché nel caso specifico non ci sarebbero i presupposti per operare una presunzione di distribuzione dei maggiori utili della società ai soci[13]. Con un motivo separato, ha sostenuto l’infondatezza della ripresa fiscale a causa dell’illegittima imputazione al contribuente dell’intero importo degli utili extra-bilancio, accertati in proporzione alla quota di partecipazione al capitale sociale (rispettivamente 95% e 100%), senza rispettare il limite percentuale (40%) previsto dall’art. 47 del TUIR.

La competente CTP di Brescia ha respinto i ricorsi, confermando la legittimità degli atti impugnati. Tale decisione è stata confermata in secondo grado di giudizio.

Contro la decisione di appello, il contribuente ha presentato un ricorso per cassazione basato su diversi motivi.

Per quanto rilevante ai fini del presente commento, il contribuente ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 38 del DPR n. 600/1973, artt. 115 e 116 c.p.c. nonché degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. perché la CTR avrebbe ritenuto legittima l’imputazione pro quota dei maggiori redditi della società ai soci, essendo la sola base sociale ristretta, in assenza di altri elementi probatori attendibili, insufficiente a dimostrare, con una probabilità maggiore rispetto ad altre ipotesi possibili, l’effettiva ripartizione tra i soci dei maggiori utili accertati a carico della società. Questo perché tale presunzione avrebbe bisogno, per essere elevata al rango di piena prova, di altri fatti indiziari che in questo caso l’Ufficio non avrebbe dimostrato.

Con un motivo separato, ha criticato la sentenza per motivazione apparente, poiché il Giudice d’appello non avrebbe spiegato su quali presupposti si potessero considerare effettivamente distribuiti a favore del Lambert tali ricavi, in assenza di ulteriori elementi.

Il contribuente ha inoltre evidenziato la violazione e falsa applicazione dell’art. 47 del TUIR perché la CTR avrebbe ritenuto legittima l’imputazione al contribuente dei maggiori ricavi non dichiarati accertati a carico della società in proporzione alle quote di partecipazione, senza tener conto del limite percentuale del 40% previsto dall’art. 47 del DPR n. 917/1986.

La Corte Suprema, con la sentenza in commento, ha respinto il ricorso del contribuente con conseguente condanna alle spese del giudizio di legittimità.

Per quanto riguarda il motivo relativo alla legittima imputazione dei maggiori utili accertati ai soci, sulla base della sola base sociale ristretta, e il motivo relativo alla motivazione apparente, la Cassazione ha ritenuto che entrambi non fossero accoglibili in quanto infondati.

A tal proposito, la Corte Suprema ha richiamato l’orientamento consolidato secondo cui, in materia di imposte sui redditi, nell’ipotesi di società a base sociale ristretta è ammessa la presunzione di attribuzione ai soci degli utili extracontabili, “che non si pone in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado, in quanto il fatto noto non è dato dalla sussistenza di maggiori redditi accertati in capo alla società, bensì dalla ristrettezza dell’assetto societario, che implica un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale”. Pertanto, una volta ritenuta operante tale presunzione “spetta al contribuente fornire la prova contraria”. In tali casi, il contribuente dovrà provare la mancata distribuzione degli utili extracontabili, se non l’inesistenza a monte di un loro effettivo conseguimento, stante l’autonomia di giudizi.

La posizione della Corte di Cassazione in merito all’ultimo motivo di ricorso presentato, relativo alla necessità di applicare nel caso specifico, come si è detto, il limite del 40% quale beneficio di esenzione parziale degli stessi utili previsto dall’art. 47 del TUIR al fine di evitare una doppia imposizione, suscita perplessità. Infatti, la Corte Suprema – allineandosi ad un precedente del 2020 – ha affermato che nel caso di società a base ristretta non debba applicarsi il limite previsto dalla citata norma del TUIR poiché gli utili extracontabili sono stati conseguiti in evasione d’imposta, non essendo mai stati indicati nella contabilità della società. In sostanza, non vi sarebbe una doppia imposizione non avendoli mai dichiarati la società.

La Corte Suprema spiega, a tal proposito, che nel caso specifico non si verificherebbe alcun effetto distorsivo in quanto il beneficio dell’esenzione parziale dell’imposizione degli utili societari si riferisce ai soli redditi regolarmente dichiarati dalla società in un documento contabile. Tali utili, pertanto, una volta accertati per altra via, vanno imputati e quindi sottoposti a imposizione in misura ordinaria, quindi intera e non ridotta. Il fondamento di tali conclusioni – precisa la Cassazione – non si rinviene in un intento para sanzionatorio dell’interprete ma unicamente nella considerazione per la quale nel caso di specie la società risulterebbe trasparente come una società di persone con la conseguenza che la ripartizione del maggior utile sottratto ad imposizione giustifica la perdita del beneficio di cui all’art. 47 del TUIR, norma che si applica al solo utile di bilancio. Diversamente, l’utile extra bilancio deve equipararsi a quello ottenuto per trasparenza dalle società di persone.

Sembra quindi deducibile che la mancata dichiarazione di tali redditi legittimerebbe un doppio accertamento, con un’imposizione avente ad oggetto la medesima sostanza economica dapprima in capo alla società (per intero) e successivamente in capo ai soci (per intero).

A riguardo, non può essere messo in dubbio che l’art. 163 del TUIR, nel fissare il divieto di doppia imposizione sia giuridica, sia economica, non subordina l’efficacia alla preventiva indicazione del reddito in dichiarazione, fissando in realtà un principio generale ed immanente in tema di imposte sui redditi. Tale principio non incontra limiti e trova una conferma nelle Convenzioni contro le doppie imposizioni che lo Stato italiano ha sottoscritto con numerosi Stati esteri. Il divieto contro le doppie imposizioni spiega pertanto i suoi effetti per tutti i redditi, sia per quelli oggetto di dichiarazione, sia per quelli oggetto di accertamento da parte degli Uffici impositori.

Da un’altra prospettiva, se si volesse paragonare l’utile extra-bilancio a quello ottenuto dalle società di persone, con una tassazione “completa” dello stesso a carico dei soci, non si potrebbe ignorare il fatto che le stesse società “trasparenti” non subiscono alcuna tassazione. Di conseguenza, si deve giungere alla conclusione che l’attuale sistema delle imposte sui redditi non prevede affatto la possibilità che lo stesso reddito sia tassato, in misura piena, due volte: prima a carico della società e successivamente a carico dei soci. Questo non avviene nemmeno nella fase dell’accertamento di maggiori redditi.

Inoltre, “l’effetto pratico” della tassazione dello stesso reddito prima a carico della società e poi, interamente, a carico dei soci: quest’ultimo verrebbe “azzerato”, nel senso che quasi tutta la sostanza economica verrebbe convertita in debito nei confronti dell’Erario.

Conclusione[14]

L’elaborazione giurisprudenziale in questione presenta affinità con il principio di imputazione per trasparenza ai soci del reddito prodotto dalle società di persone, previsto dall’art. 5, comma 1, del TUIR, nonché con il regime di tassazione applicabile ai soci delle società a responsabilità limitata che hanno optato per il regime di trasparenza fiscale ai sensi degli artt. 115 e 116 del TUIR.

La differenza fondamentale tra le due modalità di imputazione del reddito è che, nel primo caso, il reddito prodotto dalle società di persone o dalle società a responsabilità limitata “trasparenti” viene automaticamente imputato ai soci, indipendentemente dalla loro effettiva percezione di reddito. D’altra parte, l’imputazione degli utili extracontabili ai soci delle società “a ristretta base” non richiede la loro effettiva percezione, ma è necessaria la prova che tali utili (ovvero quelli non dichiarati) siano stati effettivamente distribuiti ai soci.

Per quanto riguarda l’onere probatorio, l’art. 2727 del codice civile stabilisce che le presunzioni sono conseguenze tratte da fatti noti per risalire a fatti ignoti. Esistono presunzioni legali (basate sulla legge) e presunzioni semplici (soggette all’apprezzamento del giudice).

Tuttavia, nel nostro ordinamento tributario, è vietata la doppia presunzione (presumptio de presumto) o la presunzione di secondo grado. Ciò significa che il fatto ignoto a cui si risale tramite la presunzione può essere desunto solo partendo da uno o più fatti noti, e non da un’altra presunzione.

Nel caso dell’accertamento dei soci di una società di capitali a ristretta base societaria, questo si basa su due diverse presunzioni:

  1. L’esistenza di un reddito maggiore rispetto a quello dichiarato dalla società, accertato in via presuntiva.

  2. La distribuzione ai soci del reddito maggiore accertato in capo alla società.

La Corte di Cassazione ha ribaltato la critica secondo cui questo procedimento violerebbe il divieto di doppia presunzione. Nel contesto dell’accertamento delle imposte sui redditi societari, la Corte ha stabilito che la presunzione di distribuzione degli utili extracontabili si basa sulla ristrettezza della base sociale e sul vincolo di solidarietà e controllo reciproco tra i soci.

La questione dell’imputazione del reddito e degli utili extracontabili nelle società a ristretta base azionaria è di grande rilevanza.

  1. Definizione di Società a Ristretta Base Azionaria:

    • Una società a ristretta base azionaria è composta da un numero limitato di soci, spesso legati tra loro da vincoli di parentela o affinità. La giurisprudenza di legittimità riconosce la possibilità di effettuare un accertamento sui soci di una Società a Responsabilità Limitata (SRL) a ristretta base partecipativa. Tale presunzione non si basa sul reddito accertato della società (che sarebbe la “prima presunzione”), ma piuttosto sulla ristrettezza della base sociale, il vincolo di solidarietà e reciproco controllo tra i soci e il loro rapporto di complicità. È importante notare che non esiste un numero specifico di soci al di sotto del quale una società può essere qualificata come SRL a ristretta base partecipativa. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha stabilito alcune situazioni specifiche in cui una SRL è stata considerata a ristretta base:

    • Sei soci appartenenti a tre nuclei familiari differenti (Cassazione 13399/2003).

    • Cinque soci senza alcun legame di parentela (Cassazione 3896/2008).

    • Partecipazione a sua volta da un’altra società a ristretta base partecipativa (socio di secondo grado) (Cassazione, Ordinanza n. 27049 del 23/10/2019). In sintesi, l’elemento discriminante per qualificare una società come a ristretta base partecipativa non è il numero di soci, ma piuttosto il vincolo di solidarietà, il reciproco controllo e la possibile ripartizione degli utili occulti tra i soci nell’amministrazione della società.

  2. Presunzione di Distribuzione degli Utili Extracontabili:

    • In queste società, esiste una presunzione di legge secondo cui gli utili non contabilizzati dalla società sono distribuiti ai soci.

    • Tale presunzione non viola il divieto di presunzione di secondo grado, poiché il fatto noto non è la sussistenza dei maggiori redditi accertati nella società, ma la ristrettezza della base sociale e il vincolo di solidarietà tra i soci2.

  3. Onere Probatorio:

    • L’onere probatorio spetta al socio per dimostrare che gli utili non sono stati effettivamente distribuiti, se non è in grado di farlo, stante l’autonomia dei giudizi nei confronti della società e del socio2.

    • La prova deve riguardare l’effettiva mancata distribuzione degli utili.

    • La possibilità per un socio di dimostrare che gli utili extracontabili non sono stati distribuiti tra i soci, ma piuttosto accantonati o reinvestiti dalla società. Tuttavia, la prova di non avvenuta ricezione degli utili extracontabili è estremamente difficile, poiché si tratta di dimostrare un fatto negativo. Allo stesso modo, provare l’avvenuto accantonamento o reinvestimento degli utili extracontabili nella società è altrettanto complesso, poiché tali utili non sono registrati nel bilancio contabile. L’accantonamento degli utili a riserva (legale, statutaria o straordinaria) si riferisce agli utili di esercizio regolarmente registrati nella contabilità, non agli utili “in nero” derivanti da evasione fiscale. Inoltre, il reinvestimento degli utili nella stessa società di capitali riguarda gli utili regolarmente contabilizzati e non quelli extracontabili, che non sono documentati nella contabilità aziendale.

  4. Tassazione dei Dividendi:

    • La tassazione dei dividendi è realizzata a prezzo pieno dopo la sentenza della Corte di Cassazione, essendo tassato il valore integrale della società si verifica una doppia tassazione, a seconda della partecipazione qualificata o non qualificata e del regime fiscale (persona fisica o impresa)1.

La ricostruzione della disciplina delle società a ristretta base sociale evidenzia non solo criticità giuridica, ma anche gravi problemi istituzionale. L’Agenzia delle Entrate gode di una posizione di netto vantaggio rispetto al contribuente sul quale grava l’onere di fornire la prova di non avere percepito dividendi a titolo personale, fornendo una prova diabolica, la prova negativa. Inoltre, la normativa sulle società a ristretta base sociale pone, anche, delicati problemi istituzionali tra l’autorità giudiziaria e l’attività legislativa. Il potere impositivo sarebbe di competenza del potere legislativo ai sensi dell’art. 51 della Costituzione, mentre in materia è esercitato dal potere giudiziario che determina le caratteristiche di una società a ristretta base azionaria e determina su chi grava l’onere della prova.

Purtroppo, da culla del diritto siamo diventati la tomba della giustizia e il Giudice costituzionale Virgilio Andrioli si rivolta nella tomba.

 

 

 

 

 


[1] Pandolfini, Società: la distribuzione degli utili ai soci, in assistenza-legale-imprese.it
[2] Pandolfini, cit.
[3] F. Paparella, L’assunzione di distribuzione dei profitti nelle società di capitali con una base ristretta, in Dir. prat. trib., 1995, II, 458
[4] V. Ficari, Presunzione di assegnazione di profitti extra-bilancio ai soci e attribuzione di costi fittizi, in Corr. trib., 2008, 1054.
[5] F. Rasi, La tassazione per trasparenza delle società di capitali con una base proprietaria ristretta. Profili ricostruttivi di un modello fiscale, Padova, 2012; Ibidem, La ‘trasparenza per presunzione’ delle società con una base proprietaria ristretta: l’affidabilità della presunzione ed il problema della qualificazione del reddito, in Riv. trim. dir. trib., n. 1/2013, 119; A. Viotto, Lezioni sull’IRES delle società di capitali, Bari, 2020, 67.
[6] R. Muffato, La presunzione di distribuzione di profitti nascosti nel caso di rettifiche a società di capitali con una base ristretta o familiare, in Riv. dir. trib., 1999, II, 357
[7] A. Perrone, Perché non convince la presunzione di distribuzione di profitti “occulti” nelle società di capitali con una base proprietaria ristretta, in Riv. dir. trib., n. 5/2014, 575
[8] L’Ordinanza n. 24732/2022 della Corte di Cassazione riguarda un caso di accertamento tributario:
Il caso coinvolge un individuo che deteneva una quota pari al 97% del capitale di una società a ristretta base partecipativa. L’Agenzia delle Entrate ha notificato alla società un avviso di accertamento per l’anno 2004, recuperando a tassazione maggiori imposte. Successivamente, l’Agenzia ha notificato all’individuo un altro avviso di accertamento, rideterminando l’imponibile e le imposte per i maggiori dividendi presuntivamente distribuiti ai soci e non dichiarati, oltre interessi e sanzioni. La Commissione Tributaria Provinciale aveva accolto parzialmente il ricorso proposto dal contribuente avverso l’avviso di accertamento. Tuttavia, la Commissione Tributaria Regionale ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, confermando così l’avviso di accertamento impugnato. La Corte di Cassazione ha espresso il principio secondo cui l’obbligo motivazionale degli atti notificati alla persona fisica non è soddisfatto mediante il rinvio per relationem alla motivazione dell’avviso di accertamento riguardante i maggiori redditi percepiti dalla società laddove il socio abbia esercitato la facoltà di recesso, uscendo così dalla compagine sociale. Inoltre, la Corte ha condannato l’Agenzia delle entrate alla rifusione delle spese sostenute dal ricorrente nel giudizio di legittimità.
[9] L’Ordinanza n. 1574 del 26 gennaio 2021 della Corte di Cassazione riguarda un caso di accertamento tributario:
Il caso coinvolge un individuo, P.A., che deteneva una quota pari al 50% del capitale di una società a ristretta base partecipativa, Perfetisol Sud s.r.l. L’Agenzia delle Entrate ha notificato alla società un avviso di accertamento per l’anno 2006, recuperando a tassazione maggiori imposte. Successivamente, l’Agenzia ha notificato a P.A. un altro avviso di accertamento, rideterminando l’imponibile e le imposte per i maggiori dividendi presuntivamente distribuiti ai soci e non dichiarati, oltre interessi e sanzioni. P.A., che aveva esercitato la facoltà di recesso dalla società prima della notifica dell’avviso di accertamento alla società, ha contestato la mancata conoscenza dell’atto notificato alla società, l’insufficienza della prova presuntiva di distribuzione dei maggiori utili ai soci, e nel merito il fondamento della pretesa impositiva dell’Amministrazione finanziaria. La Corte di Cassazione ha espresso il principio secondo cui l’obbligo motivazionale degli atti notificati alla persona fisica non è soddisfatto mediante il rinvio per relationem alla motivazione dell’avviso di accertamento riguardante i maggiori redditi percepiti dalla società laddove il socio abbia esercitato la facoltà di recesso, uscendo così dalla compagine sociale. Inoltre, la Corte ha condannato l’Agenzia delle entrate alla rifusione delle spese sostenute dal ricorrente nel giudizio di legittimità.
[10] L’Ordinanza n. 32959 del 20 dicembre 2018 della Corte di Cassazione riguarda un caso di accertamento tributario.
Il caso coinvolge una società a ristretta base azionaria, la S.r.l. Impianti Sportivi, di cui era socia la Masmar s.a.s. L’Agenzia delle Entrate ha notificato alla società un avviso di accertamento per l’anno 2006, recuperando a tassazione maggiori imposte. Successivamente, l’Agenzia ha notificato un altro avviso di accertamento a B.P., persona fisica socia della Masmar s.a.s., a sua volta socia della società di capitali.
[11] L’Ordinanza n. 1947 del 24 gennaio 2019 della Corte di Cassazione riguarda un caso di accertamento tributario.
Il caso coinvolge un individuo, C.L., che era socio unico ed amministratore della West Work S.r.l.. L’Agenzia delle Entrate ha notificato alla società un avviso di accertamento per l’anno 2006, recuperando a tassazione maggiori imposte. Successivamente, l’Agenzia ha notificato a C.L. un altro avviso di accertamento, rideterminando l’imponibile e le imposte per i maggiori dividendi presuntivamente distribuiti ai soci e non dichiarati, oltre interessi e sanzioni. C.L. ha contestato l’avviso di accertamento, sostenendo che era solo formalmente amministratore della West Work S.r.l., di cui l’amministratore di fatto era tale T.V., come accertato da sentenza penale conseguente a patteggiamento emessa dal tribunale di Lodi (182/13). La Corte di Cassazione ha espresso il principio secondo cui l’obbligo motivazionale degli atti notificati alla persona fisica non è soddisfatto mediante il rinvio per relationem alla motivazione dell’avviso di accertamento riguardante i maggiori redditi percepiti dalla società laddove il socio abbia esercitato la facoltà di recesso, uscendo così dalla compagine sociale. Inoltre, la Corte ha condannato l’Agenzia delle entrate alla rifusione delle spese sostenute dal ricorrente nel giudizio di legittimità.
[12] La Sentenza n. 2224 del 2 febbraio 2021 della Corte di Cassazione riguarda un caso di accertamento tributario.
Il caso coinvolge il Centro Aktis – Diagnostica e Terapia s.p.a. (già Centro Aktis-Diagnostica e Terapia di S.G. s.a.s.), in persona del legale rappresentante pro tempore, S.V., e un individuo, S.V. . L’Agenzia delle Entrate ha notificato alla società e all’individuo avvisi di accertamento. La Corte di Cassazione ha espresso il principio secondo cui l’obbligo motivazionale degli atti notificati alla persona fisica non è soddisfatto mediante il rinvio alla motivazione dell’avviso di accertamento riguardante i maggiori redditi percepiti dalla società laddove il socio abbia esercitato la facoltà di recesso, uscendo così dalla compagine sociale. Inoltre, la Corte ha condannato l’Agenzia delle entrate alla rifusione delle spese sostenute dal ricorrente nel giudizio di legittimità.
[13] La Sentenza n. 2752 del 30 gennaio 2024 della Corte di Cassazione riguarda un caso di accertamento tributario.
Il caso coinvolge Luca Lamberti, che era socio unico ed amministratore della Luma Plastic s.r.l. L’Agenzia delle Entrate ha notificato alla società un avviso di accertamento per l’anno 2006, recuperando a tassazione maggiori imposte. Successivamente, l’Agenzia ha notificato a Luca Lamberti un altro avviso di accertamento, rideterminando l’imponibile e le imposte per i maggiori dividendi presuntivamente distribuiti ai soci e non dichiarati, oltre interessi e sanzioni. La Corte di Cassazione ha espresso il principio secondo cui, nel caso di società a ristretta base, non opera la presunzione ex art. 47 TUIR in quanto, essendo stati gli utili conseguiti in evasione di imposta poiché mai stati indicati nella contabilità societaria, non vi è alcun obbligo di mitigare una doppia imposizione che nei fatti non v’è stata, non avendoli la società mai dichiarati. Inoltre, la Corte ha condannato l’Agenzia delle entrate alla rifusione delle spese sostenute dal ricorrente nel giudizio di legittimità.
[14] M. Bergamini – J. Sorrenti, L’accertamento nei confronti delle società a ristretta base societaria

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