Società in house e assunzione del personale
La sentenza della Corte di cassazione n. 3621 del 14 febbraio 2018 affronta il tema, particolarmente dibattuto, della procedura di assunzione del personale delle società a controllo pubblico, anche alla luce dell’art. 19, comma 2, del Testo unico in materia di Società a partecipazione pubblica (TUSP), come modificato dal d.lgs. n. 100 del 2017.
L’art. 19 citato statuisce che i rapporti di lavoro, salvo specifiche disposizioni recate nel provvedimento, sono disciplinati dalle medesime disposizioni che si applicano al settore privato. Più in particolare, il comma 2 della disposizione in parola prevede che le società a controllo pubblico stabiliscano, con propri provvedimenti (che devono essere pubblicati sul sito istituzionale della società stessa, ai sensi di quanto previsto dal comma 3), criteri e modalità per il reclutamento del personale, nel rispetto dei principi, costituzionali e di derivazione europea, di trasparenza, pubblicità e imparzialità, nonché dei principi di cui all’articolo 35, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, che detta i criteri a cui le procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni si devono conformare.
In presenza di tale disposizione, la Corte di cassazione, nella sentenza in commento, si è posta il seguente problema: se l’accesso all’impiego presso una società a partecipazione pubblica – genus nel quale sin d’ora si anticipa essere ricomprese anche le c.d. società in house – ove il personale non è reclutato attraverso procedure concorsuali, violi i principi, anche di derivazione europea, di imparzialità, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa.
In buona sostanza, il thema decidendum è consistito nel comprendere se la natura di società in house di una società per azioni comporti l’obbligo di seguire per le assunzioni il regime del pubblico concorso o se, invece, questa possa derogare alla regola base del reclutamento del personale, utilizzando ulteriori e diverse procedure selettive.
Nel caso de quo, la Cassazione ha affermato che “l’art. 18 del d.l. n. 112 del 2008, conv. in l. n. 133 del 2008, nel testo applicabile “ratione temporis”, ha esteso alle predette società, ai fini del reclutamento in questione, le procedure concorsuali e selettive delle amministrazioni pubbliche, la cui omissione determina la nullità del contratto di lavoro, ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c.”. In primo luogo, si vuole precisare che il tema resta attuale in quanto il dettato dell’art. 18 del d.l. 112 del 2008 è stato in toto recepito dall’art. 19, comma 2, del TUSP.
Ebbene, nella sentenza in commento, la Corte di cassazione ha stabilito che una procedura selettiva avente ad oggetto la valutazione comparativa dei curriculum dei candidati e/o eventuali colloqui con quest’ultimi, e non già procedura concorsuale di assunzione in senso proprio, viola i precetti dettati dall’art. 97 della Costituzione.
Al fine di inquadrare la problematica è opportuno effettuare brevi cenni sull’istituto dell’in house providing. L’espressione è di derivazione sovranazionale e compare per la prima volta nel Libro Bianco della Commissione Europea del 1998. In tale sede gli “in house contracts” vengono definiti come “i contratti aggiudicati all’interno della pubblica amministrazione, ad esempio tra amministrazioni centrali ed amministrazioni locali ovvero tra un’amministrazione centrale ed una società da questa interamente controllata”. Si è inteso, quindi, descrivere un fenomeno di autoproduzione da parte della pubblica amministrazione di beni, servizi e lavori, ossia senza il ricorso al mercato mediante la cd. “esternalizzazione”, con l’esclusione dell’applicazione della disciplina in materia di evidenza pubblica.
La previsione di tale caratteristica ha comportato, sul piano organizzativo, una rilevante deroga all’assetto societario disegnato dal codice civile tale da condurre alla prospettazione di due diverse ricostruzioni relative alla natura giuridica delle società in house.
Un primo orientamento ritiene che il solo mutamento della veste giuridica dell’ente non è sufficiente a giustificare la totale eliminazione dei vincoli pubblicistici, ove la privatizzazione non assuma anche “connotati sostanziali, tali da determinare l’uscita delle società derivate dalla sfera della finanza pubblica” (Cort. Cost. n. 466 del 1993). Le società in house, dunque, avrebbero soltanto la forma esteriore delle società, costituendo in realtà una longa manus della pubblica amministrazione da cui promanano (Cass. Sez. Un. n. 26283 del 25 novembre 2013). Di conseguenza, i loro organi amministrativi sarebbero privi di autonomia gestionale, essendo in condizione di “subordinazione gerarchica” rispetto alla pubblica amministrazione; i loro titolari sarebbero legati da un vero e proprio rapporto di servizio con l’ente controllante, il quale esercita un’influenza dominante ovvero un potere di comando che non è riconducibile alle facoltà che il codice civile attribuisce al socio di una società di capitali. Per l’effetto, le società in house non sono entità distinte rispetto all’amministrazione controllante, la quale ne dispone come una propria articolazione interna, venendo in rilievo l’art. 97 Cost. e, in particolare, le esigenze di imparzialità e di efficienza dell’azione amministrativa.
Partendo da tale assunto, anche la giurisprudenza amministrativa ha affermato espressamente che, “dalla sostanziale identificazione tra la società in house e la pubblica amministrazione di cui essa costituisce articolazione in senso sostanziale, strumento operativo, quasi organo, discende la sua riconducibilità al campo di applicazione dell’art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001” (Cons. St., Sez. IV, n. 5643 del 2015) che obbliga all’espletamento di un pubblico concorso al fine di procedere ad assunzioni di personale alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, devolvendo le relative controversie alla cognizione del giudice amministrativo.
Tale conclusione, nell’impostazione adottata dal Consiglio di Stato, sembra obbligata laddove si consideri la disciplina derivante dal combinato disposto degli articoli 7, comma 2, d.lgs. n. 104 del 2010 e 1, comma 1 ter, della l. n. 241 del 1990. L’art. 7 citato, nel perimetrare l’ambito della giurisdizione amministrativa, stabilisce che “per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo”. Così delineata la nozione, si è ritenuto che nel novero delle amministrazioni rientrino anche le società in house, le quali sono tenute al rispetto del modulo provvedimentale anche se dotate di una natura formalmente privatistica.
Un secondo orientamento, invece, prendendo le mosse dalle statuizioni delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, sia prima sia dopo la sentenza n. 26283 del 25 novembre 2013, afferma che la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, le azioni.
In altre parole, la società in house deve essere considerata alla stregua di una vera e propria società di natura privata dotata di una sua autonoma soggettività giuridica: ai sensi del primo comma dell’articolo 2331 c.c. con l’iscrizione nel registro delle imprese la società acquista automaticamente, infatti, personalità giuridica; sussiste, pertanto, l’esigenza di tutelare i terzi ed i creditori che, instaurando rapporti con essa, fanno legittimo affidamento sulla sua autonoma soggettività.
Peraltro, il legislatore, mediante l’art. 14, comma 1, TUSP, ha sostenuto il riconoscimento di una natura privata ed imprenditoriale alle società in questione assoggettandole al fallimento e alle altre procedure concorsuali. Al di là della rilevanza pratica di tale soluzione, appaiono interessanti le conseguenze che ne derivano sul piano della qualificazione della fattispecie (posto che la soggezione a fallimento della società in house ne presuppone una natura di soggetto privato, nonché di imprenditore commerciale).
Inoltre, l’art. 12, comma 1, TUSP, recependo risultati ormai consolidati presso la giurisprudenza di legittimità, in merito alla giurisdizione applicabile alle azioni di responsabilità nei confronti degli organi sociali, effettua una distinzione tra le società in house e tutte le altre società, stabilendo che “I componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali, salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house. E’ devoluta alla Corte dei conti, nei limiti della quota di partecipazione pubblica, la giurisdizione sulle controversie in materia di danno erariale di cui al comma 2”. La scelta di far ricadere le azioni di responsabilità promosse nei confronti degli organi amministrativi e di controllo delle società in house nell’ambito della giurisdizione contabile potrebbe far sorgere il dubbio che il legislatore abbia inteso, in tal modo, escluderne la natura societaria (data la mancanza di una netta separazione tra patrimonio della società e patrimonio del socio pubblico di controllo). Una tale interpretazione non appare però condivisibile. E’ da escludere che, attraverso una norma dettata allo specifico fine di individuare la giurisdizione applicabile, il legislatore abbia inteso prendere posizione sulla natura giuridica della fattispecie, essendo, invece, più verosimile ritenere che una tale soluzione si fondi sulla considerazione della normale appartenenza della totalità delle partecipazioni sociali all’ente pubblico, che quindi, sia pure in modo indiretto, sarebbe l’unico soggetto (socio) pregiudicato dal danno cagionato dagli amministratori al patrimonio sociale.
Del resto, le stesse Sezioni Unite confermano questo orientamento rilevando peraltro che, allorquando con la precedente sentenza n. 26283 del 2013 avevano qualificato le società in house come “articolazioni della pubblica amministrazione da cui promanano e non soggetti giuridici ad essa esterni e da essi autonomi”, siffatta affermazione andava riferita alla sola disciplina del riparto di giurisdizione non compromettendo, per ogni ulteriore aspetto, l’applicazione del diritto societario generale (Cass. Sez. Un. n. 24591 del 2016). D’altra parte, dalla qualificazione (ai meri fini del riparto di giurisdizione) della società in house come longa manus della pubblica amministrazione non può derivare anche l’obbligo di adottare il regime del pubblico concorso, scelta che porterebbe ad annullare proprio una delle caratteristiche determinanti dello schema societario utilizzato dalle stesse, anche in termini di “maggiore adattabilità degli organi e di pronta reattività al mercato ed alle sue dinamiche”.
A tal riguardo, sia la Corte costituzionale (sent. n. 251 del 25 novembre 2016) sia il Consiglio di Stato (Sez. V, 8 giugno 2015, n. 279) hanno sempre ricondotto le disposizioni inerenti all’attività di società partecipate dalle Regioni e dagli enti locali alla materia dell’“ordinamento civile”, di competenza legislativa esclusiva statale, in quanto volte a definire il regime giuridico di soggetti di diritto privato. Una società partecipata, in quanto soggetto di diritto privato, è tenuta al rispetto di regole privatistiche, non rilevando in contrario la circostanza di essere partecipata con capitali pubblici e di essere soggetta a varie forme di controllo ed indirizzi pubblici.
Da ultimo, anche dalla nuova disciplina delle società partecipate pubbliche di cui al d.lgs. n. 175 del 2016 si desume l’intenzione del legislatore di non obbligare le società a controllo pubblico ad indire pubblici concorsi e di voler applicare “per quanto non espressamente derogato, le norme del codice civile e le norme generali di diritto privato” (art. 1 TUSP).
Pertanto, i vincoli desumibili dal rinvio all’art. 35, comma 3, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. – pubblicità, imparzialità, economicità, decentramento delle procedure selettive, celerità, adozione di meccanismi oggettivi e trasparenti, rispetto delle pari opportunità di genere, professionalità ed indipendenza delle Commissioni esaminatrici – sono sì applicabili anche alle procedure di selezione finalizzate all’assunzione del personale attuate dalle società a controllo pubblico, ma ciò non implica l’intenzione del legislatore di obbligare tali società ad indire pubblici concorsi.
A ben vedere, la pubblicazione dei profili professionali ricercati sul sito istituzionale della società, l’indicazione dettagliata dei requisiti generali e di esperienza richiesti e del numero di risorse da assumere, le modalità generali di svolgimento della selezione, i termini e modalità della consegna delle candidature nonché le successive valutazioni comparative effettuate da Commissioni giudicatrici si prestano a dare piena attuazione ai principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità. Una procedura selettiva avente ad oggetto la valutazione comparativa dei curriculum dei candidati e/o eventuali colloqui con quest’ultimi, e non già procedura concorsuale di assunzione in senso proprio, non è ontologicamente diversa da quella posta in essere dalle società aventi natura giuridica privata e trova il suo fondamento nell’art. 19, comma 2, d.lgs. n. 175 del 2016, il quale attribuisce alle società a controllo pubblico il potere di stabilire, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale seppur nel rispetto dei principi suindicati.
Del resto, sarebbe illogico postulare che la scelta del paradigma privatistico per le finalità perseguite dalla pubblica amministrazione sia giuridicamente priva di conseguenze ed è, viceversa, del tutto naturale che quella scelta, ove non vi siano specifiche disposizioni in contrario o ragioni ostative di sistema, comporti l’applicazione del regime giuridico proprio dello strumento societario adoperato.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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