Societas delinquere POTEST: la responsabilità penale degli enti
Sommario: 1. La responsabilità penale degli enti ai sensi del d.lgs. 231/2001 – 2. La specificità della normativa in relazione agli infortuni sul lavoro – 3. Le sanzioni – 3.1. Sanzione pecuniaria – 3.2. Sanzioni interdittive – 3.3. Confisca
1. La responsabilità penale degli enti ai sensi del d.lgs. 231/2001
Il d.lgs. 231/2001, denominato “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica”, ha introdotto – per la prima volta in Italia – la responsabilità in sede penale degli enti per alcuni reati commessi da soggetti che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione, direzione dell’ente o di un’unità organizzativa sottoposta, nonché di soggetti che hanno funzioni di controllo e/o gestione (c.d. apicali), o comunque i loro sottoposti, ricomprendendo la categoria dei dipendenti.
Il presupposto fondamentale per far si che nasca una responsabilità penale dell’ente è che i reati commessi devono essere nell’interesse o a vantaggio dello stesso ente; in altre parole vi deve essere un beneficio riscontrabile e attribuibile all’ente.
Il decreto legislativo indicato in epigrafe esclude, infatti, la responsabilità della persona giuridica nel caso in cui il soggetto abbia agito nell’esclusivo interesse proprio o di terzi, ma non riferibile all’ente.
La responsabilità di cui può esser chiamato a rispondere un ente si deve aggiungere a quella della persona fisica che ha materialmente commesso il fatto; una, dunque, non esclude l’altra, bensì entrambe colpiscono due aspetti paralleli dello stesso fatto, colpendo sia il patrimonio dell’ente, sia sanzionando la persona fisica che ha commesso l’illecito.
È consequenziale, però, che l’aver adottato un sistema di conformità adeguato alle esigenze e criticità dell’ente, fa scemare grandemente anche la responsabilità della persona – intesa come fisica – avendo l’Autorità Giudiziaria il compito di gradare la colpa in concreto; è noto come questo elemento soggettivo residuale presupponga quale componente essenziale la negligenza, imprudenza o imperizia della persona, tutte circostanze che sono di difficile attribuzione dal momento che l’ente abbia voluto adottare un modello atto a eliminare, o quantomeno ridurre, i tre presupposti della colpa.
Con riferimento al lato sanzionatorio, a tutti gli illeciti commessi è sempre prevista l’applicazione di una sanzione pecuniaria, mentre nei casi più gravi è prevista anche l’applicazione di misure interdittive quali la sospensione o la revoca di licenze e/o concessioni, il divieto di contrarre con la P.A., l’interdizione dall’esercizio di attività, l’esclusione o la revoca di finanziamenti e contributi, ed il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
Importante specificare come la responsabilità dell’ente permanga anche qualora il reato sia rimasto anche in fase di tentativo, salvo una riduzione delle sanzioni previste.
Questi sono alcuni tra i reati più ricorrenti che il decreto ha introdotto a titolo esemplificativo, ma non esaustivo: reati commessi contro la P.A., reati di falso nummario, reati societari, reati di lesioni gravi o gravissime o omicidio colposo a seguito di violazioni di norme antinfortunistiche e sulla tutela di igiene e salute sul lavoro, ecc.
Il dettato dell’articolo 6 del d.lgs. 231/2001 stabilisce che “l’ente non ne risponde nel caso in cui dimostri di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi”.
Si prevede, inoltre, la costituzione di un organo di controllo interno all’ente (c.d. Organismo di Vigilanza – O.d.V.) cui è assegnato il compito di supervisionare, o meglio vigilare, circa il funzionamento, l’efficacia e l’osservanza del predetto modello organizzativo, nonché denunciarne le criticità curandone l’aggiornamento.
Il modello di organizzazione, gestione e controllo, ex art. 6, commi 2 e 3, d.lgs. 231/2001, deve rispondere ad alcune esigenze, tra le quali vi è quella di individuare l’ambito in cui è probabile che si verifichino gli illeciti e, di conseguenza, deve essere in grado di prevedere specifici protocolli a riguardo, atti a prevenire la commissione degli stessi. Inoltre introduce sia degli obblighi in capo all’organismo di vigilanza, sia un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello, che ovviamente non sostituisce la responsabilità penale, ma è un ulteriore deterrente per evitare che si mettano in atto comportamenti delittuosi.
Qualora il reato venga commesso da soggetti che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché da soggetti che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dell’ente stesso, quest’ultimo non risponde se prova che:
– l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, un modello idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
– il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza del modello e del suo aggiornamento è stato affidato ad un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo;
– i soggetti che hanno commesso il reato hanno eluso fraudolentemente il modello;
– non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di controllo, bensì il fatto non poteva essere previsto.
Nel caso in cui, invece, il reato venga commesso da soggetti sottoposti alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti sopra indicati, l’ente è responsabile se la commissione del reato è stata possibile grazie all’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza.
La costituzione di un modello non è da confondersi con una certificazione di qualità dell’azienda, bensì deve essere un “prodotto ad hoc” pensato esclusivamente riferendosi alle necessità e criticità dell’azienda che decide di servirsene, visto il carattere non obbligatorio, ma di primaria importanza in funzione di eventuali procedimenti penali.
2. La specificità della normativa in relazione agli infortuni sul lavoro
Il decreto in epigrafe ha introdotto disposizioni mirate a rendere qualunque azienda responsabile anche per i danni subiti dai loro dipendenti sul luogo di lavoro. La prevenzione degli incidenti sul lavoro diventa, pertanto, un aspetto di fondamentale importanza. Un incidente di questa natura potrebbe avere conseguenze irreparabili sull’azienda, sia dal punto di vista finanziario che in termini di reputazione.
Tuttavia, la priorità principale rimane la protezione dei lavoratori, evitando qualsiasi comportamento illecito che possa causare incidenti gravi, persino fatali, all’interno dell’organizzazione; oltre all’implementazione del Modello Organizzativo, è essenziale garantire l’effettiva attuazione di tutte le misure previste, la loro costante manutenzione e l’adeguamento continuo alle circostanze in evoluzione.
Il tema degli incidenti sul lavoro costituisce, dunque, una delle più complesse e dibattute fattispecie nel panorama italiano, soprattutto in relazione all’aumento dei casi registrati: i numeri riferibili all’annualità 2022, secondo dati INAIL, parlano di 697.773 casi, con un aumento del 25% rispetto all’annualità precedente.
In questo contesto, il combinato disposto dell’Decreto Legislativo n. 231 del 2001, assieme alla giurisprudenza pertinente, fornisce un quadro per definire le responsabilità delle persone giuridiche nei confronti dei danni subiti dai loro dipendenti durante l’attività lavorativa, persino nei casi più tragici che culminano nella perdita della vita del lavoratore.
Conformemente all’articolo 1 del Decreto Legislativo n. 231/2001, si disciplina la responsabilità delle organizzazioni per le violazioni amministrative collegate a reati, e questa normativa si applica a tutte le entità dotate di personalità giuridica, comprese le società e le associazioni prive di personalità giuridica.
L’intento di questa legge è stato introdurre in Italia una forma di responsabilità aziendale per determinati reati, elencati all’interno del decreto stesso, che potrebbero essere commessi dai membri dell’organizzazione a beneficio o nell’interesse della stessa.
Questa responsabilità aziendale si aggiunge a quella delle persone fisiche che effettivamente hanno commesso il reato (come indicato nell’articolo 8). Le persone fisiche, la cui condotta è rilevante per stabilire la responsabilità, sono dettagliate negli articoli 5, 6 e 7 del Decreto Legislativo n. 231/2001 e comprendono sia i soggetti che occupano posizioni di rappresentanza, amministrazione o direzione nell’ente o in una sua unità organizzativa con autonomia finanziaria e funzionale, sia coloro che effettivamente gestiscono e controllano, sia tutte le persone sottoposte alla supervisione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui sopra.
Relativamente a questo aspetto cruciale, l’articolo 9 della legge n. 123/2007 ha introdotto una modifica al Decreto Legislativo n. 231/2001, ovvero l’articolo 25 septies.
Tale modifica amplia la sfera di responsabilità delle entità giuridiche anche per reati quali omicidio colposo e lesioni personali colpose gravi o gravissime.
Questi reati diventano rilevanti quando vengono commessi in violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro e sulla tutela dell’igiene e della salute dei lavoratori.
Si immagini, ad esempio, una situazione in cui un’azienda, al fine di contenere i costi, trascura la sicurezza dei propri dipendenti. In questo scenario, non c’è l’intenzione di commettere un reato, ma le decisioni prese dai dirigenti aziendali, per risparmiare denaro, possono avere conseguenze dannose: in altre parole si incorre ad una responsabilità penale dell’ente con sanzioni di cui si tratterà più specificatamente al successivo paragrafo.
La vera innovazione dell’articolo 25 septies risiede nell’introduzione della responsabilità delle entità giuridiche per reati colposi, ma solo quando tali reati siano commessi nell’interesse o a vantaggio dell’azienda stessa.
Il presupposto di commettere un reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente è una formulazione, però, tanto vaga da poterci far rientrare una casistica pressoché infinita di situazioni che possono essere aderenti al soddisfacimento del principio di “interesse” o “vantaggio” per l’ente.
Questa disposizione è un’eccezione alle altre norme del decreto, che si basano invece sull’intenzionalità criminale. In questo contesto, non è necessario dimostrare l’intenzione di commettere il reato nell’interesse dell’azienda; è sufficiente che una persona fisica, attraverso un comportamento dannoso per la sicurezza sul lavoro, compiuto nell’interesse della persona giuridica, causi lesioni gravi o la morte di un dipendente.
La responsabilità dell’ente può essere esclusa o limitata, spostando le conseguenze del reato sulla sola persona fisica coinvolta.
La dimostrazione di aver adottato un modello adeguato è ciò che può evitare gravi conseguenze per le azioni individuali e proteggere l’ente da responsabilità.
Tuttavia, è importante notare che il solo modello non basta e non soddisfa tutti i requisiti per escludere o limitare la responsabilità aziendale in caso di violazioni punite dal Decreto Legislativo n. 231/2001. Dopo aver istituito il modello, è essenziale garantire l’effettiva applicazione di tutte le misure previste, mantenerlo nel tempo e adeguarlo costantemente.
Un esempio concreto della rilevanza della fase di applicazione del Modello è emerso nella sentenza del 16 aprile 2018, n. 16713, della Corte di Cassazione, in relazione a un incidente mortale avvenuto in una società.
La Corte ha confermato la condanna dell’azienda nonostante avesse adottato il Modello, poiché vi erano carenze nella valutazione dei rischi, mancanze nell’implementazione delle misure, formazione inadeguata dei lavoratori e l’omissione della nomina di un Responsabile del servizio di prevenzione e protezione, una figura prevista dal Decreto Legislativo n. 81/2008.
In sostanza, il datore di lavoro aveva trascurato di monitorare l’osservanza delle norme imposte e l’effettiva attuazione delle misure di sicurezza, nell’ambito delle sue competenze.
La Corte ha quindi attribuito colpa all’organizzazione aziendale, ritenendola responsabile per evidenti carenze nell’adeguamento alle disposizioni del Decreto Legislativo n. 231/2001.
Ecco perché assume rilevanza precipua la figura di un legale esterno, capace di assistere e monitorare, assieme all’Organismo di Vigilanza, il reale piano applicativo del modello che lui stesso, di concerto con l’ente, ha predisposto.
3. Le sanzioni
Un’organizzazione, responsabile di un reato commesso da uno dei suoi membri, è soggetta a un sistema di sanzioni amministrative che comprendono sanzioni pecuniarie, sanzioni interdittive, e confisca, oltre alla pubblicazione della sentenza di condanna, quale pena accessoria.
L’obiettivo delle sanzioni amministrative è colpire direttamente o indirettamente i profitti dell’organizzazione, scoraggiando la commissione di reati a suo vantaggio, e influenzare la struttura e l’organizzazione dell’azienda in modo da promuovere azioni risarcitorie e riparatorie.
In altre parole, le sanzioni hanno una finalità deterrente per tutte le aziende che non si dotano di meccanismi di vigilanza e corretta gestione delle stesse, infliggendo pene che hanno come caratteristica principale quella di inibire la prosecuzione dell’attività dell’azienda raggiunta dal provvedimento giudiziario.
3.1. Sanzione pecuniaria
L’articolo 10 del d.lgs. 231/2001 stabilisce che, per reati collegati a illeciti amministrativi, viene sempre applicata la sanzione pecuniaria.
Questa sanzione è suddivisa in quote, ed il numero varia da un minimo di cento a un massimo di mille.
L’importo di ciascuna quota varia da un minimo di 258,23 euro a un massimo di 1.549,37 euro.
Ad ogni modo, non è possibile beneficiare di un pagamento ridotto e la determinazione dell’importo avviene in due fasi, in cui il giudice stabilisce inizialmente l’ammontare delle quote e poi il valore monetario di ciascuna quota.
La somma totale è ottenuta moltiplicando l’importo di una singola quota per il numero totale di quote che rappresentano l’illecito amministrativo.
Di conseguenza, la sanzione pecuniaria può variare da un minimo di 25.800 euro a un massimo di 1.549.000 euro.
A titolo esemplificativo, si supponga che il valore delle quote detenute di un’azienda sia di 500.000 euro. Se il reato è considerato di gravità media e l’azienda viene condannata, la sanzione pecuniaria potrebbe essere fissata a 100.000 euro.
Tuttavia, questo è solo un esempio ipotetico, e le sanzioni effettive possono variare notevolmente in base alle circostanze del caso.
Infatti, secondo l’articolo 12 del d.lgs. n. 231/2001, la sanzione pecuniaria può essere ridotta se il danno causato è di scarsa importanza o se l’organizzazione ha completamente risarcito il danno e rimosso le conseguenze dannose o pericolose del reato, o se ha preso misure efficaci in tal senso.
3.2. Sanzioni interdittive
Le sanzioni interdittive comportano una limitazione temporanea dell’esercizio di determinati diritti o facoltà, in tutto o in parte.
Queste sanzioni hanno una durata limitata, non inferiore a tre mesi e non superiore a due anni, e possono essere applicate in modo permanente solo in base a quanto stabilito dall’articolo 16 del decreto.
Le sanzioni interdittive sono elencate chiaramente nell’articolo 9, comma 2, del decreto e sono applicate insieme alla sanzione pecuniaria.
Le sanzioni interdittive che possono essere applicate all’organizzazione includono:
– l’interdizione, anche temporanea, dall’esercizio di determinate attività.
– la sospensione o la revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione del reato.
– il divieto, anche temporaneo, di contrattare con la pubblica amministrazione, tranne per ottenere prestazioni di pubblico servizio.
– l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sovvenzioni e la possibile revoca di quelli già concessi.
– il divieto, anche temporaneo, di pubblicizzare beni o servizi.
Queste sanzioni sono applicate solo nei casi più gravi e in base a condizioni specifiche, come definite dall’articolo 13 del decreto, tra cui il profitto significativo derivato dal reato o gravi carenze organizzative che hanno favorito la commissione del reato.
I criteri per l’applicazione delle sanzioni interdittive sono definiti nell’articolo 14 del d.lgs.231/2001 e devono rispettare i principi di proporzionalità, idoneità e gradualità.
Il giudice determina il tipo e la durata della sanzione in base all’efficacia di ciascuna sanzione nel prevenire reati simili a quello commesso.
Le sanzioni interdittive non sono applicate in alcune circostanze, come previsto dall’articolo 12, comma 1, del suddetto decreto, ad esempio quando l’autore del reato ha agito principalmente per proprio interesse o per conto di terzi e l’organizzazione non ne ha tratto vantaggio significativo, o quando il danno patrimoniale causato è di scarsa entità.
Inoltre, le sanzioni interdittive non sono applicate se l’organizzazione ha soddisfatto determinate condizioni, come previsto dall’articolo 17, come il completo risarcimento del danno, l’eliminazione delle carenze organizzative che hanno contribuito al reato e la messa a disposizione del profitto ottenuto per la confisca.
3.3. Confisca
L’articolo 19 del D.lgs.231/2001 stabilisce che in caso di condanna, è sempre disposta la confisca del prezzo o del profitto derivante dal reato, tranne per la parte che può essere restituita alla vittima. Se non è possibile eseguire la confisca in queste condizioni, essa può riguardare denaro o beni di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato.
La confisca è una sanzione amministrativa che si differenzia da altre in quanto non ha limiti di valore e può essere applicata in diverse circostanze, come la prosecuzione dell’attività dell’organizzazione sotto la gestione di un commissario giudiziale, la riparazione delle conseguenze del reato da parte dell’organizzazione o l’inosservanza delle sanzioni interdittive.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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