Sopravvenienze normative: alcune ipotesi applicative

Sopravvenienze normative: alcune ipotesi applicative

Sommario: 1. La successione di norme penali – 2. Successione di norme modificative del trattamento sanzionatorio – 3. La dichiarazione di incostituzionalità – 4. La recidiva – 5. L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto – 6. Conclusioni

1. La successione di norme penali.

Il principio di legalità sancito dal secondo comma dell’art. 25 Cost., imponendo che nessuno possa essere punito se non in forza di una ‘legge entrata in vigore prima del fatto commesso’, comporta quale corollario quello dell’irretroattività della legge penale di sfavore (1).

Può infatti verificarsi che, tra il tempus di commissione del reato e l’applicazione della sanzione a seguito della decisione giurisdizionale si assista a una modifica del quadro normativo di riferimento, si parla al riguardo di sopravvenienze normative.

Si pone, pertanto, il problema di stabilire quale debba essere la norma applicabile in tutti quei casi in cui la disposizione vigente al momento del fatto sia differente da quella del tempo dell’irrogazione della pena.

Il meccanismo che si ritiene operante è quello della successione delle norme penali che ha tuttavia effetti diversificati, ove a sopravvenire sia una norma incriminatrice abolitiva, modificativa del solo trattamento sanzionatorio, o una sentenza dichiarativa di incostituzionalità che espunga dall’ordinamento una disposizione con effetto retroattivo.

La successione di norme si può altresì verificare dal punto di vista processuale.

Ebbene, mentre le disposizioni penali sostanziali modificano istituti che attengono alla punibilità in astratto e alla irrogazione della sanzione e sottostanno, pertanto, alla disciplina dell’irretroattività sfavorevole e a quella della retroazione favorevole, salvo in quest’ultimo caso il limite del giudicato, per quelle processuali, invece, vale il principio tempus regit actum (2).

La norma processuale deve essere applicata dal momento della sua entrata in vigore, a prescindere dalla possibile operatività nei riguardi di fatti precedenti, diversa essendo la ratio sottesa agli istituti di origine processuale, volti all’economia del giudizio, alla accelerazione dello stesso e a principi di equità, ex art. 111 Cost..

Diversamente, sul versante dell’efficacia delle norme penali sostanziali, e con particolare attenzione alle norme di incriminazione, si è reso necessario da parte della giurisprudenza specificare se nei casi di successione delle stesse ci si trovi innanzi a ipotesi di abolitio criminis o di mera abolitio sine abolitione (3).

Nell’abolitio criminis si ha una cessazione di efficacia della disposizione, dovuta a una nuova valutazione compiuta dal legislatore sul disvalore del fatto, con la conseguenza che nell’ordinamento si trovano a sussistere entrambe le norme, quella previgente per la quale il fatto costituiva reato, tuttavia non più applicabile, e quella successiva che invece non contempla più la condotta come penalmente rilevante.

L’abolizione produce un effetto retroattivo e, ex art. 2 comma 2 c.p., se c’è stata condanna ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.

La modifica sostanziale trova il suo precipitato applicativo nell’art. 673 c.p.p. che consente al giudice dell’esecuzione, su incidente di esecuzione del condannato, di dichiarare la revoca della sentenza di condanna o del decreto penale, dichiarando che il fatto non è più previsto dalla legge come reato.

L’operatività dell’abolitio criminis trova, tuttavia, un limite nella completa espiazione della pena.

Infatti, la ratio della disciplina è quella di assicurare, a garanzia del condannato, che la sanzione sia giusta, in ossequio al principio ‘nullum crimen et nulla poena sine lege”, dalla fase di irrogazione a quella di definitiva esecuzione, in applicazione della personalità della responsabilità penale e del finalismo rieducativo della pena, ex art. 27 Cost..

Diverso invece il caso dell’abolitio sine abolitione, nel quale non si ha una totale inefficacia della norma incriminatrice, come nell’ipotesi precedente.

La disposizione penale viene modificata, poiché il legislatore espunge dal precetto alcune modalità di offesa al bene giuridico protetto, restringendo la punibilità della condotta penalmente rilevante, limitandosi a volte a riformulare la norma e a volte a creare una nuova disposizione in aggiunta alla riscrittura della norma iniziale, con effetti di continuità dell’illecito (4).

La casistica è variegata, ma un esempio paradigmatico è rappresentato dall’art. 317 c.p., modificato a seguito della L. 190/2012 (5).

L’originaria formulazione prevedeva la duplice modalità di commissione del delitto da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, attraverso condotte costrittive o induttive finalizzate alla promessa o dazione da parte del soggetto passivo di denaro o altra utilità.

Il reato era, inoltre, a cooperazione necessaria della vittima, naturalisticamente plurisoggettivo, ma normativamente unisoggettivo, atteso che la punibilità del privato era esclusa (6).

La l. 190/2012 ha espunto dall’art. 317 c.p., come modalità di aggressione al bene giuridico protetto, la condotta di induzione prevedendola in un nuovo articolo, l’art. 319 quater c.p., aggiungendo al comma secondo che è punito anche chi dà o promette denaro.

Si è, pertanto, posto il problema di stabilire se tra le due disposizioni sussistesse una continuità normativa o una parziale abrogazione.

Sulla base di quanto stabilito dalla giurisprudenza, la verifica va compiuta applicando il principio di specialità, raffrontando sul piano strutturale le fattispecie astratte, dalle quali si rinviene che la condotta del pubblico ufficiale e dell’incaricato di pubblico servizio era ed è, tuttora, perseguibile, anche a seguito della normativa sopravvenuta.

Infatti, non si ravvisa alcuna ipotesi di abolitio parziale con conseguente applicazione del comma 4 dell’art. 2 c.p..

Quanto suddetto non può valere per il privato.

Per tale soggetto la disposizione prevede nuova incriminazione e stante il divieto di irretroattività sfavorevole, la norma non è applicabile ai fatti pregressi alla sua entrata in vigore.

A conclusioni diametralmente opposta è pervenuta, invece, la giurisprudenza in materia di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, ex art. 3 d.l. 158 2012.

La legge Balduzzi prevedeva un’ipotesi di abolizione parziale e conseguente depenalizzazione di tutte le condotte compiute con colpa lieve ove rispettose delle

linee guida, quando il sanitario avesse tenuto conto della specificità del caso concreto (7).

La normativa, ormai abrogata, a oggi trova applicazione per tutte le condotte colpose compiute all’epoca della sua vigenza e in quella precedente alla sua emanazione, mentre per quelle successive deve ritenersi punibile anche la condotta del sanitario che, attenendosi ai parametri specificati nell’art. 3 d.l. 158 / 2012, abbia compiuto il fatto con colpa lieve, attesa la nuova espansione di punibilità operata dall’art. 590 sexies c.p., introdotto dalla L. Gelli/Bianco (8).

2. Successione di norme modificative del trattamento sanzionatorio.

Problema analogo si è posto quando a succedere tra loro non siano norme incriminatrici ma modificative della mera sanzione.

L’art. 2 comma 3 c.p. prevede innanzitutto che, ove ci sia stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore stabilisca solo quella pecuniaria, la pena inflitta originariamente si converta in pecuniaria secondo i parametri di ragguaglio previsti dall’art. 135 c.p..

Il comma 4 del medesimo articolo statuisce, altresì, che se le disposizioni sono differenti si applica quella più favorevole al reo, con il limite del giudicato.

Peraltro, il legislatore ha previsto che, qualora sussista l’abolitio criminis il principio di intangibilità debba risultare recessivo rispetto a quello di retroattività favorevole, mentre nel caso in cui si modifichi il solo trattamento sanzionatorio, debba essere il diverso principio di retroazione favorevole a essere recessivo su quello di intangibilità del giudicato.

La diversa operatività dei due principi è spiegata dalla ratio sottesa ai medesimi.

Invero, il principio di irretroattività sfavorevole è intangibile, perché risponde all’esigenza di conoscibilità delle conseguenze che il consociato può potersi prefigurare discendano dalla propria condotta antigiuridica, in ossequio anche al rispetto del principio di prevedibilità.

All’opposto, quello di retroazione favorevole risponde a criteri di ragionevolezza e rimane nella facoltà del legislatore, a fronte di un bilanciamento degli interessi coinvolti, stabilire la prevalenza della retroattività rispetto alla certezza del diritto.

E’ stato peraltro specificato dalla C. EDU nella sent. Scoppola (9) che non sussiste al riguardo alcuna violazione dell’art. 7 Cedu, atteso che è consentito agli Stati membri adottare libere scelte in materia penale, con riguardo all’operatività del limite del giudicato rispetto al principio di retroazione della norma di favore.

Quanto suddetto risulta confermato dal Giudice delle leggi che pone a base della retroattività in materia penale il solo parametro di ragionevolezza, di non discriminazione di situazioni uguali, in ossequio all’art. 3 Cost..

Al riguardo, la Corte Costituzionale ha fatto applicazione del principio di ragionevolezza ove ha previsto l’inammissibilità della sollevata questione di costituzionalità in tema di prescrizione, così come introdotta dalla L. 251/2005 (10).

Infatti, si è ritenuto, in tal caso, legittimo lo sbarramento processuale previsto dalla suddetta legge con riferimento all’inapplicabilità retroattiva della disciplina per i giudizi pendenti in fase di appello e di cassazione, stimando prevalente il principio di conservazione della prova.

3. La dichiarazione di incostituzionalità.

E ancora, il fenomeno successorio di norme penali sostanziali assume caratteri peculiari quando sia frutto di una sentenza dichiarativa di incostituzionalità di una norma.

Quest’ultima produce l’inefficacia della disposizione ab origine, trattandosi di disposizione che deve considerarsi nell’ordinamento tanquam non fuisset (11).

La sentenza di condanna risulta basata su una norma che non doveva trovare ingresso nel sistema penale, perché contraria ai principi fondamentali sanciti dalla Costituzione, pertanto, il provvedimento deve essere revocato, ex artt. 2 comma 2 c.p. e 673 c.p.p..

E’ bene comunque precisare che particolare attenzione va posta qualora la norma dichiarata incostituzionale sia abrogativa di una disposizione penale di favore

introdotta successivamente al compimento del fatto, o in un momento successivo al reato, si parla in tal caso di sentenze di incostituzionalità in malam partem.

L’orientamento costante della giurisprudenza è stato volto al riconoscimento dell’applicabilità del precetto di favore abrogato, ove il fatto fosse stato commesso sotto la sua vigenza.

L’assunto non troverebbe, tuttavia, applicazione nella diversa ipotesi in cui la condotta fosse stata compiuta in un momento antecedente all’emanazione della norma di favore.

Recentemente il Supremo Consesso in ossequio alla prevalenza del principio del favor rei ha ritenuto, tuttavia, che la sentenza dichiarativa di incostituzionalità in malam partem non possa produrre effetti sfavorevoli per l’agente, nei confronti del quale deve comunque applicarsi la norma di favore, nonostante la declaratoria di incostituzionalità faccia formalmente rivivere la previgente disciplina poi successivamente abrogata (12).

Medesima considerazione deve essere effettuata anche in riferimento alla dichiarazione di incostituzionalità di una norma non incriminatrice ma modificativa del trattamento sanzionatorio.

In ossequio al principio di legalità e del finalismo rieducativo della pena, nonché di colpevolezza, ex art 27 Cost., non è possibile consentire l’espiazione di una pena ancora in corso che sia stata irrogata ponendo alla base del provvedimento condannatorio una quantificazione della sanzione effettuata su cornici edittali o circostanze attenuanti poi dichiarate incostituzionali.

La giurisprudenza nella nota sent. Gatto (13), riportandosi all’art. 30 comma 4 l. 87/53, ha specificato che in tali casi, persino nell’ipotesi di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., il giudice dell’esecuzione deve procedere alla rideterminazione della sanzione, revocando il giudicato.

E’ quanto è successo, infatti, nei noti casi di dichiarazione di incostituzionalità dell’aggravante ex art 61 n. 11 bis c.p. e della modifica legislativa che comportò la equiparazione della cornice edittale prevista nel caso di detenzione di sostanza stupefacente di tipo ‘leggera’ rispetto a quella ‘pesante’, ex art. 73 d.p.r. 309/90.

4. La recidiva.

Proprio in materia di legge sugli stupefacenti un caso peculiare di declaratoria di incostituzionalità è stato, peraltro, quello che ha riguardato l’inapplicabilità dell’attenuante ex art. 73 comma 5 d.p.r. 309/90 al soggetto dichiarato recidivo reiterato (14).

Infatti, la l. 251/2005 ha riformato la disciplina della recidiva introducendo delle modifiche di sfavore per il prevenuto.

Esse riguardavano il soggetto che, dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commetta un altro, nel limite temporale di cinque anni da quello precedente, o che aveva compiuto il reato durante il tempo dell’esecuzione della pena, o durante quello in cui si era sottratto alla stessa.

L’art. 99 c.p. al comma 5 prevedeva, inoltre, l’applicabilità obbligatoria della recidiva per particolari delitti indicati nell’art. 407 c.p.p., con aumento di pena nei casi di recidiva aggravata imposto nell’an oltre che nel quantum.

In tali casi la pena non poteva essere inferiore a un terzo di quella comminata per il nuovo delitto.

La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la norma nella parte in cui imponeva l’obbligatorietà nell’an per il riconoscimento della recidiva e, a seguito di tale intervento, si è posto il problema della retroazione della disciplina più favorevole al reo.

Ebbene, la norma sostanziale introdotta nell’ordinamento era in grado di produrre effetti sfavorevoli sul trattamento sanzionatorio, atteso che la recidiva è una circostanza aggravante soggettiva, ex art. 70 c.p., e per la stessa vige il divieto di irretroattività, ex art. 25 comma 2 Cost..

Peraltro, chiaro al riguardo è anche il dettato dell’art. 59 c.p., che impone che le aggravanti possano essere poste a carico dell’agente solo se dallo stesso conosciute e quindi ‘prevedibili e conoscibili’, o se ignorate per colpa o per errore determinato da colpa.

Sulla base di tali considerazioni, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della recidiva reiterata aggravata nella parte in cui prevedeva l’obbligatorietà del riconoscimento, a prescindere dal giudizio di prognosi futura sulla possibilità di commissione di ulteriori delitti da parte dell’agente e sulla colpevolezza (15).

Le sentenze che avevano, pertanto, proceduto al riconoscimento della recidiva obbligatoria con la quantificazione del relativo aumento nel calcolo della pena non si fondavano su base legale e quindi il provvedimento giurisdizionale, in applicazione dei principi della sent. Gatto, andava revocato e il quantum della sanzione rideterminato.

Altra modifica rilevante della l. 251/2005 aveva riguardato l’art. 69 comma 4 c.p. nel quale si stabiliva per il giudice il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata.

La Corte Costituzionale ha al riguardo previsto, in luogo di una generica declaratoria di incostituzionalità dell’art. 69 co 4 c.p., settoriali pronunce in tema di incompatibilità della stessa con riguardo non solo all’art. 73 co 5 dpr 309/90, ma anche all’attenuante di particolare tenuità del reato di ricettazione di cui al comma 2 dell’art. 648 c.p., a quella dei casi di minore gravità di cui all’art. 609 bis c.p. co 3, nonché con riferimento al pentimento operoso ex art. 73 co 7 dpr 309/90 (16).

5. L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto.

Un’analisi peculiare va condotta per l’art. 131 bis c.p., introdotto dal d.lgs. 28/2015.

L’art. 131 bis c.p. esclude la punibilità per i reati che non prevedono una pena detentiva superiore ai cinque anni e che per la modalità della condotta e l’esiguità del danno e del pericolo producono un’offesa di particolare tenuità, salvo che la condotta non sia abituale.

La suddetta norma prevede che l’offesa non possa, tuttavia, ritenersi di particolare tenuità quando sussistano le condizioni ostative di cui al comma 2 del medesimo art. 131 bis c.p..

L’applicazione dell’istituto produce l’effetto di esclusione della pena ed è retroattivamente applicabile ai procedimenti ancora pendenti al momento dell’entrata

in vigore della norma, a prescindere dalla fase processuale, trattandosi di norma sostanziale (17).

Si è, infatti, sostenuto che non solo l’art. 131 bis c.p. risulta applicabile in appello nonostante sia stata comminata la condanna in primo grado, ma che possa essere anche rilevato d’ufficio dalla Suprema Corte di Cassazione come giudice di ultima istanza, ex art. 609 comma 2 c.p.p..

Infatti, se l’applicabilità della disposizione non poteva essere dedotta nel secondo grado di giudizio, poiché l’introduzione legislativa si presentava come successiva, è consentito alla Corte rilevare la questione, ma atteso il limite della giurisdizione di legittimità, deve trasferire al giudice del merito, quello di appello, la competenza alla dichiarabilità della medesima causa di non punibilità.

Tuttavia, è necessario operare una precisazione, per parte della giurisprudenza l’art. 131 bis c.p. avrebbe natura giuridica ‘mista’.

Tale asserzione si basa sul richiamo che l’art. 651 bis c.p.p. opera alla sentenza di non punibilità per tenuità del fatto, definendola di ‘proscioglimento’.

Rinvio che risulterebbe, altresì, confermato dall’art. 469 c.p.p. comma 1 bis, nel quale si prevede di nuovo che la sentenza di ‘non doversi procedere’ si possa pronunciare anche quando la punibilità debba essere esclusa per tenuità del fatto, salvo l’audizione della persona offesa nella camera di consiglio, con un chiaro parallelismo all’art. 34 d.lgs. 274/2000.

In tale ottica la giurisprudenza ha evidenziato che l’istituto risponderebbe a una ratio di deflazione processuale, che consentirebbe una pronuncia che non sia di merito ma si limiti a considerare il giudizio improcedibile, come avviene nei casi di difetto di una condizione di procedibilità dell’azione, alla quale l’istituto sembrerebbe assimilabile.

Lo scopo e l’operatività dell’art. 131 bis, in questa prospettiva, confermerebbero la natura ibrida dell’istituto.

La fattispecie, pertanto, rimarrebbe soggetta alla disciplina sostanziale ma sarebbe in grado di produrre effetti rilevanti anche in fase processuale.

6. Conclusioni.

Riassumendo, l’efficacia nel tempo delle norme penali si atteggia in maniera diversa con rispetto alle norme penali sostanziali e a quelle processuali, ritenendosi sussistere per le prime l’operatività del divieto di irretroattività sfavorevole e, con i limiti evidenziati, quello di retroazione favorevole, mentre per le norme processuali rimarrebbe applicabile il principio del tempus regit actum.

Con specifico riferimento alle fattispecie della recidiva e della causa di non punibilità per tenuità del fatto, bisogna affermare che, essendo entrambi istituti di natura sostanziale, sottostanno alle regole di efficacia nel tempo delle norme penali, salvo il riconoscimento di alcuni effetti processuali per l’art. 131 bis c.p., non incidenti tuttavia sulla disciplina applicabile.


Bibliografia:
(1) G. Fiandaca- E. Musco, Diritto Penale, Parte Generale, La funzione di garanzia della legge penale, IV ED. , Zanichelli Editore, 2005;
(2) Siniscalco, Irretroattività delle leggi in materia penale, Milano, 1965; Spasari, Diritto penale e Costituzione;
(3) A. Salerno, Il sistema del diritto penale, I, I principi generali del diritto penale, cap. III, Dike Ed. , 2017;
(4) Cass. SS. UU., 16 giugno 2003 n. 25887; Cass. Sez. V, 30 luglio 2015 n. 33774;
(5) Cass. SS.UU., 14 marzo 2014 n. 12228;
(6) F. Mantovani, Diritto Penale, Parte Generale, CEDAM Editore, 2017;
(7) Cass. Sez IV Pen. 6 giugno 2016 n. 23283; Cass. Sez. IV Pen. n. 47289/2014;
(8) Cass. SS.UU. 22 febbraio 2018 n. 8770; Cass. Sez. IV n. 28187/2017; Cass. Sez. IV n. 50078/2017; C. Cupelli, L’art. 590 sexies c.p. nelle motivazioni delle Sezioni Unite: un’interpretazione costituzionalmente conforme dell’imperizia medica (ancora) punibile, in www.penalecontemporaneo.it; G. Di Biase, Commento alla legge Gelli, in www.penalecontemporaneo.it;
(9) Grande Camera, sent. 17 settembre 2009 C- Scoppola c. Italia; C. Cost. 18 luglio 2013 n. 210;
(10) C. Cost. 324/2008;
(11) Cass. SS.UU. 14 ottobre 2014 n. 42858;
(12) Cass. Pen. Sez.I, \18 maggio 2017 n. 24834;
(13) Ancora Cass. SS.UU. 14 ottobre 2014 n. 42858
(14) C. Cost., n. 32/2014; Cass. SS.UU. n. 33040/2015; SS.UU. n. 37107/2015;
(15) C. Cost., 23 luglio 2015 n. 185;
(16) C. Cost., n. 251/2012; C.Cost., n.105/2014; C.Cost., n. 74/2016, C. Cost. n. 106/2914;
(17) Cass. Pen., Sez.III, 15 Aprile 2015 n. 15449.

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