Sopravvenuta incostituzionalità della normativa sugli stupefacenti
La sentenza n. 32 del 2014 della Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli art. 4 bis e 4 vicies ter della L. n. 49/2006, con i quali era stata radicalmente modificata la normativa in tema di sostanze stupefacenti e psicotrope, contenuta nel d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309.
L’incostituzionalità è stata affermata per la violazione dell’art. 77, 2° comma, Cost.
In sostanza, si è rilevato che la riforma del 2006 è stata introdotta solo in sede di conversione, con una totale disomogeneità rispetto al contenuto del decreto legge del 2005; sicché gli art. 4 bis e 4 vicies ter devono ritenersi costituzionalmente illegittimi.
Ne consegue che si torna ad applicare l’originario testo dell’ art. 73 d.p.r. 309/90, caratterizzato da una netta distinzione della risposta sanzionatoria, a seconda che le condotte illecite abbiano ad oggetto le cosiddette droghe pesanti ovvero le droghe c.d. leggere.
Risulta, dunque, «abrogata» l’intera riforma contenuta nella novella del 2006, che, all’art. 4 bis, modificando l’art. 73 d.p.r. cit., aveva unificato il trattamento sanzionatorio per le condotte illecite di produzione, traffico e detenzione di stupefacenti, sopprimendo ogni distinzione basata sulla diversa natura delle sostanze droganti.
E’ evidente come per i procedimenti in corso concernenti le droghe leggere si ponga il problema dell’applicazione della disciplina penale più favorevole. Infatti, la Corte costituzionale riconosce espressamente al giudice comune, quale interprete delle leggi, il compito di gestire gli effetti della sentenza di incostituzionalità, individuando la norma penale da applicare all’imputato.
Il problema che si è immediatamente posto alla Corte di cassazione è se la pena determinata sulla base delle norme dichiarate incostituzionali è illegale solo nel caso in cui vengano superati i rinnovati limiti edittali massimi delle pene, ovvero anche qualora tali limiti vengono formalmente rispettati. La questione si è posta in relazione sia alle sentenze di condanna sia a quelle di applicazione concordata della pena.
Con riferimento alle sentenze di condanna, la Corte di Cassazione si è pronunciata in senso favorevole ad una necessaria rivisitazione del trattamento sanzionatorio. In particolare, si è affermato che gli artt. 4 bis e 4 ter non solo cessano di avere efficacia, ma perdono anche l’idoneità ad abrogare la disciplina precedente, che rivive; di talché deve ritenersi applicabile la normativa più favorevole, prevista nel d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309.
Quindi in caso di sentenza di condanna pronunciata nel rispetto della normativa incostituzionale, la Corte di Cassazione ha disposto l’annullamento della stessa finalizzato alla rideterminazione della pena, disponendosi la trasmissione degli atti al tribunale territorialmente competente per l’ulteriore corso del giudizio.
Non diverso il panorama della giurisprudenza di legittimità con riguardo alle sentenze di applicazione concordata della pena (patteggiamento).
Secondo un primo orientamento, il giudice deve sempre annullare senza rinvio le sentenze di patteggiamento che, per il reato di detenzione di sostanze stupefacenti leggere, ratificano un accordo sulla base di parametri edittali previsti dalla disciplina dichiarata incostituzionale. Ciò perché il contenuto dell’accordo non sarebbe stato lo stesso e, quanto meno, il computo non sarebbe partito da una pena base che all’epoca corrispondeva al minimo ed oggi, invece, rappresenta il massimo edittale.
In senso contrario, si afferma la nullità della sentenza di patteggiamento relativa a droghe leggere soltanto nel caso in cui la pena base concordata tra le parti ecceda i limiti edittali previsti dal d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309. In tal caso, il giudice che rileva la nullità deve rimettere le parti nella posizione processuale antecedente all’accordo, restando le parti medesime libere di concordare una nuova pena.
Ove invece la pena base concordata in origine sia compresa entro i limiti edittali nuovamente vigenti, la sentenza della Corte costituzionale non produce alcun effetto sulla sentenza di patteggiamento, perché la stessa non può considerarsi illegale.
Tale orientamento che nega l’illegalità della pena nel caso in cui essa sia compresa entro i limiti edittali nuovamente vigenti, non può essere accolta in quanto sembra non tenere conto di due fattori rilevanti: il fenomeno prodotto dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale; la funzione della pena.
In relazione al primo profilo, la stessa Corte Costituzionale ha da sempre evidenziato come i due istituti dell’abrogazione e della illegittimità costituzionale delle leggi «si muovano su piani diversi, con effetti diversi e con competenze diverse». La norma abrogata a seguito di una legge successiva resta pienamente valida fino all’entrata in vigore della norma abrogante, mentre in caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale la norma colpita viene eliminata con effetto ex tunc dall’ordinamento, rendendola inapplicabile ai rapporti giuridici.
Dunque, la norma dichiarata incostituzionale deve essere considerata «come mai esistita», con la conseguenza di dover escludere il fenomeno della successione di leggi nel tempo, presupposto per l’applicazione dell’art. 2 c.p.
Ne deriva che, per i processi in corso per reati in materia di stupefacenti commessi all’epoca della vigenza della l. n. 49 del 2006, deve trovare applicazione necessariamente l’art. 73 d.p.r. n. 309 del 1990 nella sua originaria versione, proprio in quanto la disciplina incostituzionale deve ritenersi «come mai esistita».
Quanto al secondo profilo, la Corte di cassazione ha sempre ritenuto illegale la pena non prevista dall’ordinamento giuridico oppure eccedente per specie e quantità il limite legale e ha precisato che tale principio vieta che una pena che non trovi fondamento in una norma di legge possa avere esecuzione.
In sostanza, la conformità della pena alla legge deve essere costantemente garantita dal momento della sua irrogazione fino a quello della sua esecuzione.
In virtù di ciò, la Corte ha dovuto affrontare anche la questione della sorte della sentenza di patteggiamento irrevocabile, avente ad oggetto droghe leggere: se cioè la pena applicata debba essere necessariamente rideterminata in sede di esecuzione e, in caso di risposta affermativa, in che modo debba essere rideterminata.
La risposta delle Sezioni Unite è stata positiva sul primo quesito: l’illegalità sopravvenuta della pena pone le condizioni per l’intervento del giudice dell’esecuzione, che deve ricondurla a legalità.
Quanto alle modalità della rideterminazione, secondo il ragionamento della Corte la rideterminazione deve avvenire ad iniziativa delle parti (imputato o pubblico ministero) che sottopongono al giudice dell’esecuzione una nuova pena su cui è stato raggiunto l’accordo, quantificata in base alla legge vigente.
In caso di mancato accordo o di pena concordata ritenuta non congrua, le Sezioni Unite hanno riconosciuto al giudice dell’esecuzione il potere di rideterminarla autonomamente mediante valutazione discrezionale, utilizzando i criteri dell’adeguatezza e della proporzionalità.
Per completezza espositiva, sembra rilevante richiamare una recente sentenza della Corte Costituzionale del 6 maggio 2016 con la quale è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 4 quater della L. n. 49/2006. Secondo i giudici costituzionali tale disposizione prevede norme di carattere sostanziale del tutto svincolate da finalità di recupero del soggetto tossicodipendente, orientate più che altro a finalità di prevenzione di pericoli per la sicurezza pubblica.
Conseguentemente, appare evidente la palese eterogeneità delle disposizioni censurate rispetto ai contenuti e alle finalità del decreto legge in cui sono state inserite, con conseguente violazione dell’art. 77 Cost. per difetto del necessario requisito dell’omogeneità.
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Rosaria Panariello
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