Spese di invio fatture: a carico del cliente, ma solo se a conoscenza della relativa clausola contrattuale
Con ordinanza depositata in data 31 gennaio 2019, gli ermellini di piazza Cavour hanno evidenziato – sostenendo il duplice e concorde indirizzo di merito, che il ricorso posto al suo vaglio tentava invece di minare – come «le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza. Hanno aggiunto, ripercorrendo i fatti di causa, che «sulla base di tale inquadramento normativo il Tribunale ha ritenuto, con un accertamento di merito non sindacabile in questa sede, che non vi fosse la prova che la citata clausola, inserita nelle condizioni generali di contratto, fosse conosciuta dal cliente, non avendo la società telefonica fornito la relativa prova, gravante a suo carico; ed ha aggiunto che non potevano considerarsi opponibili al cliente le condizioni generali inserite in un documento trasmessogli dopo la conclusione del contratto [Corte di Cassazione, sez. VI Civile, ordinanza 20 dicembre 2018 – 31 gennaio 2019, n. 2997]».
Non v’è dubbio circa la singolarità del caso in commento, non fosse altro che per la futilità delle originarie istanze attoree, apparentemente ed esclusivamente concentrate su di un contratto telefonico impugnato a spada di Damocle al solo fine di contestare, e vedersi poi rimborsato, l’irrisorio costo di 13,41 euro sostenuto a titolo di «spese di spedizione di alcune fatture». Un caso, deve riflettersi, ove il reale fine ha nondimeno preso corpo nella “questione di principio” fatta propria dal cliente, che, ponendola a fondamento della sua pretesa, ha di sostanziale riflesso finanche denunciato la poco ortodossa condotta cui talune aziende sono oramai solite e che difficilmente decideranno di abbandonare.
Ma ciò non è stato immediatamente intuito dalla ricorrente compagnia telefonica. Tanto è vero che la stessa, a voler rappresentare un poco probabile invulnerabile quadro normo-contrattuale, si è sempre concentrata, anche in ricorso, sulla “assoluta legittimità delle clausole della specie, sulla loro tassatività e non vessatorietà”, lasciandosi così sfuggire come nessuna censura fosse stata mai mossa riguardo tali aspetti. Quanto, invece, ha assunto rilevanza per i Giudici di merito, come anche per la Suprema Corte, è sicuramente l’artato e poco trasparente approccio negoziale riservato per prassi al cliente (nel caso, anche privato consumatore). È tale artificiosa condotta che muove l’animo del consumatore, anche del meno abbiente, che scosso nell’orgoglio decide di far valere le sue pretese, che mai come ora, oltre che legittime ex lege, risultano essere logicamente fondate. Fondate secondo quella comune logica che, in siffatti rapporti, vorrebbe l’assoluto affidamento del cliente nel suo interlocutore professionale, cui dovrebbe poter riservare piena fiducia (nonostante sia risaputo – e digerito – che il negoziato business to consumer soffra una non trascurabile asimmetria contrattuale) senza doversi preoccupare di divenire (poi) inconsapevole bersaglio di agguati di male fede.
Solo una chiara, puntuale e scritta informazione, può superare tali malsane abitudini negoziali, manifeste agli occhi di tutti e che dovrebbero trovare concreta censura nell’operato delle Autority di settore. Non può farsi certo affidamento sulle capacità auto-guaritrici del mercato o sulla sua selezione naturale quale sentenza ultima di un percorso di giustizia socio-commerciale, considerato che, nonostante le spinte legislative sovranazionali, il mercato ha interrotto il suo processo di erudizione giuridico regolamentare già da qualche tempo; basti pensare alla scarsa contezza che il substrato ordinamentale ha delle potenzialità della disciplina Antitrust.
Non sorprende allora, né deve, il doppio vaglio di merito nonché di legittimità, deciso a condannare l’atteggiamento della compagnia telefonica, rea di non aver raccolto le sottoscrizioni informate del cliente. Sul punto, «non risulta agli atti la sottoscrizione, da parte del cliente, delle condizioni generali di abbonamento e, pertanto, della clausola che prevedeva l’addebito» relativo alle «spese di spedizione della fattura», e per tale ragione «si deve ritenere che il cliente non fosse a conoscenza delle condizioni generali di abbonamento», anche perché «non allegate al contratto». L’accento, quindi, è posto sulla conoscenza delle condizioni generali, ove si introduce anche un concetto di ordinaria diligente conoscibilità, visto che le clausole in parola neppure risultavano allegate – contestualmente – al contratto, o se vogliamo al carteggio contrattuale.
Il baricentro di ogni considerazione è qui il tema della trasparenza informativa, non certo della vessatorietà di una clausola orami accettata dall’Ordinamento nella sua generale sostenibilità etico-legale. È su tale tema che deve porsi l’accento e debbono concentrarsi i maggiori sforzi, un pò come accade da tempo, dietro la spinta dell’Autorità di Vigilanza, nel sistema bancario. Ogni ambito di offerta al pubblico dovrebbe permearsi di tali regole, non potendo bastare la predilezione di un solo settore.
Si osserva, in definitiva, che tanto sono legittimamente poste a carico del cliente le spese per la spedizione delle fatture, fintanto che la relativa clausola sia dallo stesso conosciuta. Viceversa, ove la parte beneficante della clausola risulti incapace di fornire prova della conoscenza della stessa per opera del cliente, la medesima parte dovrà essere condannata a restituire la somma caricata su quest’ultimo. Sul punto, i giudici di piazza Cavour, sono stati concisamente incisivi.
Non certo a caso, ed al contempo scongiurando la formazione di un precedente giudiziale che mal verrebbe letto dalla esegesi comune o se vogliamo commerciale (ergo, dal “mercato”), hanno difatti precisato che «non è stata considerata vessa la clausola con cui le spese di spedizione venivano poste a carico del cliente», né tantomeno si è preteso che «tale clausola venisse approvata per iscritto» ma quanto emerge è invece la mancata prova, la ‘prova provata’, del fatto che «la citata clausola, inserita nelle condizioni generali di contratto, fosse conosciuta dal cliente». È per l’assenza di chiarezza, non certo per la minore o maggiore bontà della clausola, che l’azienda veniva condannata. Chiarezza, da anticiparsi o al massimo contestualizzarsi alle sottoscrizioni contrattuali, e mai da posticiparsi ad esse, sia temporalmente quanto per connessione causale [nello specifico, «non potevano considerarsi opponibili al cliente le condizioni generali inserite in un documento trasmessogli dall’azienda solo dopo la conclusione del contratto (Corte di Cassazione, sez. VI Civile, ordinanza 20 dicembre 2018 – 31 gennaio 2019, n. 2997)»].
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Avv. Gianluca Panarese
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