Sport a contatto necessario, non è sufficiente la violazione del regolamento sportivo per il ristoro dei danni patiti in allenamento
La Suprema Corte di Cassazione con una recentissima pronuncia, sentenza n. 4707 del 15 febbraio 2023, ha affrontato nuovamente il labile confine tra l’illecito sportivo e l’illecito civile. Prima di ripercorrere i fatti ed il ragionamento che ha portato i Giudici di Piazza Cavour a chiarire quando, nel corso di un mero allenamento (privo di quel ardore agonistico insito in una competizione sportiva), una condotta violenta, in spregio alla regola sportiva, possa tradursi in illecito civile, è necessaria una disamina della cd. responsabilità sportiva.
L’attività sportiva viene generalmente suddivisa in tre grandi categorie in ragione del grado di violenza intrinseca a ciascuno sport e della possibilità che l’evento lesivo possa verificarsi. La prima categoria riguarda gli sport definiti a «violenza necessaria» o strutturalmente violenti, in cui la violenza è in re ipsa (ad esempio, il pugilato e la lotta libera). La seconda, invece, abbraccia un’ampia gamma di discipline sportive connaturate da un contatto fisico solo potenziale e pertanto definite a «violenza eventuale»; sono tali, ad esempio, il calcio, il basket. Infine, la terza categoria è relativa agli sport cd. «non violenti», quali, ad esempio, il tennis, il nuoto, l’atletica leggera, ove non è configurabile alcun contatto fisico né, pertanto, consentito l’uso della violenza.
È opportuno ricordare che a tale triplice suddivisione si aggiunge una ulteriore categoria che interessa tutte quelle discipline sportive in cui la possibilità che si verifichino delle lesioni è conseguenza della intrinseca rischiosità della stessa o in ragione della natura dei mezzi/strumenti utilizzati; tra queste possiamo annoverare lo sci, le gare automobilistiche, il ciclismo.
L’esercizio di una attività sportiva agonistica comporta l’accettazione del rischio che da essa possa derivare un pregiudizio. In base alla teoria della cd. scriminante atipica, nel prendere parte ad una competizione sportiva, in sostanza, gli atleti acconsentono e, pertanto, scriminano le lesioni che possono eventualmente derivare dalle condotte fallose poste in essere dagli altri partecipanti. Tali condotte non devono però superare la soglia del cd. rischio consentito, ossia quel rischio che l’atleta è consapevole di correre e lo accetta nel momento in cui decide di partecipare alla competizione [1]. A tal proposito, è pacifico che l’anzidetta soglia sia superata laddove la condotta posta in essere è di una durezza tale da comportare la prevedibilità del pericolo serio dell’evento lesivo a carico dell’avversario, esponendolo ad un rischio superiore a quello accettabile [2]. La giurisprudenza, peraltro, ritiene che l’atleta accetta il rischio normalmente connesso al tipo di sport praticato, non ogni rischio derivante dalla condotta altrui, anche dolosa [3].
Ciò detto, è da ritenersi priva di illiceità civile la condotta che abbia provocato un evento lesivo nel rispetto dei regolamenti federali ovvero, seppur in violazione degli stessi, priva di intenzionalità lesiva, ma dovuta ad eccesso di foga o per ansia da risultato. In questo ultimo caso, non superando la soglia dell’anzidetto rischio, si configurerà solo un illecito sportivo. Per contro, sono civilmente rilevanti e, quindi, comportano un obbligo risarcitorio in capo all’atleta che le abbia poste in essere, tutte quelle condotte che cagionino danni, in ossequio o non delle regole di gioco, connotate da intenzionalità lesiva ovvero non strettamente funzionali al contesto di gioco. Condotte simili si pongono in contrasto non solo con il generale principio del neminem laedere, ma anche con il fondamentale principio di lealtà sportiva e correttezza che deve informare il comportamento di ogni sportivo. Esso rappresenta un importante punto di riferimento sia per il giudice sportivo che per quello statale, costituendo la sua violazione il «tradimento delle stesse finalità dello sport» [4].
Da ultimo, va sottolineato che il principio del rischio sportivo consentito vale sia per l’attività sportiva svolta in forma agonistica, sia che si tratti di un allenamento o di un mero esame sportivo. A nulla rileva, secondo la giurisprudenza di legittimità, la natura dell’attività svolta:“non v’è motivo di distinguere a seconda della “occasione” e delle finalità per cui l’attività sportiva è svolta (se un allenamento, una prova o una competizione”). Invero, una distinzione rilevante può farsi solo rispetto ai dilettanti. Infatti, per quanto concerne la qualità dell’atleta, dallo sportivo sportivo professionista viene richiesta una maggiore attenzione rispetto al dilettante, il quale, ex adverso, “non ha le capacità tecniche di chi invece esercita l’attività sportiva su basi professionali e che meglio sa conformare la propria condotta alle regole di gioco” [5].
La vicenda. Tizio durante l’attività di sparring (combattimento leggero con lieve contatto) subiva per mano di Caio la rottura traumatica del testicolo sinistro, con consequenziale asportazione. Al fine di ottenere il ristoro di quanto patito, il primo conveniva in giudizio il secondo. La domanda di risarcimento veniva rigettata sia dal Giudice di prime cure e sia da quello del gravame, quest’ultimo con la ratio decidendi che i falli commessi durante lo svolgimento di un’attività sportiva, nel caso de quo la MMA (Mixed Martials Arts), godono della copertura della relativa scriminante se ed in quanto frutto di condotte colpose e funzionali al gioco; siccome l’arte marziale in questione esige il contatto fisico più completo che esista, il fallo inferto restava in necessario collegamento funzionale con il modello sportivo di riferimento.
Pertanto, avverso la decisione di secondo grado Tizio promuoveva ricorso in Cassazione, lamentando, che quanto in diritto affermato dal giudice del merito non può valere nel caso di sport c.d. a “violenza necessaria o di combattimento” perché altrimenti si giungerebbe alla soluzione aberrante secondo cui la lesione sarebbe sempre discriminata per il collegamento funzionale con il gioco dell’atto sportivo. Inoltre, aggiungeva che, siccome negli sport da combattimento e/o arti marziali l’aggressione dell’avversario è parte integrante della stessa attività sportiva agonistica, la scriminante del “rischio consentito” dovrebbe operare solo ove vengano rispettate le regole del gioco, senza l’uso di colpi proibiti (evidenziando che, tra l’altro, dal regolamento della disciplina vengono definite azioni illegali i colpi al triangolo genitale). Osservava, infine, che la violenza usata è stata non necessaria o funzionale all’atto sportivo in quanto si trattava di attività di sparring in allenamento, privo quindi di agonismo, e che la gravità della colpa discende anche dall’intensità della forza impressa, tale da cagionare la lesione, nonostante l’utilizzo della conchiglia.
La decisione della Suprema Corte. Gli Ermellini evidenziano che, come affermato dalla giurisprudenza civile, nella pratica sportiva in generale “il ricorso alla violenza, nel caso di violazione della regola, si traduce in illecito civile se è tale da non essere compatibile con le caratteristiche proprie del gioco nel contesto nel quale esso si svolge”. Diversamente, l’illecito sportivo non ha natura di illecito civile in quanto l’evento di danno trova giustificazione nel riconoscimento che l’ordinamento giuridico compie dell’attività sportiva.
Prosegue la Corte chiarendo che l’illecito civile ricorre quando “la fattispecie eccede la qualificazione di illecito meramente sportivo per l’emersione di una sproporzione della violenza adoperata rispetto alle caratteristiche del gioco ed allo specifico contesto”. È necessario un quid pluris che attiene sia alle modalità del fatto, sia al requisito soggettivo, rilevante non solo sotto il profilo del dolo, ma anche della colpa, la quale acquista, alla stregua di colpa generica, la consistenza di regola cautelare di prudenza e diligenza, non riducibile quindi alla mera inosservanza della regola sportiva prevista dal regolamento della federazione in questione. La condotta che ne deriva determina una rottura del confinamento dell’illecito nei margini della pratica sportiva perché “l’azione si presenta come non funzionale allo scopo sportivo o comunque non compatibile con quest’ultimo”. Ciò che rileva, dunque, non è la violazione della colpa specifica, poiché la mera violazione della regola sportiva resta sul piano dell’illecito sportivo, ma la colpa generica perché l’assenza di diligenza e prudenza determina il superamento del limite della causa di giustificazione in grado di scriminare la condotta che ha cagionato la lesione.
Secondo i Giudici del Palazzaccio, la natura di disciplina sportiva “a violenza necessaria” non muta il quadro dei degli anzidetti principii perché anche in questo ambito “non è predicabile la coincidenza mera di illecito sportivo ed illecito civile”. Infatti, anche in uno sport caratterizzato da un contatto fisico assai elevato si pone la questione di un uso della violenza sproporzionato rispetto a quella postulata dalla disciplina sportiva e tale da renderla estranea allo scopo sportivo. A titolo esemplificativo, i giudici di legittimità richiamano il caso dei colpi vietati (sotto la cintola, sulla nuca) nel pugilato: se tali colpi sono inferti nel corso dell’incontro fra i due contendenti nel pieno dell’attività agonistica è indubbiamente consumato l’illecito sportivo, ma non automaticamente quello civile; mentre, per contro, se gli stessi colpi sono inferti, sull’onda dell’aggressività indotta dall’agonismo, con l’avversario già al tappeto, emerge la configurabilità dell’illecito non solo sportivo, ma anche civile, per la non funzionalità dell’aggressione allo scopo sportivo, essendo il contendente già al tappetto. Pertanto, la presenza dell’illecito civile dipende anche in questa tipologia di attività sportiva da un esercizio sproporzionato della violenza, in barba al parametro della diligenza e prudenza, avuto riguardo alle caratteristiche della disciplina ed al particolare contesto in cui si è svolta la specifica pratica sportiva.
Relativamente alla circostanza dell’aver subito il danno nel corso di un allenamento, ove l’ardore agonistico dovrebbe essere minore rispetto ad una competizione, gli Ermellini evidenziano un discrimine con gli sport a contatto fisico solo eventuale. In questi ultimi, la ricorrenza dell’allenamento “dovrebbe ridurre l’agonismo e le sue diverse sfaccettature (energia, aggressività, velocità, istintività di reazioni), rendendo il contatto violento tendenzialmente meno giustificato”. Invece, nello sport da combattimento “anche l’allenamento, benché mancante del profilo agonistico, è connotato dal contatto fisico e dall’uso della forza, per cui la soglia di tolleranza della violenza resta più elevata rispetto all’allenamento di uno sport a violenza soltanto eventuale e nel quale la componente dell’impatto fisico dovrebbe trovare maggiore giustificazione nelle modalità agonistiche, estranee all’allenamento”.
Diversamente, proseguono i giudici di legittimità, si giungerebbe alla conclusione che negli sport da combattimento il verificarsi in allenamento di un illecito sportivo comporterebbe automaticamente l’esistenza dell’illecito civile. Devono, altresì, essere presenti ulteriori circostanze ai fini dell’integrazione dell’eccesso colposo, quali, ad esempio, la sproporzione nel livello di abilità degli atleti nonché la controllabilità della manovra atletica fonte della lesione.
La Corte ha, pertanto rigettato il ricorso enunciando il seguente principio di diritto: “nello sport caratterizzato dal contatto fisico e dall’uso di una quota di violenza la violazione nel corso di attività di allenamento di una regola del regolamento sportivo non costituisce di per sé illecito civile in mancanza di altre circostanze rilevanti ai fini del carattere ingiustificato dell’azione dell’atleta”.
[1] così in, COLANTUONI (a cura di IUDICA), Diritto sportivo, II edizione, 2020, pag. 489.
[2] Cass. Pen., 8 ottobre 1992, n. 9627.
[3] Cass. Civ., n. 35602/2021.
[4] sul punto, si veda PITTALIS, Fatti lesivi e attività sportiva, Milano, 2016, pagg. 53-54, ove tale principio viene descritto come pietra angolare di ogni ordinamento sportivo, sancito dal Codice di giustizia sportiva della FIGC e richiamato da tutti i regolamenti federali, nonché dal Codice di comportamento sportivo del CONI, il quale all’art. 2, rubricato “principio di lealtà”, stabilisce che i “tesserati, gli affiliati e gli altri soggetti dell’ordinamento sportivo devono comportarsi secondo i principi di lealtà e correttezza in ogni funzione, prestazione o rapporto comunque riferibile all’attività sportiva. I tesserati e gli altri soggetti dell’ordinamento sportivo cooperano attivamente alla ordinata e civile convivenza sportiva”.
[5] Cass. Civ., n. 35602/2021.
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Raffaele Toriaco
Avvocato, iscritto all'Ordine degli Avvocati di Foggia. Si è laureato nel 2018, presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, con una tesi in Diritto Sportivo dal titolo “Le misure antiviolenza nel calcio in Italia, tra prevenzione e repressione dei reati da stadio".
Dopo la pratica forense, si è abilitato all'esercizio della professione di avvocato nell’ottobre del 2021, presso la Corte d'Appello di Bari.
Nello stesso anno, ha approfondito la materia del diritto della proprietà intellettuale con il “Master online in Intellectual Property”, Business school Meliusform. Nel 2022 ha frequentato il Corso di perfezionamento in Diritto sportivo e Giustizia sportiva “Lucio Colantuoni”, organizzato dall’Università degli Studi di Milano.
È autore di pubblicazioni giuridiche e collabora con altre riviste giuridiche.
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