Stalking: in sede di applicazione di misura cautelare non basta il mero fastidio

Stalking: in sede di applicazione di misura cautelare non basta il mero fastidio

La massima. Con sentenza n. 2555 del 18/12/2020 (deposito 21/01/2021), la V sez. penale della Corte di Cassazione ha affermato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’evento tipico del reato di atti persecutori di cui all’art. 612 bis c.p., ossia “il perdurante stato di ansia o di paura”, che consiste in un profondo turbamento con effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, non può risolversi in una sensazione di mero fastidio, irritazione o insofferenza per le condotte minatorie o moleste subite; onde evitare che una interpretazione eccessivamente estesa finisca per diluire la tipicità della fattispecie incriminatrice con conseguente strumentalizzazione della norma penale per il conseguimento di interessi sovente extrapenali.

Il caso. La vicenda ha origine dal fallimento di un rapporto coniugale da cui è scaturito un provvedimento di allontanamento dalla casa familiare emesso nei confronti dell’ex marito a tutela dell’ex moglie e delle figlie minori.

A fronte di ciò, gli anziani genitori di lui, ritenendo la nuora responsabile dei problemi giudiziari del figlio, avevano iniziato a porre in essere una serie di condotte moleste nei confronti della donna, che aveva continuato ad abitare nello stesso stabile ove dimoravano i suoceri.

Il giudice per le indagini preliminari applicava ai due anziani la misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa per il reato di cui all’art. 612-bis c.p., perché con condotte reiterate, dal proprio appartamento, disturbavano la donna con frasi ingiuriose, non meglio individuate, che questa udiva perché residente al piano inferiore, nonché con sguardi diretti verso la di lei abitazione e delle proprie figlie.

A seguito del rigetto dell’istanza di riesame del Tribunale in funzione di giudice di appello cautelare, il ricorrente ha proposto ricorso per Cassazione censurando con un unico motivo la violazione di legge e il vizio di motivazione.

La Suprema Corte ha accolto le doglianze della difesa e ha annullato con rinvio l’ordinanza di conferma della misura cautelare per carenza degli elementi indiziari dai quali si evince che le condotte tenute dai due anziani per il loro carattere, tenuto conto anche delle circostanze di luogo e di tempo, siano direttamente idonee a concretizzare l’evento tipico del perdurante stato di ansia e di paura nella persona offesa.

La sentenza ha il merito di fornire importanti principi di diritto dal carattere pratico.

Natura giuridica del reato di atti persecutori e conseguenze nel giudizio cautelare. La decisione della Suprema Corte trova il suo fondamento nell’analisi della natura giuridica del reato di cui all’art. 612 bis c.p.

Il reato di atti persecutori si colloca tra quelli cd. “permanenti” costituito dalla “reiterazione di comportamenti molesti e assillanti” idonei a ledere, per un certo periodo di tempo, il bene giuridico tutelato dalla norma, da individuarsi nella compromissione della libertà morale a causa di un forte stato di ansia e timore che impedisce alla vittima di “autodeterminarsi senza condizionamenti”.

Il reato di stalking è, inoltre, costruito secondo lo schema del reato di evento, (Cass. n. 9222/2015), pertanto il «danno» – e cioè lo stato di ansia o di paura, l’alterazione delle proprie abitudini di vita, il timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto – deve essere proprio il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso.

Accedendo a tale impostazione, la più recente giurisprudenza di legittimità (ex multis, Cassazione penale , 17 novembre 2020, n.1541, sez. V) ha ritenuto che, anche ai fini dell’applicazione di una misura cautelare, non è sufficiente la valutazione di un quadro indiziario relativo alla sussistenza di comportamenti minacciosi o molesti, dovendo essere tale accertamento esteso anche al nesso causale e all’evento.

In altri termini, sebbene in sede cautelare non sia richiesta la raggiunta prova del reato, tuttavia, è necessario che il Giudice specificatamente individui elementi dai quali è possibile desumere l’idoneità degli atti a ingenerare nella vittima un forte stato di ansia e di paura.

Le coordinate ermeneutiche sull’elemento oggettivo del reato. Se la ratio sottesa al reato di cui all’art. 612 bis c.p. è quella di punire un soggetto che abbia comportamenti ossessivi, persecutori, “di caccia” (tale figura trae origine dall’inglese to stalk “fare la posta, braccare, pedinare”) nei confronti della persona offesa, compito del Giudice è quello di individuare quali siano – nel rispetto dei principi di tassatività e determinatezza imposti dalla norma – le condotte reiterate che, “complessivamente e unitariamente considerate”, siano idonee a far emergere un comportamento ossessivo e criminale dell’agente.

Ed invero, sul piano della tipicità, la Suprema Corte, in pieno accoglimento delle doglianze avanzate dalla Difesa, ritiene “eccessivamente assertiva” la connotazione di molestia o minaccia da attribuirsi ai comportamenti tenuti dagli imputati.

Le presunte voci di due persone anziane provenienti dal piano superiore dell’abitazione rispetto a quella della persona offesa (par. 2.1), sia pure ingiuriose, non possono, se astrattamente considerate, integrare la condotta tipica di “atti persecutori” tali da compromettere la libera autodeterminazione della persona offesa.

La norma, infatti, ritiene necessario che la condotta si estrinsechi quanto meno in una molestia o minaccia.

Nel caso di specie, l’assenza di una violenza da rinvenirsi nella minaccia di un male futuro e ingiusto (non ravvisabile certamente in frasi di sfogo o di disapprovazione nei confronti della nuora per l’impossibilità di vedere il proprio figlio) ovvero di un comportamento che possa creare tormento (non individuabile nella condotta di chi guarda un’abitazione essendovi costretto a passare per accedere alla propria perché ivi residente), non è in grado di realizzare neppure una delle condotte rilevanti ai fini della configurazione del reato di cui all’art. 612 bis c.p.

Opinando in senso opposto, come affermato dalla Suprema Corte nella sentenza di annullamento con rinvio della misura cautelare in esame, il reato di cui all’art. 612 bis c.p. finirebbe per <<diluire la tipicità della fattispecie incriminatrice e la potenziale strumentalizzazione della norma penale per il conseguimento di interessi sovente extrapenali>>.

Premesso che già sul piano della condotta, meri affronti provenienti da due persone anziane non siano in grado di tradursi, per ciò solo, in comportamenti ossessivi e criminali, la Corte di legittimità ha cura di precisare che il Giudice cautelare debba verificare anche l’idoneità causale dei comportamenti individuati a realizzare l’evento e cioè lo stato di ansia e di paura indicato nel capo di imputazione (Cassazione penale , 17 novembre 2020, n.1541, sez. V).

In particolare, in sentenza è precisato che non è affatto sufficiente la apodittica affermazione dell’esistenza di un compromesso stato psicologico dovendo, questo, essere oggetto di un’apposita valutazione (par. 2.2).

Tale interpretazione impone che la Pubblica Accusa debba quantomeno indicare quali siano gli elementi indiziari dai quali si possa evincere l’idoneità di tali comportamenti ad ingenerare uno stato di timore in una persona media e, ancor di più, tenendo conto del rapporto che eventualmente lega l’agente e la persona offesa.

A tal proposito, acquistano rilevanza le caratteristiche dell’agente, i rapporti esistenti tra aggressore e vittima; il contesto in cui tali condotte rinvengono la proprio origine.

In ordine al primo aspetto occorre specificare, ad esempio, in che modo le urla o le ingiurie di due persone anziane anche affette da disabilità, siano in grado di ingenerare un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della persona offesa.

In secondo luogo, la valutazione della idoneità degli atti a realizzare l’evento, non può prescindere dal contesto in cui essi sono posti in essere perché è evidente che non ogni momento di tensione o di reciproca pretesa può essere qualificato come atto persecutorio e nemmeno la complessa gestione della fase post-separazione, che spesso porta con sé inevitabilmente momenti di conflittualità, può di per sé far concludere che uno dei due protagonisti del rapporto sia uno stalker, in cui senza dubbio possono essere ricompresi genitori anziani.

Si desume, insomma, che sia opportuno stabilire se l’imputato abbia voluto infliggere un turbamento non dovuto o assolutamente eccessivo rispetto al contesto, per quanto teso possa essere, così da far tracimare le opposte rivendicazioni che quasi ontologicamente connotano una separazione in un quid pluris, che consista addirittura in un reato.

Infine, la Corte di Cassazione, si sofferma sull’evento costitutivo del reato che alternativamente consiste in un grave stato di ansia e di paura, nel fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di una persona legata alla persona offesa da una relazione affettiva, oppure la necessità, per la persona offesa, di modificare le proprie abitudini di vita.

La fattispecie ha, dunque, carattere complesso in senso lato, essendone elementi costitutivi fatti già costituenti autonomi reati, quali le minacce o le molestie rivolte alla p.o., ed un quid pluris costituito dall’evento da esse generato.

Ebbene, se l’evento dello stato di ansia e di paura originariamente era inteso dalla dottrina come un vero e proprio stato patologico, accertabile nel processo per mezzo di consulenze tecniche; la giurisprudenza di legittimità quasi subito ha ritenuto pacificamente che la prova dell’evento denunciato dalla vittima del reato possa essere dedotta anche dalla natura dei “comportamenti tenuti dall’agente e dalla persona offesa” (Cass. V, n. 8832/2011; Cass. V, n. 24135/2012; Cass. VI, n. 50746/2014; Cass. VI, n. 20038/2014), e cioè dagli elementi indiziari sintomatici di uno stato psicologico destabilizzato.

In relazione a tale aspetto, i giudici di legittimità (par. 2.3.) precisano che anche in sede cautelare, l’attività valutativa del Giudice deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico, tenendo conto delle dichiarazioni rese dalla vittima del reato, sia dei comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dagli agenti (C., Sez. V, 14.3-18.7.2019, n. 31981; C., Sez. V, 17.4-23.5.2019, n. 22843; C.,). Non vanno quindi trascurati segni ed indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alla condotta dell’agente (C., Sez. V, 14.4-6.7.2015, n. 28703) da cui si evinca uno stato di prostrazione psicologica che si sia in qualche modo manifestato, sia pure in termini di <<stress>> oggettivamente e agevolmente accertabile.

Ebbene, nel concetto di “effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima” così come inteso dalla più recente giurisprudenza di legittimità (C. Sez. V, 9.12.2019 -.2.2020 n. 4728), non possono essere ricompresi i sentimenti di fastidio, irritazione o insofferenza nei confronti di determinate situazioni.

Ed invero, il reato di stalking, è una fattispecie ben più grave e pensata dal legislatore per punire condotte particolarmente vessatorie, “di caccia”, di taluno nei confronti di un altro, tale da creare una concreta alterazione dello stato psichico ovvero delle abitudini di vita.

Elemento soggettivo. In conclusione, anche sul piano soggettivo, vi sarebbe da precisare che il dolo generico richiesto dalla norma non possa essere individuato nella incapacità degli indagati, nel caso di specie anziani, di governare i propri atteggiamenti aggressivi.

Ed invero, premesso che ai fini della integrazione della condotta è sufficiente la mera consapevolezza di arrecare uno degli eventi tipici di cui all’art. 612 bis c.p., sarebbe opportuno verificare in che termini tale stato soggettivo sia imputabile a due persone anziane afflitte da un forte stato di malessere legato al divorzio del figlio ove i comportamenti molesti non possono essere astrattamente ricondotti alla volontà di minacciare o molestare senza verificare in concreto se non siano, piuttosto, espressione di una protesta o manifestazione di uno stato di sofferenza generato dalla spiacevole situazione in concreto realizzatasi.


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Maria Cerreto

Nata in provincia di Caserta nel 1994, ha conseguito con lode la laurea magistrale in Giurisprudenza nell'anno accademico 2017/2108 presso “l’Università degli studi di Napoli Federico II”, con una tesi in diritto processuale penale. Ha svolto il tirocinio formativo ex art.73 d.l. 69/2013 presso la Procura di Santa Maria Capua Vetere- ufficio del procuratore Aggiunto. Attualmente svolge la pratica forense ed é iscritta al registro dei praticanti avvocati di Santa Maria Capua Vetere.

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