Status unico della filiazione e mantenimento del figlio maggiorenne
In merito al tema del rapporto genitori-figli e, particolarmente, a riguardo della disciplina della condizione unica del figlio, è indubbio che tale sedes materiae, come d’altronde l’intero sistema di norme che governano il diritto di famiglia, è stata oggetto di una radicale e profonda trasformazione storica, sociale, culturale e legislativa.
Benché oggi, dopo la riforma 2012-2013, la disciplina sulla condizione unica del figlio sia pacificamente considerata pressoché omogenea ed unitaria, in passato era netta la distinzione e la rilevanza giuridica attribuita ai figli legittimi e i figli naturali (illegittimi secondo l’espressione utilizzata dal codice del ’42) e, tra questi, tra figli riconosciuti o giuridicamente accertati e figli non riconosciuti o irriconoscibili (v. M. Sesta, Manuale di diritto di famiglia, pp. 225 e ss.; per la disciplina anteriore alla riforma del ’75, v., invece, per tutti, A. Cicu, La filiazione, 1918). Mentre i primi, nati all’interno dell’istituzione fondante della famiglia, cioè il matrimonio (ex art. 29 Cost., e non pochi dubbi vi sono ad oggi sulla coerenza della dizione costituzionale con il sistema odierno), godevano di una tutela piena, i figli nati fuori dal matrimonio ricevevano una tutela identica soltanto per relationem (ex art. 261 c.c.), e purché fossero riconosciuti o giudizialmente accertati (fatte salve le ipotesi dei figli adulterini ovvero incestuosi stando il divieto di riconoscimento ante riforma del ’75). Ai figli non riconosciuti o irriconoscibili, infine, era garantita una tutela meramente alimentare. Tale trattamento a “scomparti” si traduceva, concretamente, in una tutela denigratoria, specialmente sul piano successorio: ai figli legittimi era riconosciuta ipso iure una quota indisponibile dell’eredità, ai figli naturali riconosciuti o giudizialmente accertati una quota necessaria, seppur ridotta, ai figli non riconosciuti o irriconoscibili solamente un assegno avente natura alimentare (art.279 c.c.).
Con la L.75/151 vennero aboliti i divieti di riconoscimento dei figli adulterini e incestuosi (in specie, a seguito di alcune pronunce della Corte Costituzionale, tra i collaterali in secondo grado e gli affini in linea retta) e si pervenne ad una sostanziale parificazione di tutela giuridica tra le diverse categorie di figli. Tuttavia residuava, negli artt. 74 c.c. e 258 c.c., una palese disparità di trattamento riguardo alla possibilità, negata, per i figli naturali di entrare a far parte della rete parentale del genitore e, conseguentemente, di adire alla successione legittima. Con la L.12/219 e con il relativo decreto attuativo D. Leg. 13/154 (Revisione delle disposizioni in materia di filiazione a norma dell’art.2, lett. h) della L.12/219), il legislatore ha attuato una vera e propria “rivoluzione” (riprendendo la locuzione utilizzata da L. Mengoni) rendendo unica la condizione dei figli, all’interno del più ampio rapporto genitori-figli.
Prendendo in considerazione in maniera sistematica il contenuto della riforma, appare evidente ictu oculi che la norma cardine del nuovo sistema sia sancita nel titolo IX rubricato «Della responsabilità genitoriale e dei diritti e dei doveri dei figli», del libro I del codice civile, dall’art.315 «Stato giuridico della filiazione», che solennemente statuisce che “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico” (sul punto v. M. Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e nuovi assetti delle relazioni familiari, p, 231; sul concetto di “status” quale collegamento giuridico di una persona ad una comunità, v. A. Cicu, Il concetto di status, 1917).
Alla luce della riforma, viene in rilievo preminente, la nuova formulazione dell’art.315-bis «Diritti e doveri dei figli» che, con una previsione costituzionalmente orientata, ha trascritto la triade mantenimento, educazione ed istruzione di cui all’art.30 Cost. all’interno del codice. Su tale norma è bene concentrarsi effettuando due ordini di osservazioni. In primis appare modificata, anche involontariamente dal legislatore, la “graduata scala di valori” (riprendendo l’espressione adoperata da Rescigno) espressa dall’art.30 Cost., antecedendo il diritto all’istruzione a quello all’educazione. In secundis, viene esplicitamente sancito il diritto all’assistenza morale (in verità non nuovo all’ordinamento giacché assai simile a quello di “cura genitoriale” previsto in precedenza dall’art.155, comma 1, dalla riforma del 2006), ovverosia di un diritto del figlio più ampio di quello al mantenimento e che si sostanzia in un interesse premuroso e continuativo dei genitori di accompagnamento nella crescita della personalità del figlio. Infatti statuisce expressis verbis l’art. 315-bis, comma 1, seconda parte, “assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni“.
A norma dell’art.315-bis è obbligo primario dei genitori quello di provvedere al mantenimento del figlio. Quanto alla portata di tale diritto, in dottrina si è soliti delimitarlo strutturalmente giustapponendolo al più limitato diritto agli alimenti (art.433 c.c.) ravvisando almeno tre punti di differenziazione: a) il diritto al mantenimento sussiste indipendentemente dallo stato di bisogno del soggetto, ma sempre e solo per la appartenenza ad un dato nucleo familiare; b) il diritto al mantenimento ha portata più ampia rispetto al diritto agli alimenti attenendo al sostentamento di normali esigenze di vita, legate anche alla vita relazionale del figlio, e non soltanto alle esigenze essenziali; c) il diritto al mantenimento nasce e cessa su presupposti differenti rispetto agli alimenti di cui all’art.433 c.c. (per tale distinzione si veda A. Trabucchi, Istituzioni di diritto privato, 2012).
Il momento in cui sorge il diritto del figlio al mantenimento deve individuarsi nell’acquisto del titolo dello stato filiazione. Peraltro, per espressa previsione di legge, esso non viene meno con la maggiore età, ma solo al momento dell’acquisizione dell’indipendenza economica del figlio, come si evince dal combinato disposto degli artt. 30 Cost., 315-bis c.c. e 337-septies, sicché tale diritto non cessa neanche nei casi di crisi familiare.
La giurisprudenza ha riconosciuto costantemente il diritto al mantenimento in capo al figlio maggiorenne impegnato negli studi universitari, in attività di formazione post–lauream e in altre attività professionalizzanti non sufficientemente retribuite (cfr. C.11/1830). Al contrario, più incerta è la posizione dei giudici riguardo ai casi di lavoro precario (si pensi al caso del ricercatore universitario con contratto a tempo determinato e che successivamente alla scadenza dello stesso torni disoccupato) nelle cui ipotesi la giurisprudenza ha negato il riconoscimento al mantenimento. Infine, nel caso in cui il figlio maggiorenne decida di contrarre matrimonio, la giurisprudenza si è orientata nel senso che un diritto al mantenimento non debba essere negato al figlio maggiorenne per il solo fatto che lo stesso abbia deciso di passare a nozze, ma che il mantenimento vada garantito fino a che la nuova coppia non formi un “nucleo familiare nuovo e stabile” (cfr. C.13/11020).
FONTI:
M. SESTA, Manuale di diritto di famiglia, 2016.
A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto privato, 2017.
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Enrico Sericola
Laureato in Giurisprudenza cum laude presso l'Alma Mater Studiorum di Bologna. Tirocinante ex art. 73 D.L. 69/2013 presso il Tribunale di Milano. Specializzando presso la Sspl "E. Redenti" di Bologna.
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