Stepchild adoption e famiglia arcobaleno: evoluzione e criticità
La famiglia, quale formazione sociale strumentale alla realizzazione dell’individuo, ha subito negli anni radicali mutamenti; tali da condurre ad un vero e proprio passaggio dal modello c.d. unitario a quello c.d. pluralistico che ha coinvolto non solo l’aspetto sociologico ma anche quello giuridico delineando un nuovo rapporto tra famiglia e diritto.
Approfondendo il tema gradualmente va, innanzitutto, precisato che l’ordinamento giuridico italiano non ha da sempre considerato la famiglia come quel nucleo sociale costituito dall’uomo e dalla donna vincolati dal rapporto di coniugio e posti in una posizione paritaria, anzi, il codice civile unificato del 1942 era ben lontano da tale visione, al punto da imporre un unico modello di famiglia, ovvero, unitario, senza lasciare alcuno spazio ad altre alternative. Il codice civile unificato, parimenti al codice preunitario del 1865, aderiva al modello di famiglia patriarcale fondato sul matrimonio eterosessuale, che legava i coniugi con vincolo indissolubile, organizzato secondo una visione paternalistica, autoritaria e gerarchica, occupando così, una posizione del tutto preminente e dominante.
Concezione che, per quanto ad oggi può apparire superata ed obsoleta, in quegli anni rispecchiava appieno le esigenze del tempo e della società preindustriale ed agricola, ovverosia, un’organizzazione produttiva dettata da una netta separazione dei ruoli e dei poteri dei singoli componenti del nucleo familiare. La famiglia era disposta, al pari di ogni altra istituzione, a tutela di un interesse giuridico per il quale la legge attribuiva come portavoce e custode il solo pater familias. In virtù della potestà – patria ([1]) nei confronti della filiazione e maritale ([2]) nei confronti della moglie – il padre esercitava in maniera assoluta ed esclusiva i propri poteri/diritti su tutti i membri del nucleo familiare che vivevano in un perenne status di subordinazione. A tal uopo si menziona l’articolo 144 del codice civile nel suo testo originario prevedeva: “Il marito é il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed é obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”. Ciascuna donna/moglie, quindi, viveva in una palese condizione di inferiorità e soggezione rispetto al proprio marito; status reso ancor più incombente dal regime patrimoniale di comunione dei beni, dalla normativa in materia di beni dotali e dal dovere maritale di mantenimento. Discorso analogo vigeva anche per la filiazione che era incondizionatamente soggetta al potere esclusivo del padre, unico titolare del potere di proteggere, educare ed istruire i propri figli.
Un significativo cambiamento nel diritto di famiglia è stato introdotto, in primis, dalla Costituzione nonché dalle plurime fonti internazionali, tra le altre, la Carta EDU e la Carta di Nizza. In primo luogo il testo costituzionale ha promosso una concezione del tutto nuova di famiglia, non più patriarcale ed istituzionalistica, aderente al principio cardine della solidarietà ex art. 2 Cost., ovvero, la famiglia nucleare si configura come formazione sociale che mira allo sviluppo dell’individuo in quanto tale. Ancor prima di esaminare il concetto specifico di famiglia, occorre prendere le mosse dalla locuzione di formazione sociale ([3]) che si riferisce in genere ad ogni tipo di organizzazione o di comunità che si interpone tra l’individuo e lo Stato. Invero l’articolo 2 della Costituzione prevede che: “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.” In altri termini, dunque, tale principio garantisce i diritti inderogabili dell’uomo che è, e deve essere, libero di formare degli aggregati sociali ([4]) stabilendo l’esistenza di diritti inderogabili che proprio in ragione della loro natura ed entità in nessun caso possono essere negati; diritti che sono inalienabili ed inderogabili in quanto naturali e preesistenti alla formazione dello Stato, ossia diritti di cui un uomo gode in quanto individuo, sia sul piano individuale che nella dimensione sociale ([5]). Il riconoscimento delle formazioni sociali nella Carta costituzionale è giustificato dal fatto che senza le prime, i diritti della persona umana non sono integralmente tutelati, dunque, occorre predisporre un sistema normativo non solo rivolto al singolo ma anche ai diritti delle formazioni sociali alle quali la persona umana si accinge.
Tuttavia sfogliando le pagine del codice civile non si rintraccia una visione collettivistica del concetto stesso di famiglia, ovverosia, specifici segni di una titolarità di diritti riconosciuti alla “famiglia” come soggetto complesso, bensì ai singoli individui che la compongono. Le disposizioni di legge prevedono, dunque, diritti e poteri legati alla singola situazione giuridica soggettiva dell’individuo. Invero la formazione sociale, quale luogo di esplicazione e sviluppo della personalità individuale, trova riscontro a livello costituzionale, dapprima, all’articolo 2 e poi, in termini specifici come in materia di famiglia nell’articolo 29 Cost. Appare innegabile l’impegno del Legislatore Costituente nel riconoscere esplicitamente un rilievo normativo alle formazioni sociali, tra le altre, la famiglia quale società, dapprima, naturale e poi sociale.
A tal uopo occorre menzionare l’articolo 29 della Costituzione italiana che al comma I sancisce che: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”, ovvero, riconosce e tutela i diritti della famiglia “tradizionale” fondata sul matrimonio. Essa, infatti, occupa una posizione preminente all’interno della società civile. L’asserzione “famiglia come società naturale” evidenzia che essa preesiste a prescindere dallo Stato essendo un diritto originario, pertanto, da quest’ultimo deve essere riconosciuta e tutelata. La formazione sociale spontanea – recte naturalis societas – rappresenta un bisogno radicale innato nella natura umana e che, pertanto, non può essere in alcun modo negato oppure ostacolato dall’intervento statale.
Premesso ciò va, altresì, detto che non può uno Stato che si definisce democratico e costituzionale riconoscere e garantire soltanto i diritti del singolo uomo senza, però, prevedere i diritti dell’uomo associato. La relazione familiare deve strutturarsi nell’organizzazione di una vita in comune di due essere umani sotto il profilo sia materiale che spirituale al fine di raggiungere il pieno ed integrale sviluppo della persona umana ([6]). L’art. 29, comma II, della Costituzione configura l’istituto del matrimonio come il fondamento giuridico e legale del gruppo famiglia, difatti, precisa che: “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge e a garanzia dell’unità familiare”. Tale disposizione afferma, dunque, il principio di unità della famiglia secondo i criteri di egualità e pariteticità dei coniugi – species dei principi generali di solidarietà e libertà individuale.
L’essenza stessa dell’istituto del matrimonio muta nel tempo, tanto è vero che non viene più inteso come mero atto bensì come un vero e proprio rapporto giuridico – consortium omnis che, nonostante tutte le novità legislative a livello ordinario, resta il vulnus della famiglia legittima. Sul punto appare lapalissiano l’atteggiamento favorevole del Costituente rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, di contro, nulla viene detto in ordine alla famiglia non matrimoniale.
In secondo luogo sul piano sovranazionale è stata incisiva e stringente la spinta della CEDU e dell’Unione Europea[7] per l’avvio di un processo di pluralizzazione delle famiglie ponendo fine all’esclusività del modello unitario della famiglia tradizionale. Sul punto, infatti, dalla lettura combinata dell’articolo 9 della Carta di Nizza, secondo cui “…il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio” e dell’articolo 12 della CEDU secondo cui “…per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto” emerge contestualmente il superamento sia del tradizionale binomio inscindibile famiglia-matrimonio che del requisito, sino ad allora, ritenuto essenziale della diversità del sesso dei coniugi. Entrambe le Carte sovranazionali prevedono, infatti, nonostante la competenza esclusiva dei singoli Stati membri dell’Unione europea in materia di famiglia, un sistema articolato di tutela dell’individuo e delle relazioni familiari ([8]) come: il diritto di sposarsi e di costruire una famiglia, il rispetto della vita familiare e privata, la parità uomo-donna, i diritti dei minori ed il divieto di discriminazione di sesso e di orientamento sessuale.
Tuttavia in ambito internazionale, o più correttamente europeo, pur riconoscendo importanti diritti e rafforzando il processo del pluralismo familiare, rinvia all’ordinamento nazionale per le modalità di esercizio. Rinvio che ha consentito a ciascuno Stato membro la facoltà di aderire, in tempi più o meno recenti, o di non aderire alle unioni civili. Importanti passi in avanti sono stati fatti dalla giurisprudenza sovranazionale, come la Corte di Giustizia che, molto prima rispetto al Legislatore nazionale, ha stabilito che al termine “coniuge” deve attribuirsi la più ampia accezione ricomprendendo, non soltanto la persona dell’altro sesso, bensì anche la persona dello stesso sesso. La nozione di coniuge è un concetto neutro che non ha alcuna precisazione sul genere, pertanto, può comprendere qualunque persona legata ad un’altra – cittadino UE, da un valido contratto matrimoniale. Meritevole di menzione è la rivoluzionaria sentenza Coman (cfr. sentenza del 5 giugno 2018, causa C-673/2016) ove la Corte di giustizia si è pronunciata, per la prima volta, circa la possibilità per un cittadino dell’Unione europea di esercitare il diritto al ricongiungimento familiare con il proprio coniuge, cittadino di Paese terzo, nell’ambito di un matrimonio tra persone dello stesso sesso ([9]). La Corte nell’intento di assicurare la libera circolazione dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari, eventualmente cittadini di Paesi terzi, ha esteso l’ambito di applicazione dell’art. 21, par. 1 TFUE anche a quelle ipotesi in cui il coniuge del cittadino dell’Unione – cittadino di un Paese terzo – sia dello stesso sesso, a prescindere che il matrimonio contratto sia, o non, riconosciuto nello Stato membro di origine del cittadino dell’Unione. La Corte ha precisato che la direttiva 2004/38/CE ([10]) ha come obiettivo agevolare il pieno ed effettivo godimento dell’esercizio del diritto dei cittadini dell’Unione di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, pertanto, ragionando a contrario non riconoscere, o meglio, impedire il ricongiungimento familiare, come nel caso di specie, rappresenterebbe una valida ragione per distogliere il cittadino UE dall’esercizio del diritto di libera circolazione.
Stimolante è l’analisi giurisprudenziale della Corte EDU ([11]) che, in molteplici occasioni, ha sancito che la vita di coppia tra persone omosessuali rientri pienamente sia nella nozione di vita privata che familiare – art. 8 CEDU – al pari delle coppie eterosessuali, dunque, i diritti garantiti dalla Convenzione europea sono attribuibili a tutti, indipendentemente dall’orientamento sessuale del singolo.
Soltanto a seguito di condanne sul piano internazionale e di ripetute pressioni da parte della Consulta il legislatore nazionale ha adempiuto al dovere di riconoscimento giuridico delle nuove forme di famiglia con la legge 20 maggio del 2016 n. 76 ([12]) ove si è giunti a delineare una normativa in materia di unioni civili – comprensivi sia delle coppie omosessuali che delle coppie etero legate da convivenza more uxorio. Per la prima volta con la Legge n. 76/2016 in Italia viene riconosciuta l’unione civile ([13]) tra persone dello stesso sesso come “formazione sociale” eliminando, dunque, ogni tipologia di discriminazione in ossequio al principio di eguaglianza sostanziale previsto all’articolo 3 Cost.
Prima del suddetto intervento legislativo nel nostro ordinamento vi era un vuoto normativo data l’assenza di una legge apposita che regolamentasse la stabile convivenza fondata su un legame affettivo e su un comune progetto di vita; per tale ragione la legge in esame ha costituito un’importante novità. L’obiettivo della suindicata normativa era introdurre in primis diritti ed obblighi alla vita di coppia omosessuale analoghi, o quantomeno simili, a quelli previsti per la famiglia matrimoniale ([14]); nonché disciplinare in maniera organica i rapporti di fatto tra la coppia e i soggetti terzi. I rapporti di filiazione rappresentano la principale differenza normativa che tutt’ora sussiste tra famiglie etero ed omosessuale. Tra le disposizioni da analizzare, come esempio va citata la presunzione di paternità ex art. 231 del codice civile secondo cui: “Il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio”, o ancora, la disciplina degli effetti del matrimonio nei confronti dei figli di cui agli art. 147 e 148 c.c. come l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo il criterio del concorso degli oneri. Tali disposizioni, pur ritrovando piena applicazione nella normativa matrimoniale, non assumono espresso richiamo nella disciplina delle unioni civili.
Trattasi di un’omissione legislativa consapevole per ragioni politiche ([15]), e non solo. Il legislatore ritiene non applicabile le disposizioni del codice civile in materia di filiazione ed in sede di elaborazione legislativa giunge allo stralcio dell’art. 5 d.d.l. Cirinnà – avente ad oggetto la c.d. stepchild adoption.
Si tratta di una forma di adozione “mite”, che mira a tutelare il diritto del minore ad avere una famiglia in situazioni in cui la legge non avrebbe consentito di giungere all’adozione piena ma nelle quali, tuttavia, rappresentava una soluzione auspicabile. La stepchild viene, quindi, generalmente utilizzata quando due adulti formano una nuova famiglia e uno di loro, o entrambi, hanno un figlio avuto da una precedente relazione.
La stepchild adoption consente al partner di una coppia omoaffettiva di divenire legalmente, mediante adozione, il genitore del figlio del proprio coniuge con il consenso del genitore biologico attraverso una procedura straordinaria che sfocia nell’esercizio del diritto del minore ad avere una famiglia. Tale intervento normativo sancisce a chiare lettere il principio dell’equivalenza, quando prevede che “le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.” Va, altresì, precisato che tale equivalenza incontra, però, ben due eccezioni, infatti, non trova applicazione per le “… norme del Codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché le disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184”. In questo modo il Legislatore sembra negare in toto il diritto/potere di adozione alle coppie dello stesso sesso.
Di diverso avviso appare, invece, l’ultima parte del comma 20 dell’art. 1 della predetta legge secondo cui “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”. Formulazione letterale, di certo, ambigua che lascia non pochi dubbi sulla possibilità o meno di consentire l’adozione di figli ad una coppia dello stesso sesso.
Sulle possibilità applicative delle regole in materia di adozione cerca di far chiarezza dapprima la giurisprudenza di merito e poi il giudice di legittimità. Ma andiamo per gradi.
L’adozione sui generis ha da sempre rappresentato nel nostro ordinamento giuridico una procedura complessa ed articolata in qualsiasi caso e, dunque, non solo nel caso delle coppie omoaffettive. Difatti essa non è automatica, anzi, occorre una regolare proposizione della domanda giudiziale innanzi al Tribunale per i minorenni; quest’ultimo effettua un’indagine scrupolosa per verificare l’idoneità affettiva valutando la capacità educativa, la situazione personale ed economica, la salute e l’ambiente familiare dell’adottante.
Non è un caso, infatti, che sino al 2007, l’adozione in casi particolari era ammessa solo per le coppie sposate presupponendo ex se che un rapporto giuridico, come quello matrimoniale, necessariamente corrispondesse ad una maggior garanzia di solidità e stabilità della coppia. Attualmente, cadendo in errore, il termine “step-child adoption” viene solitamente utilizzato con riferimento alle sole coppie omosessuali. Va, tuttavia, precisato che ad essa possano fare ricorso anche le coppie eterosessuali, non legate da vincolo matrimoniale. Ad onore del vero tale istituto è stato applicato, ancor prima delle coppie gay, per le adozioni richieste da coppie conviventi eterosessuali ([16]) avendo la giurisprudenza compreso che l’interesse del minore era connesso ad un sereno rapporto affettivo, seppur di fatto, e non alla natura giuridica dello stesso. La Corte di Cassazione con sentenza del 22 giugno 2016, n. 12962 ([17]) ha riconosciuto la possibilità di adozione per il coniuge – membro di una coppia omosessuale – della figlia dell’altro coniuge nata mediante le tecniche della fecondazione assistita con seme di un donatario anonimo. Pronuncia non del tutto rivoluzionaria, infatti, la Corte, anche alla luce di alcune pronunce di merito, supera il tradizionale orientamento giurisprudenziale secondo cui “…l’adozione in casi particolari ha come presupposto uno stato di abbandono del minore e l’impossibilità di un affidamento preadottivo” che implicava l’impossibilità di applicare tale previsione in casi, come quello in esame, in cui mancava l’abbandono. Nel caso di specie, ricorrendo al comma 20 dell’art. 1 della Legge n. 76/2016, recte alla c.d. clausola di salvezza, i giudici di legittimità affermano che siano applicabili le regole di adozioni in casi particolari ai sensi dell’art. 44 Legge n. 184/1983 ([18]).
Per adozione in casi particolari s’intendono ipotesi nelle quali il contesto in cui vive il minore non consente l’adozione “strictu sensu”, ovvero nei casi in cui non sia possibile dichiarare lo stato di abbandono del minore. Questa tipologia di adozione non elimina i rapporti con la famiglia d’origine, ma si fonda sul consenso tra le parti creando solo uno status personale tra adottante e adottato. Tale particolare tipo di adozione, mediante l’articolo 44 della legge n. 184/1989 e 149/01, è possibile quando ricorre una delle seguenti condizioni: a) quando il minore è sia orfano di padre che di madre ed esistono persone unite a lui da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo; b) quando il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge; c) quando il minore si trovi nelle condizioni previste dall’articolo 3 della legge 104/92; d) in presenza di disabilità; e) quando vi sia constatata l’impossibilità di affidamento preadottivo. In altre parole l’articolo 44 consente al coniuge di divenire legalmente genitore – del figlio dell’altro coniuge – attraverso l’adozione in assenza di un reale legame biologico con il minore. L’ipotesi prevista dalla lettera d) dell’art. 44 della legge sull’adozione secondo cui “quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo” ha suscitato qualche perplessità in ordine al suo reale contenuto, precisamente, cosa s’intende per impossibilità, quali fattispecie rientrano in quest’ambito applicativo? Secondo un’interpretazione restrittiva rientra tout court lo stato d’abbandono mentre secondo le più recenti pronunce ([19]) che attuano un’interpretazione estensiva della disposizione rientrerebbero tutti quei casi in cui l’adozione “ordinaria” non è applicabile; ma al contempo l’adozione straordinaria rappresenta l’unica soluzione plausibile, o meglio la miglior soluzione per il minore. L’orientamento giurisprudenziale di merito che propende per l’applicazione, in termini estensivi, dell’art. 44 si riferiva all’adozione per coppie eterosessuali.
Appare pacifico che l’istituto in esame è finalizzato, da un lato, a consolidare i legami familiari in una famiglia ricostituita, dall’altro, a tutelare nell’interesse del minore l’instaurazione di un rapporto giuridico analogo a quello genitoriale con un soggetto al quale non è legato biologicamente, ma che è determinato ad assumere nei suoi riguardi un ruolo genitoriale.
Di diverso profilo, invece, appare un’altra pronuncia di merito ([20]) secondo cui l’articolo 44, comma 1, lett. d) della Legge n. 184/1983 deve essere sottoposto ad un’interpretazione, più che estensiva, del tutto evolutiva, conforme alle più moderne vicende sociali. Esso, infatti, considera la clausola di salvezza, inserita nell’intervento normativo Cirinnà, nient’altro che frutto di un compromesso legislativo a seguito dello stralcio parziale dell’originario disegno di legge.
Sul punto la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ancor prima dei giudici nazionali di merito e di legittimità, è stata tra le prime a pronunciarsi in materia di adozioni per coppie omosessuali, tra le tante, va ricordata la sentenza della Grande Camera 19 febbraio 2013 X e altri c. Austria ([21]). In quell’occasione la Corte di Strasburgo, premesso che in diversi Paesi europei, tra cui l’Austria, non era consentito il matrimonio tra coppie omosessuali, secondo l’art 3, par. I della Convenzione dei diritti del fanciullo di New York in base al quale il criterio cardine da applicare è il miglior interesse del minore, ha considerato del tutto discriminatoria, per violazione dell’art 14 in combinato disposto con l’art. 8 della CEDU, la legge austriaca che non consente l’adozione in tali casi, di contro, concedendola esclusivamente alle coppie di fatto eterosessuali. Invero il principio del superiore interesse del minore trova il proprio fondamento normativo, prima nel diritto internazionale, ovvero all’art. 3 della Convenzione dei Diritti del fanciullo secondo cui “In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente”; e solo poi, nel diritto nazionale. Appariva, pertanto, innegabile che la legge austriaca fondasse la propria ratio legis su una palese discriminazione tra coppie di fatto eterosessuali ed omosessuali senza neppure motivare il differenziato trattamento. A chiare lettere la Corte EDU chiede la piena osservanza dell’interesse superiore del minore che non può avere alcuna deroga neppure a fronte di una coppia omosessuale. La verità è che se lo Stato austriaco, così come lo Stato italiano, non riconosce ex lege il diritto di adottare al coniuge della coppia omosessuale, non dà, a monte, la possibilità al giudice di valutare, in concreto, l’interesse effettivo del minore.
In conformità con l’evoluzione giurisprudenziale sovranazionale prima e nazionale poi la Corte di Cassazione con la summenzionata sentenza ha delineato i criteri applicativi in materia, tra cui la sussistenza di una situazione anomala del minore che renda impossibile trovare una coppia intenta ad adottare e, altresì, una situazione di legami affettivi già instaurati dal minore con persone che, però, non possono ricorrere all’adozione legittimante, nonché il c.d. best interest del minore che ha maturato un senso di appartenenza alla famiglia presso cui si trova. In altre parole l’articolo 44 ha reso possibile in Italia per le coppie omosessuali la c.d. stepchild adoption. La Suprema Corte, nello specifico, ha stabilito che “…non determina in astratto un conflitto di interessi tra il genitore biologico e il minore adottando, ma richiede che l’eventuale conflitto sia accertato in concreto dal giudice…ed ancora, prescinde da un preesistente stato di abbandono del minore e può essere ammessa sempreché, alla luce di una rigorosa indagine di fatto svolta dal giudice, realizzi effettivamente il preminente interesse del minore”. L’adozione, nella predetta ipotesi, è consentita, a prescindere da un preesistente stato di abbandono del minore, ogniqualvolta sia accertato che il rapporto genitoriale realizza effettivamente il preminente interesse del minore. Tale situazione deve essere oggetto di attenta valutazione in concreto da parte del giudice. Il superiore interesse del minore, quale parametro di riferimento, deve essere tenuto in preminente considerazione giacché trattasi di decisioni giudiziali concernenti il rapporto di filiazione pur se artificiale. Pare che abbia voluto favorire il consolidamento dei rapporti tra il minore ed i parenti o le persone che già si prendono cura di lui, prevedendo la possibilità di un’adozione, sia pure con effetti più limitati rispetto a quella “legittimante”, ma con presupposti necessariamente meno rigorosi di quest’ultima, al fine di realizzare gli interessi del minore. Le Sezioni Unite rinviano in ordine alla preminenza dell’interesse del minore, agli artt. 3 e 20 della Convenzione di New York (ratificata con legge n. 176/1991), che, si ripete, rappresenta il criterio guida cui deve uniformarsi ogni decisione relativa ai minori. In ragione della sua supremazia logico-giuridica, esso non può soggiacere ad alcuna subordinazione, neppure sul piano meramente astratto, rispetto agli altri interessi in gioco.
Non per ultimo va annoverato l’intervento della Corte Costituzionale che con sentenza N. 32/2021 ([22]) ha posto l’accento sull’inadeguatezza dell’istituto della stepchild adoption nel nostro ordinamento giuridico denunciando l’esigenza di un’impellente intervento legislativo. La Corte interviene, seppur in tema di fecondazione eterologa all’estero, nell’intento di fare un passo in avanti al fine di riconoscere, stavolta, una piena tutela dei diritti fondamentali delle coppie omosessuali e della loro prole. Ciò alla luce di un’interpretazione teleologica non contraria né ai principi costituzionali né tantomeno ai diritti fondamentali garantiti dalla CEDU.
Ad oggi, quindi, l’unico strumento che le coppie omosessuali hanno per ottenere il riconoscimento giuridico della genitorialità sociale a favore del figlio biologico del partner è l’art. 20, terzo comma legge Cirinnà. In conclusione, dunque, si ritiene che l’art. 44, co. I, lett. d) ([23]) consenta la stepchild adoption purché, di fatto, l’adozione risponda al preminente interesse della minore.
L’istituto di specie è oramai da diversi anni al centro di un vigoroso dibattito giurisprudenziale e dottrinale, che ruota attorno alla c.d. genitorialità sociale, intesa come forma di genitorialità disgiunta da quella biologica.
Nell’ambito del macro-argomento della stepchild adoption si collocano una pluralità di questioni relative alla trascrizione nell’atto di nascita della doppia maternità o paternità e alla maternità surrogata. Questioni diverse tra loro che, però, sono connesse nella finalità di assicurare un adeguato sistema di tutela. Un esempio, fra i tanti, è il caso della maternità surrogata ove una delle due donne chiede di ottenere un riconoscimento giuridico del legame con la figlia della propria compagna[24] chiedendo al Tribunale per i minorenni la pronunzia dichiarativa dell’adozione ai sensi dell’art. 44, lett. d) l. ad. Il Tribunale accoglie la domanda dichiarando la minore figlia adottiva della compagna della madre e riconoscendo il vincolo di parentela di secondo grado tra l’adottata e i figli dell’adottante ([25]).
Premesso che per vincolo di parentela, di regola, s’intende il legame che si stabilisce tra persone che discendono da uno stesso stipite. Con l’andar del tempo, per ragioni di non discriminazione, si è ritenuto pacifico che il legame di parentela dovesse essere riconosciuto sia nei confronti dei figli legittimi che dei figli nati al di fuori del matrimonio.
Solo successivamente, con la modifica dell’articolo 74 del codice civile alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata, ai sensi degli articoli 2, 3 e 30 Cost., si è ritenuto valido quanto innanzi detto anche in caso di filiazione adottiva consentendo finalmente la piena e concreta attuazione del principio di eguaglianza tra i figli.
A contrario il summenzionato vincolo di parentela non sorge nei casi di adozione di persone maggiori d’età. Invero l’art. 300, comma 2 c.c. sancisce in tema di adozione del maggiore di età che «…non induce alcun rapporto civile tra l’adottante e la famiglia dell’adottato né tra l’adottato e i parenti dell’adottante, salve le eccezioni stabilite dalla legge».
Ci si è chiesti se l’esclusione del vincolo di parentela nei casi di adozione di persone maggiori di età includa, oppure no, anche i casi particolari di adozione prevista dall’art. 44, l. ad.
Secondo un primo orientamento si è ritenuto che l’esclusione del vincolo di parentela sia estesa anche ai casi di adozione in “casi particolari” ex art. 44 l. ad., stante le analogie normative tra le tipologie di adozione in esame. Una soluzione diversa creerebbe un potenziale contrasto con quanto previsto dalla l. n. 184/1983 e dalle norme del codice civile.
Altra dottrina, invece, quale tesi maggioritaria, prendendo le mosse dall’interpretazione letterale dell’articolo 74 c.c. nega in toto che tale esclusione possa applicarsi anche agli adottati in “casi particolari” giacché qualora il legislatore avesse voluto dire ciò l’avrebbe optato per un divieto esplicito. Per tali ragioni si ritiene del tutto giustificabile la scelta legislativa di prevedere una diversa normativa in tema di adozioni del minore e del maggiore d’età.
Pronuncia di merito interessante ([26]), seppur non immune da errori, pone l’attenzione sull’adozione “in casi particolari” nello specifico caso dell’adozione di minori «quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo». Con riferimento all’impossibilità di affidamento preadottivo si è superata radicalmente la tradizionale interpretazione restrittiva, in base alla quale si doveva intendere un completo stato di abbandono, ovverosia, assenza di qualsivoglia proposta adottiva, per giungere ad un’interpretazione più estensiva, comprensiva di tutte le innumerevoli ipotesi in cui si rende opportuno procedere all’adozione per una migliore tutela dell’interesse del minore.
Invero il Tribunale dei minorenni di Bologna ritiene che per ragioni di armonia legislativa l’ordinamento giuridico sia ricorso tacitamente all’abrogazione dell’art. 55 l. ad. nella parte in cui esclude la sussistenza di rapporti di parentela tra adottato e genitori dell’adottante. Una corretta interpretazione teleologica, in conformità con il principio di eguaglianza dei figli, non può far altro che ammettere l’eliminazione della norma in esame al fine di evitare un irragionevole disparità tra adottati con adozione piena e adottati con adozione in casi particolari.
Nonostante la creatività del giudice di merito non possono non mostrarsi le criticità nascoste, tra le altre, il tentativo imprudente di risolvere il contrasto tra la Legge n. 219/2012 e la Legge sull’adozione mediante l’abrogazione tacita ex art. 15 disp. prel. c.c. Il fenomeno dell’abrogazione tacita per incompatibilità normativa non appare valevole nel caso di specie, infatti, si finirebbe con l’attribuire al novellato art. 74 c.c. una portata che va ben oltre le intenzioni del legislatore. Invero dalla comparazione delle due norme, non si evince alcuna incompatibilità legislativa tale da giustificare un’abrogazione, ma piuttosto, un rapporto di regola generale (art. 74 c.c.) ed eccezione (art. 55 l. ad.), pertanto, il tentativo del giudice bolognese appare non meritevole di accoglimento. L’intento del legislatore è equiparare lo status giuridico di tutti i figli riconoscendo e valorizzando i rapporti di parentela con ascendenti e collaterali, come nel caso dei figli nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio, e per una parte di quelli adottivi. Di contro nei casi di adozione del maggiore d’età il legislatore non mira a riconoscere il vincolo con i parenti dell’adottante, ma, piuttosto, preferisce preservare i rapporti con il nucleo familiare di origine dell’adottato.
Alla luce di quanto innanzi detto permane la questione circa la compatibilità dell’art. 55 l. ad., che esclude l’instaurazione del vincolo di parentela tra adottato e parenti dell’adottante, nell’ipotesi di adozione “in casi particolari”, con il nostro ordinamento giuridico.
Appare ragionevole, al fine di dare una soluzione definitiva, sollevare la questione di costituzionalità della norma. Invero, ci si chiede se la ratio legis del divieto posto dall’art. 55 l. ad., ovverosia, preservare il nucleo familiare d’origine dell’adottato, sia applicabile, o meno, all’adozione del minore in caso di “step-child adoption”, poiché in quest’ultima ipotesi non vi è un nucleo familiare da tutelare, se non quello costituito dal genitore biologico e l’adottante. Per quanto rappresenti un’ipotesi eccezionale la giurisprudenza rinviando a tale rimedio ha consentito una “stepchild adoption” anche in assenza di una normativa ad hoc. La parola passi al legislatore per capire questo vacuum normativo.
[1] La patria potestà è la potestà attribuita al padre di proteggere, educare e istruire il figlio minorenne e curarne gli interessi, senza però l’utilizzo di metodi coercitivi improntanti alla violenza fisica.
[2] La subordinazione femminile alla potestà del marito era appunto fissata dall’autorizzazione maritale che, in nome dell’unità della famiglia, vincolava alla volontà del coniuge la possibilità delle mogli di gestire il patrimonio familiare e gli stessi beni personali.
[3] Per approfondire cfr. ARCIDIACONO L. – CARULLO A. – RIZZA G., Diritto costituzionale, I edizione, Cedam, Padova, 2010. La famiglia è un dato sociologico, che la Costituzione non crea ma si limita a tutelare, ed una società complessa e articolata può presentare diversi modelli di famiglia, come quella eterosessuale o quella omosessuale.
[4] Il centro di imputazione dei diritti e doveri inderogabili di cui all’articolo 2 Cost. è sempre ed esclusivamente l’individuo, infatti, è all’“uomo” il destinatario del precetto.
[5] L’articolo 2 Cost. non solo prevede diritti e libertà ma predispone anche il rispetto dei doveri per il mantenimento della società. I doveri vengono intesi come una condizione necessaria per il mantenimento di una società solidale in termini economici, sociali, politici ecc… Non può che essere così in quanto diritti e doveri devono andare di pari
passo. Non è possibile vivere in una società di soli diritti e senza doveri in quanto ben presto si giungerebbe al caos, così come non è possibile viceversa una società di soli doveri e senza diritti in quanto l’assenza di diritti e/o libertà
preclude all’individuo di sviluppare la propria personalità.
[6] Cfr. RUSSO C. QUAINI P. M., La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo (Lezioni tenute da Carlo Russo raccolte, rielaborate ed integrate da Quaini Paolo Maria), Milano, 2000, pag. 3 e ss.
[7] DE SALVIA M., Ambiente e Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, in “Rivista internazionale dei diritti dell’uomo”, 2/1997, pag. 246 e ss.
[8] In ordine all’ambito di operatività delle fonti sovranazionali è stato più volte ribadito dalla stessa Corte di Giustizia, nelle pronunce in materia di competenza, che l’UE non può andare oltre la propria sfera di attuazione ed applicazione. Da ciò ne consegue che in concreto gli effetti giuridici di tali normative sono altamente compromessi nei settori ove sono attribuite ai singoli Stati membri poteri in tema di riserva di legge e, di contro, non è riconosciuta alcuna competenza esclusiva e/o concorrente all’ Unione europea.
[9] Causa C-673/16 – Il matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto in uno Stato UE va riconosciuto in tutti gli altri Stati membri al fine di garantire la libera circolazione e soggiorno del cittadino dell’Unione (2/2018) in Osservatorio sulle fonti, archivio n, 1/2018, sul sito www.osservatoriosullefonti.it. In particolare, il caso riguardava un cittadino dell’Unione che, dopo aver esercitato il proprio diritto di soggiorno in un altro Stato dell’Unione, aveva fatto ritorno nello Stato membro della propria cittadinanza, nel quale non è riconosciuto il matrimonio tra persone dello stesso sesso. In occasione del rientro i coniugi avevano richiesto informazioni presso le autorità rumene circa la procedura e le condizioni in base alle quali il coniuge (cittadino di uno Stato non UE), in qualità di familiare di un cittadino dell’Unione, il diritto di soggiornare legalmente in Romania, paese di origine dell’altro coniuge, per un periodo superiore a tre mesi. A fronte di tale richiesta, le autorità competenti avevano informato i coniugi che il sig. Hamilton “godeva soltanto di un diritto di soggiorno di tre mesi, giacché, trattandosi di persone dello stesso sesso, il matrimonio non è riconosciuto, conformemente al codice civile, e che, inoltre, non può essere concessa la proroga del diritto di soggiorno temporaneo del sig. Hamilton in Romania a titolo di ricongiungimento familiare” (par. 12). Attraverso le vie giurisdizionali interne, il caso giungeva dinanzi alla Corte costituzionale rumena per la presunta violazione delle disposizioni costituzionali relative al diritto alla vita privata e familiare nonché al principio di uguaglianza, la quale, stante la delicatezza della materia, decideva di sollevare alcune questioni in via pregiudiziale alla Corte di giustizia.
[10] La direttiva 2004/38 disciplina unicamente le condizioni di ingresso e di soggiorno di un cittadino dell’Unione negli Stati membri diversi da quello di cui egli ha la cittadinanza e non consente di fondare un diritto di soggiorno derivato a favore dei cittadini di un Paese terzo, familiari di un cittadino dell’Unione nello Stato membro di cui tale cittadino possiede la cittadinanza.
[11] Causa Francesca Orlandi e altri c. Italia – Prima sezione – sentenza 14 dicembre 2017 secondo la Corte di Strasburgo integra la violazione dell’art. 8 CEDU la mancata previsione di un qualsivoglia riconoscimento giuridico per le coppie dello stesso sesso. Nello specifico la Corte ha riscontrato la violazione dell’art. 8 limitatamente al periodo intercorrente tra il rifiuto di registrazione dei matrimoni contratti all’estero e l’introduzione delle unioni civili che garantiscono diritti simili a quelli nascenti dal matrimonio. I fatti di causa una coppia omosessuale sposatasi all’estero e poi trasferitasi in Italia, aveva chiesto il riconoscimento del loro matrimonio tramite trascrizione. I comuni di residenza della coppia ricorrente aveva rigettato le richieste di trascrizione ritenendo che l’ordine pubblico interno ostasse al recepimento degli effetti giuridici prodottisi all’estero in virtù dei matrimoni contratti sulla base delle legislazioni dei paesi di provenienza.
[12] La legge Cirinnà ha introdotto contestualmente le unioni civili tra due persone maggiorenni dello stesso sesso nonché la disciplina delle coppie di fatto. Due ipotesi totalmente diverse tra loro seppur con qualche analogia, ovvero, un vuoto normativo sui diritti ed obblighi delle coppie omosessuali da una parte ed i rapporti di coppia non legati da un vincolo matrimoniale.
[13] L’unione civile è costituita da due persone maggiorenni dello stesso sesso che devono fare una dichiarazione pubblica davanti ad un ufficiale di stato civile alla presenza di due testimoni. Detta dichiarazione viene registrata nell’archivio dello stato civile. La legge precisa, poi, che non possono contrarre unioni civili chi risulta già sposato o che ha contratto un’unione civile con qualcun altro; le persone interdette per infermità mentale; le persone che sono legate da un vincolo di parentela; persone che hanno manifestato il proprio consenso a seguito di violenza.
[14] Il Legislatore nazionale afferma chiaramente che non si tratta di una vera e propria sovrapposizione di diritti e doveri. Invero nel caso delle unioni civili, a differenza del matrimonio, non sussiste l’obbligo di fedeltà oppure l’obbligo di usare il cognome del coniuge come cognome comune e tanti altri ancora.
[15] Nel corso dell’esame parlamentare del D.D.L. dell’attuale Legge n. 76 del 2016 sulle unioni civili, il Senato ha stralciato dal provvedimento una disposizione volta a consentire, nell’ambito dell’unione civile, la c.d. stepchild adoption, ovvero l’adozione del figlio da parte del partner (unito civilmente o sposato) del genitore naturale.
[16] Giurisprudenza di merito, tra le altre, il Tribunale per i minorenni di Milano, sentenza n. 261 del 17/10/2016 “Le ipotesi in tema di adozione di cui all’art. 44, comma 1, L. 184/83 devono considerarsi tassative e, dunque, non suscettibili di applicazione estensiva o analogica. La fattispecie disciplinata dall’art. 44, comma 1, lett. d) deve riguardare i casi in cui sussista una effettiva situazione di abbandono del minore. Quindi, in presenza di un genitore idoneo, ai sensi della lett. b) del medesimo articolo, è possibile l’adozione solo qualora l’adottante sia legato al genitore del minore da un rapporto di coniugio.”
[17] La Corte di Cassazione con la sentenza n. 12962/16 conferma una sentenza della Corte di Appello di Roma – che era stata impugnata dal Procuratore Generale – con la quale è stata accolta la domanda di adozione di una minore proposta dalla partner della madre con questa stabilmente convivente. La Corte di Cassazione, con questa pronuncia, innanzitutto conferma che la prassi, inaugurata dal Tribunale per i Minorenni di Roma, seguita poi anche dai Tribunali di Napoli e Torino, da prassi diventa diritto vivente a tutti gli effetti, ovvero mediante il parametro della lettera d) dell’art. 44 della legge n. 184/1983 con una valutazione “caso per caso” della situazione di ogni minore e con l’accertamento del perseguimento del suo superiore interesse come benessere psicofisico di un soggetto in formazione, diventa possibile dichiararlo in adozione al partner anche del proprio genitore anche in coppie gay conviventi stabilmente.
[18] I minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di cui al comma 1 dell’articolo 7: a) da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, anche maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento, quando il minore sia orfano di padre e di madre; b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge; c) quando il minore si trovi nelle condizioni indicate dall’articolo 3, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e sia orfano di padre e di madre; d) quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo. L’adozione, nei casi indicati nel comma 1, è consentita anche in presenza di figli. Nei casi di cui alle lettere a), c), e d) del comma 1 l’adozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato. Se l’adottante è persona coniugata e non separata, l’adozione può essere tuttavia disposta solo a seguito di richiesta da parte di entrambi i coniugi. Nei casi di cui alle lettere a) e d) del comma 1 l’età dell’adottante deve superare di almeno diciotto anni quella di coloro che egli intende adottare.
[19] Così il Tribunale dei Minorenni di Milano, sentenza del 28 marzo 2007, n. 626, secondo cui: “Nel caso di specie la presenza della madre che da sempre si occupa della figlia esclude la configurabilità dello stato di abbandono e dunque la giuridica impossibilità di procedere ad un affidamento preadottivo consente di ritenere integrato uno dei casi particolari, quello di cui alla lettera D, che consente di far luogo alla adozione e che è clausola residuale. Va quindi valutato in concreto ciò che può comportare maggiore utilità per il minore (utilità intesa come preminente somma di vantaggi di ogni genere e specie e minor numero di inconvenienti nella prospettiva del pieno sviluppo della personalità del minore stesso e della realizzazione di validi rapporti interpersonali ed affettivi, tenuto conto delle particolarissime situazioni esistenziali che caratterizzano le persone coinvolte. Tale situazione di fatto appare meritevole di tutela nell’ambito delle ipotesi di adozione particolare nel rispetto dei principi della tutela del minore e del perseguimento del suo esclusivo interesse”. Analoga la sentenza della Corte d’Appello di Firenze N. 1274 del 2012 che nel riformare la sentenza del Tribunale per i Minorenni di Firenze 20 marzo 2012, ha sostenuto che l’adozione ai sensi dell’art. 44, co. 1, lett. b), che si riferisce all’ipotesi del coniuge, “non può finire col pregiudicare lo status del minore della famiglia di fatto, equiparato dalla legge a quello dei figli legittimi”. Secondo la Corte d’Appello l’art. 44, co. I, lettera d) non esclude questa possibilità quando ciò sia corrispondente all’interesse dell’adottando, dovendo il trattamento privilegiato accordato al matrimonio trovare un limite nei diritti inviolabili del minore, che non può subire effetti lesivi da una interpretazione restrittiva della norma.
[20] Una sentenza del Tribunale per i Minorenni di Bologna del 25 giugno 2020, per la prima volta, ha riconosciuto come fratelli i tre bambini nati da due donne, unite civilmente e madri biologiche una di una bambina di 9 anni e l’altra di due gemelli di 5 anni. I bambini sono stati adottati dall’altra mamma, con una stepchild adoption incrociata, attraverso l’adozione in casi particolari ex art. 44 lettera d) della legge 184/83. Un tipo di adozione però che non prevede l’instaurarsi di legami con gli altri figli del genitore adottivo né con i nonni. I tre bambini in questione invece per la prima volta avranno tutti lo stesso doppio cognome e saranno fratelli. Per il riconoscimento del legame di parentela rispetto agli ascendenti, invece «il Tribunale per i minorenni non può esprimersi nel merito, in quanto, risulta competente in via esclusiva il Tribunale ordinario». Al di là della sentenza specifica, nel cui merito Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale per i Minorenni di Bologna, non entra, il fatto che sia una “prima volta” porta a fare qualche riflessione più ampia e di cornice.
[21] Tale sentenza prende le mosse da due donne, unite da una stabile relazione omosessuale che lamentavano il rigetto della richiesta avanzata da una di loro di adottare il figlio dell’altra senza rottura del legame giuridico tra madre biologica e figlia (adozione c.d. co-genitoriale).
[22] Il monito arriva dalla sentenza n. 32/2021 con la quale è stata sancita l’inammissibilità delle questioni sollevate dal Tribunale di Padova. Secondo il collegio spetta al legislatore individuare il “ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana”, per fornire tutela ai diritti del minore “alla cura, all’educazione, all’istruzione, al mantenimento, alla successione e, più in generale, alla continuità e al conforto di abitudini condivise”, così evitando di originare discordanze nel sistema. La Consulta ha indicato, in via esemplificativa, gli ambiti entro cui potrebbe essere legiferato al fine di garantire adeguata tutela ai minori, come la riscrittura delle previsioni sullo status filiationis, ed una nuova varietà di adozione che garantisca tempestivamente la pienezza dei diritti dei nati.
[23] In particolare, all’art. 1, comma 20 l. 20.5.2016, n. 76 viene enunciata la regola generale per cui il termine «coniuge» deve essere equiparato all’ «unito civilmente». Tale regola non si applica alle disposizioni contenute nella legge sull’adozione. Ciò vuol dire che all’unito civilmente non può estendersi la disciplina contenuta all’art. 44, comma 1, lett. b) l. ad., che consente l’adozione del minore da parte del coniuge. E tuttavia, la clausola di salvaguardia contenuta nel medesimo articolo («Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti») sta a significare che è fatto salvo quanto consentito dalla giurisprudenza in tema di “step-child adoption”.
[24] Il caso in esame riguarda due donne che, dopo essersi conosciute ai tempi dell’Università, decidono di intraprendere una relazione sentimentale, poi sfociata in una stabile convivenza. Poiché intendono sperimentare la maternità, entrambe si rivolgono ad un centro di medicina riproduttiva in Belgio. Una delle due dà alla luce una bambina; a distanza di alcuni anni, anche l’altra mette al mondo due gemelli maschi. Entrambe si dedicano alla cura e alla crescita dei tre minori, instaurando con gli stessi un solido legame affettivo. La bimba, in particolare, chiama ciascuna di loro “mamma”, talvolta aggiungendo il nome di ciascuna per distinguerle.
[25] La norma di riferimento è costituita dall’art. 74 c.c. che, nella sua formulazione attuale, introdotta a seguito delle modifiche operata dall’art. 1 l. 10.12.2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), così recita: «La parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo. Il vincolo di parentela non sorge nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli articoli 291 e seguenti».
[26] Per approfondire Tribunale dei minorenni di Bologna, sentenza N. 70/2021 sul sito http://www.articolo29.it/2020/bologna-svolta-storica-verso-gli-effetti-pieni-delladozione-casi-particolari/
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