Strasburgo boccia la disciplina italiana delle misure di prevenzione basate sulla pericolosità generica del proposto

Strasburgo boccia la disciplina italiana delle misure di prevenzione basate sulla pericolosità generica del proposto

Con sent. 23 febbraio 2017, de Tommaso c. Italia, la Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’uomo– a larga maggioranza – ha affermato l’incompatibilità con la libertà di circolazione, riconosciuta dall’art. 2 Prot. 4 CEDU, della disciplina delle misure di prevenzione personali fondate sulle fattispecie di pericolosità ‘generica di cui alla L. n. 1423/1956, oggi trasfuse nell’art. 1 della D.lgs. n. 159/2011 (il c.d. codice antimafia).

L’art. 2 Prot. 4 CEDU tutela la liberta di circolazione con una protezione condizionata dalla presenza di tre requisiti: a) previsione per legge; b) necessità di assicurare la tutela degli interessi elencati nello stesso art. 2 al § 3 (sicurezza nazionale, pubblica sicurezza, ordine pubblico, prevenzione dei reati, protezione della salute e della morale o dei diritti e libertà altrui); c) proporzione tra il rispetto del diritto garantito dalla norma e le esigenze della collettività.

Secondo consolidata giurisprudenza della Corte, il requisito della previsione per legge – cui è subordinata la liceità di ogni ipotesi di restrizione di un diritto convenzionale – comporta non soltanto la necessità di individuare, nell’ordinamento nazionale, una specifica base legale della restrizione, ma anche la necessità che tale base legale sia accessibile per l’interessato, e sia soprattutto tale da consentirgli di ragionevolmente prevedere la restrizione del diritto convenzionale in conseguenza delle propria condotta.

Non essendovi dubbio che la base legale della misura in questione sia rappresentata dalla legge n. 1423/1956 (oggi trasfusa nel D.lgs. 159/2011), né che tale base legale sia agevolmente accessibile per il cittadino, la Corte è passata quindi ad analizzare lo standard di prevedibilità richiesto ai fini del rispetto del principio di tassatività.  E, ad ampia maggioranza, ha concluso nel senso dell’insufficiente prevedibilità delle conseguenze della propria condotta per il soggetto colpito dalla misura di prevenzione personale in parola, e dunque nel senso dell’inadeguatezza agli standard convenzionali della legislazione italiana in materia.

Nonostante il fatto che la Corte Costituzionale sia ripetutamente intervenuta in materia per chiarire i criteri per stabilire se le misure di prevenzione siano necessarie, l’imposizione di tali misure – osservano i Giudici di Strasburgo – rimane legata a un giudizio prognostico da parte delle Corti nazionali, dato che né la legge né la Corte Costituzionale – continua la Corte – “hanno chiaramente identificato gli ‘elementi fattuali’ né le specifiche tipologie di condotta che devono essere prese in considerazione per valutare la pericolosità sociale dall’individuo”, che costituisce il presupposto per l’applicazione della misura di prevenzione in parola; “la Corte, pertanto, ritiene che la legge in questione non contenga previsioni sufficientemente dettagliate su che tipo di condotta sia da considerare espressiva di pericolosità sociale”.

In particolare, nel caso sottoposto alla sua attenzione, la Corte ha ritenuto che la violazione fosse legata al fatto che la misura di prevenzione era stata imposta per l’esistenza di “tendenze criminali attive”, senza attribuire specifici comportamenti o attività criminali, ma solo per il fatto che il soggetto, pregiudicato, non avesse “fissa e legale occupazione” e che la sua vita fosse caratterizzata da regolari rapporti con rappresentanti di spicco della malavita locale. La Corte europea si concentra, comunque, sulla ritenuta presunzione di “tendenze criminali”, ritenendolo un criterio corrispondente a quello dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 177/1980, circa la categoria dei “proclivi a delinquere”.

Le disposizioni che costituiscono la base legale della misura di prevenzione imposta al ricorrente sono state, peraltro, censurate anche sotto il diverso profilo della  vaghezza e imprecisione relativa al contenuto delle prescrizioni che devono, o possono, essere imposte all’interessato. Prescrizioni che appaiono alla Corte EDU formulate in termini “estremamente vaghi e indeterminati”. Quel che la Corte Costituzionale aveva nella sentenza n. 232/2010 definito come il “dovere, imposto al prevenuto, di rispettare tutte le norme a contenuto precettivo, che impongano cioè di tenere o non tenere una certa condotta; non soltanto le norme penali, dunque, ma qualsiasi disposizione la cui inosservanza sia ulteriore indice della già accertata pericolosità sociale” si risolve in realtà – ad avviso dei Giudici di Strasburgo -, in un “illimitato richiamo all’intero ordinamento giuridico italiano, e non fornisce alcuna chiarificazione sulle norme specifiche la cui inosservanza dovrebbe essere considerata quale ulteriore indicazione del pericolo per la società rappresentato dall’interessato”.

Inevitabile la conclusione: tanto la disciplina delle c.d. fattispecie di pericolosità ‘generica’ di cui (oggi) all’art. 1 lett. a) b) del codice antimafia, quanto la disciplina delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale, sono statie ritenute incompatibili con gli standard di qualità della legge richiesti per giustificare qualsiasi limitazione di un diritto convenzionale.

Non essendo la misura stata applicata “conformemente alla legge” (rectius, ad una legge nazionale in linea con i requisiti di qualità richiesti dalla giurisprudenza di Strasburgo), la maggioranza della Corte si è astenuta dall’esaminare l’ulteriore questione se la misura potesse ritenersi “necessaria in una società democratica” per il perseguimento di una delle legittime finalità menzionate dall’art. 2 Prot. 4 Cedu, ed ha concluso senz’altro nel senso della violazione della disposizione convenzionale in parola.

La posizione assunta dalla Grande Camera nella sentenza annotata, rappresenta un importante arresto con cui non possiamo esimerci dal confrontarci, non essendo qui praticabile la via di fuga rappresentata dall’eventuale negazione del carattere di “giurisprudenza consolidata” dei principi di diritto espressi da questa pronuncia. La stessa Corte costituzionale  con sent. n. 49/2015, ha recentemente ribadito espressamente tale carattere alle sentenze della Grande Camera.

Nonostante la sentenza qui annotata abbia avuto a specifico oggetto le misure di prevenzione personali, è possibile prevedere che anche le misure di prevenzione patrimoniali, fondate sulle fattispecie di pericolosità ‘generica, siano destinate a cadere sotto la medesima censura che ha colpito le parallele misure personali. Vero è che le misure patrimoniali incidono – per definizione – su un diverso diritto convenzionale: il diritto di proprietà, riconosciuto dall’art. 1 prot. add. CEDU. Ma anche le limitazioni al diritto di proprietà sono legittime in quanto “previste dalla legge”; e anche rispetto all’art. 1 prot. add. Cedu la consolidata giurisprudenza di Strasburgo richiede che la base legale risponda ai medesimi requisiti di qualità che valgono per la limitazione di qualsiasi diritto convenzionale. Di talché pare potersi ragionevolmente sostenere che la Corte possa giudicare in futuro incompatibili con gli standard convenzionali anche le misure di prevenzione patrimoniali emesse nei confronti dei soggetti di cui all’art. 1 lett. a) b), per il tramite di cui all’art. 4 lett. c), del codice antimafia.

E’ altresì auspicabile che tale arresto darà origine ad una valanga di ricorsi a Strasburgo contro lo Stato italiano, provenienti da tutti coloro che siano stati sottoposti a una misura di prevenzione sulla base di un apprezzamento della loro pericolosità ‘generica’, ai sensi dell’art. 1 lett. a) b) del codice antimafia o della norma corrispondente nella legislazione previgente. E tali ricorsi saranno presumibilmente accolti, ai sensi dell’art. 28 CEDU, in modo seriale da comitati di tre Giudici della Corte, che si limiteranno a prendere atto della sentenza della Grande  Camera e a riconoscere, conseguentemente, la violazione dell’art. 2 Prot. 4 CEDU. Ciò – quanto meno – sino a quando lo Stato italiano non si doterà di uno strumento per riconoscere  un diritto ad un indennizzo pecuniario nei confronti di tutti costoro, in grado di operare come rimedio interno idoneo ad assicurar loro ristoro a livello domestico, precludendone così l’accesso alla Corte europea.

Per quanto concerne, invece, la sorte dei provvedimenti ancora in corso di esecuzione, nonché quella dei procedimenti già avviati, ancorché convenzionalmente illegittime, le misure di prevenzione in essere continuano ad essere legittimate – dal punto di vista dell’ordinamento italiano – da una legge che resta valida e in vigore, almeno sino alla sua eliminazione da parte della Corte costituzionale. Parimenti, i procedimenti già avviati continueranno a fondarsi su presupposti normativi ancora validi e in vigore, che – in presenza dei relativi presupposti – legittimerebbero, dal punto di vista interno, l’adozione della misura.

Non pare però, che l’antinomia tra diritto convenzionale e diritto interno possa essere risolta tramite l’interpretazione conforme del secondo, ovvero la diretta applicazione del diritto convenzionale, posto che l’esecuzione degli obblighi discendenti dalla CEDU e dai suoi protocolli incontra qui un ostacolo invalicabile per il Giudice comune, rappresentato da un dato normativo che consente proprio ciò che Strasburgo vieta.

In queste condizioni, l’unica soluzione plausibile a disposizione del Giudice comune per risolvere detta antinomia – e per non continuare a produrre provvedimenti che saranno fatalmente censurati da Strasburgo, con conseguente esposizione dello Stato italiano alle relative responsabilità internazionali – parrebbe allora quella di sollecitare l’intervento della Corte costituzionale, alla quale dovrebbe essere sottoposta una duplice questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 lett. a) b) e 8 co. 3 ss. del codice antimafia, per contrasto con l’art. 117 co. 1 Cost. in riferimento all’art. 2 Prot. 4 Cedu. Spetterà poi alla Corte costituzionale valutare se accogliere la questione, uniformandosi ai principi espressi dalla Corte di Strasburgo, ovvero se tentare la strada – verosimilmente assai impervia – di un confronto dialogico con questa giurisprudenza, insistendo sulle buone ragioni dell’ordinamento italiano in materia di prevenzione personale, anche rispetto alle fattispecie di pericolosità ‘generica’.

Fonte:

  • Francesco ViganòLA CORTE DI STRASBURGO ASSESTA UN DURO COLPO ALLA DISCIPLINA ITALIANA DELLE MISURE DI PREVENZIONE PERSONALI,  http://www.penalecontemporaneo.it/d/5264-la-corte-di-strasburgo-assesta-un-duro-colpo-alla-disciplina-italiana-delle-misure-di-prevenzione-p.

Foto credit: Adrian GrycukOwn work.


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Valeria Citraro

Laureata nel Gennaio 2014 p/o Università degli Studi di Catania con Tesi in diritto processuale penale, dal titolo "La chiamata in correità. Struttura e valutazione probatoria". Abilitata all'esercizio della Professione forense da Settembre 2016.

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