Successione di leggi penali nel tempo e reati connessi alla circolazione stradale

Successione di leggi penali nel tempo e reati connessi alla circolazione stradale

Considerazioni alla luce degli ultimi approdi della giurisprudenza di legittimità e costituzionale

di Andrea Marchesi[1]

 

Per mettere adeguatamente «a fuoco» la tematica oggetto del presente contributo, è opportuno innanzitutto premettere che il Codice Penale non contempla una definizione esplicita del concetto di «consumazione», la quale è desumibile «a contrario» dalla disciplina del tentativo contenuta all’art. 56 Cod. Pen..

Come noto, infatti, il delitto assume la forma «tentata» ogniqualvolta l’agente ponga in essere “atti idonei [e] diretti in modo non equivoco” ad arrecare offesa al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.

Per idoneità si intende l’effettiva capacità dell’atto a porre quantomeno in pericolo il bene giuridico tutelato. Con il termine univocità ci si riferisce, invece, alla finalizzazione della condotta, la quale deve risultare inequivocabilmente orientata ad offendere il bene giuridico che la norma mira a salvaguardare.

Di per sé, quindi, una condotta finalisticamente volta ad arrecare offesa al bene giuridico protetto non è sufficiente per ritenere raggiunta la fase di consumazione del reato, essendo altresì necessaria la effettiva lesione del bene giuridico, quantomeno nella forma della sua messa in pericolo.

Tale indefettibile corollario viene posto in rilievo dai commi III e IV dell’art. 56 Cod. Pen., volti a disciplinare, rispettivamente, gli istituti della desistenza volontaria e del recesso attivo.

Mentre nel primo caso, l’agente, prima che l’azione si concretizzi, desiste dal compimento di essa, rispondendo quindi per i soli atti mediotempore compiuti, ove penalmente rilevanti; nella seconda ipotesi l’agente interviene, quando ormai l’azione si è innescata, al fine di impedire la verificazione dell’evento, beneficiando perciò di un consistente sconto di pena (i.e. da un terzo alla metà).

Ben si comprende, quindi, che il discrimine tra tentativo e consumazione del reato si concentra nella verificazione dell’evento inteso quale offesa (o quantomeno messa in pericolo) del bene giuridico protetto.

In altre parole, il reato giunge a consumazione quando la condotta dell’agente ha integrato tutti gli estremi previsti dalla norma incriminatrice (sia sul piano oggettivo, sia sotto il profilo soggettivo) e si è altresì verificato l’evento, ossia l’offesa o la messa in pericolo del bene che la norma mira a tutelare.

Delineata in questi termini la consumazione, ossia quale combinazione di condotta penalmente rilevante e realizzazione dell’offesa, è evidente che il tema della successione di leggi penali nel tempo assume un’importanza decisiva, specie allorquando la modifica legislativa intervenga nello iato temporale tra l’integrazione della condotta e la realizzazione dell’evento lesivo.

Al riguardo, va evidenziato che il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo è normativamente disciplinato dall’art. 2, commi I, II e IV, Cod. Pen., disposizione che trova piena copertura costituzionale nell’art. 25, comma II, Cost..

L’art. 2 Cod. Pen., infatti, costituisce in primo luogo estrinsecazione del principio di legalità in materia penale, a mente del quale compete esclusivamente al Legislatore l’individuazione delle fattispecie aventi rilevanza penale e la predeterminazione del correlato trattamento sanzionatorio.

Corollario di tale principio è la garanzia della certezza della pena, la quale soltanto se conoscibile e percepibile a priori da parte dell’agente può assolvere alla funzione di prevenzione e di rieducazione a cui essa aspira.

Riletto in quest’ottica, appare del tutto coerente con i principi testé enunciati il disposto dell’art. 2, comma I, Cod. Pen., a mente del quale non può essere punita la condotta posta in essere dall’agente in assenza di un’esplicita norma repressiva, la quale sia invece intervenuta allorquando la condotta si è ormai esaurita avendo prodotto i propri effetti.

La giustificazione del divieto di retroattività «in malam partem» si coglie alla luce del rilievo per cui non si può pretendere che i consociati conformino il proprio comportamento ad un precetto intervenuto in un’epoca successiva rispetto al momento storico in cui l’atto è stato compiuto.

Detto in altri termini, non è consentito punire l’agente per avere osservato una condotta che, nel momento in cui è stata realizzata, era lecita e consentita. Ciò in quanto, diversamente opinando, si arrecherebbe un evidente «vulnus» alla stessa funzione (di rieducazione e di reinserimento sociale) assolta dalla pena nell’ambito del panorama costituzionale[2].

Diverso, ancorché strettamente correlato, è il principio di retroattività «in bonam partem» sancito dal II comma del già menzionato art. 2 Cod. Pen.. Qualora, infatti, a fronte di un mutamento del sentire sociale, intervenga una norma abrogatrice di una fattispecie penalmente rilevante, gli effetti di tale abrogazione non potranno che retroagire con un’efficacia capace addirittura di travolgere la «res iudicata», in quanto espressione del principio di uguaglianza e parità di trattamento sancito dall’art. 3 Cost..

Più complessa è, invece, l’ipotesi prevista e disciplinata dall’art. 2, comma IV, Cod. Pen., la quale, a differenza di quanto sancito dai commi precedenti, non contempla e disciplina gli effetti derivanti dall’introduzione di una nuova incriminazione (comma I) o dall’abolizione di un’incriminazione preesistente (comma II), quanto piuttosto l’introduzione legislativa di un trattamento sanzionatorio migliorativo o peggiorativo in rapporto ad una fattispecie che, tuttavia, era e rimane penalmente rilevante.

Al riguardo, la giurisprudenza[3] non ha mancato di valorizzare il dato testuale osservando come, mentre ai commi I e II il Legislatore parla di «fatto», intendendo con ciò una condotta non prevista o non più prevista come penalmente rilevante, al comma IV fa scientemente ricorso al termine «reato», con ciò riferendosi al fatto penalmente connotato, rispetto al quale è intervenuta una mera modificazione del trattamento sanzionatorio.

Anche in tal caso la regola da applicare è comunque sempre la medesima: irretroattività delle modifiche «in malam partem» e retroattività dei correttivi «in bonam partem», fatto naturalmente salvo, in questo caso, il limite del giudicato permanendo inalterato il disvalore della condotta sul piano legislativo.

La disposizione in commento, come detto, ruota attorno al concetto di «commissione» del reato, momento che costituisce il punto di riferimento per l’individuazione della disciplina applicabile in rapporto allo «ius superveniens».

Ora, se tale questione non pone particolari problematiche in rapporto ai reati cosiddetti istantanei, in cui cioè non intercorre un apprezzabile lasso di tempo tra la condotta e l’evento, ben diverso è il discorso per quanto riguarda i reati di durata, in relazione ai quali la condotta si protrae anche per un intervallo di tempo considerevole perpetrando l’evento.

È evidente che, in tal caso, un’eventuale modificazione legislativa che dovesse mediotempore intervenire potrebbe determinare rilevanti problematiche applicative in considerazione dei principi sanciti dagli artt. 2 Cod. Pen. e 25 Cost. per come poc’anzi illustrati.

Nell’ambito dei reati di durata si è soliti distinguere i reati cosiddetti «permanenti» (p.e. il sequestro di persona – art. 605 Cod. Pen.) dai reati definiti come «abituali» (p.e. atti persecutori – art. 612 bis Cod. Pen.).

Ebbene, la caratteristica dei reati permanenti è insita nel fatto che il perfezionamento del reato è subitaneo, mentre l’offesa al bene giuridico protetto si protrae nel tempo.

Esempio paradigmatico di ciò è, appunto, il reato di sequestro di persona (art. 605 Cod. Pen.) in cui il fatto illecito si perfeziona al momento stesso della privazione della libertà personale della vittima, mentre l’offesa permane per tutta la durata del sequestro.

Con riferimento a tale fattispecie, la giurisprudenza ha chiarito che un eventuale inasprimento del trattamento sanzionatorio che dovesse intervenire mentre il sequestro di persona è ancora in corso, non incontrerebbe il limite del divieto di retroattività «in malam partem» essendo il reato, sebbene già perfetto, ancora in fase di consumazione.

Più delicata è la casistica dei reati abituali in cui è proprio la reiterazione della condotta, che di per sé potrebbe anche non essere necessariamente illecita sotto il profilo penalistico, ad integrare l’offesa al bene giuridico protetto.

Un chiaro esempio di ciò ci viene offerto dal reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 Cod. Pen.) o dalla recente figura del reato di atti persecutori o stalking (art. 612 bis Cod. Pen.), entrambe fattispecie sintomatiche di una forma di offesa al bene giuridico che si estrinseca nella reiterazione (i.e. almeno due episodi) di una condotta tipica e/o atipica.

In tal caso, concretandosi l’evento in un’offesa che presuppone la reiterazione, l’agente si pone in una situazione di perdurante illiceità che lo espone perciò solo agli effetti di un’eventuale modifica legislativa «in peius» essendo il reato in continua fase di consumazione.

Un discorso a sé meritano, infine, i cosiddetti reati ad evento differito, i quali rappresentano il vero «banco di prova» dei principi pocanzi enucleati.

I reati ad evento differito sono una figura non tipizzata all’interno del nostro panorama normativo, tali essendo tutti i reati in cui, per una qualsivoglia ragione, l’evento segue alla condotta a distanza di un apprezzabile intervallo di tempo.

In tali ipotesi, la condotta risulta essersi concretata e perfezionata in un preciso momento storico, mentre gli effetti che da tale condotta derivano possono essere destinati a prodursi solo a distanza di tempo, parentesi all’interno della quale l’agente potrebbe dunque trovarsi, suo malgrado, esposto a modificazioni normative deteriori.

La giurisprudenza ha avuto recentemente modo di approcciare il tema in relazione all’introduzione dei «nuovi» reati di omicidio stradale (art. 589 bis Cod. Pen.) e di lesioni personali stradali gravi o gravissime (art. 590 bis Cod. Pen.), analizzando in particolar modo le ipotesi in cui la condotta si sia interamente realizzata nel vigore della precedente normativa, mentre l’evento si sia verificato sotto la vigenza della riforma.

Facendo governo dei principi di legalità, conoscibilità e predeterminazione che devono presiedere alla individuazione dell’illecito e del correlativo trattamento sanzionatorio, la Suprema Corte (sentenza 40986/2018) ha valorizzato, anche con riferimento ai reati d’evento, il momento della condotta quale criterio di individuazione del «tempus commissi declicti» e, quindi, della legge applicabile, privando al contempo di rilevanza il momento di verificazione dell’evento la cui postergazione nel tempo è, in genere, del tutto avulsa ed indipendente dalla volontà dell’agente.

Naturalmente costituisce precipuo onere dell’interprete confrontare la legge previgente e la legge sopravvenuta onde verificare quale sia, in concreto, il trattamento sanzionatorio deteriore, nonché quello di individuare con univocità e precisione il momento della condotta assumendo quest’ultimo efficacia dirimente anche ai fini del computo della prescrizione (cfr. caso Eternit[4]).

Sul punto si impongono, quindi, alcune considerazioni conclusive in ordine all’effettiva portata della riforma introdotta dalla L. 41/2016 in tema di reati connessi alla circolazione stradale, intervento normativo che sollecita un confronto tra il testo della novella e la disciplina previgente al fine individuare quale sia la legge applicabile al caso concreto.

I primi commentatori[5] hanno evidenziato il carattere maggiormente repressivo della disciplina riformata rispetto alla normativa previgente, confermando quindi l’applicabilità di quest’ultima ogniqualvolta la condotta penalmente rilevante si sia concretata ed esaurita in epoca anteriore rispetto all’entrata in vigore della L. 41/2016.

Ebbene, tale conclusione, a parere di chi scrive, non può essere data per scontata.

Un puntuale raffronto tra gli artt. 589, comma 2, 590, comma 3, Cod. Pen. (nel testo pre-riformato) e i nuovi artt. 589 bis e 590 bis Cod. Pen., conduce a conclusioni senz’altro meno univoche.

In primo luogo, se è vero che l’originaria aggravante prevista dal secondo comma dell’art. 589 Cod. Pen. era pacificamente assoggettabile al giudizio di bilanciamento delle circostanze, cosa che invece non è consentita rispetto alla figura autonoma di reato prevista dal nuovo art. 589 bis Cod. Pen., che pure non ha inasprito il correlativo trattamento sanzionatorio (salvo che per i casi di guida in stato di alterazione psicofisica da alcool o da sostanze stupefacenti o psicotrope), è altresì vero che il comma 7 della medesima disposizione prevede oggi una nuova attenuante (obbligatoria) ad effetto speciale, costituita dal concorso colposo della vittima, che importa un significativo sconto di pena (fino alla metà).

Analogamente, con riferimento al reato di lesioni personali stradali, mentre il terzo comma dell’art. 590 Cod. Pen., prevede(va) in caso di lesioni personali gravi la reclusione da 3 mesi a 1 anno alternativamente alla multa da € 500,00, ad € 2.000,00, oggi il riferimento alla pena pecuniaria non è più contemplato dal nuovo art. 590 bis Cod. Pen. che, quanto alle lesioni gravissime, ha invece mantenuto inalterato il previgente trattamento sanzionatorio (da 1 a 3 anni di reclusione), fatta salva la diminuente obbligatoria ad effetto speciale introdotta dal comma 7 per il caso di concorso colposo della vittima.

Indubbiamente più severo è, invece, il trattamento sanzionatorio in caso di lesioni personali gravi (reclusione da 3 a 5 anni, in luogo della previgente disposizione che prevedeva la reclusione da 6 mesi a 2 anni) o gravissime (reclusione da 4 a 7 anni, anziché da 1 anno e 6 mesi a 4 anni), nonché la pena per guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico ricompreso tra 0,8 e 1,5 g/l, aspetti che, tuttavia, non devono indurci a trarre conclusioni affrettate, in quanto l’inserimento del nuovo reato di cui all’art. 590 bis Cod. Pen. tra quelli soggetti al regime processuale della citazione diretta a giudizio (cfr. art. 550, comma 2, lett. e bis, Cod. Proc. Pen.), rende comunque percorribile anche in relazione a tale reato, ancorché nella forma aggravata, la sospensione del procedimento con messa alla prova giusta il richiamo espresso contenuto nell’art. 168 bis Cod. Pen., il che si traduce in una significativa agevolazione per l’imputato incensurato.

In questo contesto si è ora innestato anche il recentissimo intervento della Corte Costituzionale, che all’udienza del 20.02.2019, nel ritenere irragionevole e sproporzionata la sanzione accessoria della revoca della patente di guida per un quinquennio prevista dal novellato art. 222 C.d.S. (salvo che per i casi di guida in stato di alterazione psicofisica da alcol o da sostanze psicotrope), ha valutato compatibile con il dettato costituzionale l’obbligatorietà dell’attenuante ad effetto speciale della «responsabilità non esclusiva dell’imputato», rendendo vieppiù arduo per l’interprete decodificare quale sia il trattamento sanzionatorio in concreto meno afflittivo per l’imputato così da applicare correttamente i principi di cui agli artt. 2 Cod. Pen. e 25 Cost..

Trattasi evidentemente di un problema di diritto intertemporale, in quanto tale destinato a risolversi con il passare degli anni, che, tuttavia, ben manifesta le criticità di un intervento di riforma che, pur sorretto da comprensibili e condivisibili esigenze repressive di fenomeni di grave allarme sociale, manifesta profili di incongruenza tali da mettere in dubbio la complessiva tenuta del sistema, delegando agli operatori del diritto un arduo compito di sintesi e valorizzazione del dato normativo.


[1] Avvocato del Foro di Bergamo
[2] Cfr. Corte Cost., 21.06.2018, n. 149.
[3] Cfr., da ultimo, Cass. Pen., SS.UU., 24.09.2018, n. 40986.
[4] Cfr. Cass. Pen., Sez. I, 19.11.2014, n. 7941.
[5] In giurisprudenza si segnala Cass. Pen., Sez. IV, 14.06.2017, n. 29721.

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