Suicidio assistito: esiste il diritto ad una morte dignitosa? (caso DJ Fabo)
Il presente contributo[1] trae spunto dall’ordinanza emessa dal g.i.p. di Milano, 10 luglio 2017, giud. Gargiulo, imp. Cappato con la quale sono state rigettate le richieste avanzate dalla Procura e dai difensori del politico e attivista Marco Cappato nel procedimento che lo vede coinvolto per l’aiuto prestato a Fabiano Antoniani (alias DJ Fabo) nella realizzazione del c.d. suicidio assistito realizzatosi in una struttura svizzera e, per l’effetto, è stata disposta, ai sensi dell’art. 409, co. 5, c.p.p., l’imputazione coatta dell’indagato sia per la condotta di “aiuto”, sia con riferimento al “rafforzamento” del proposito suicida che questi avrebbe operato sull’Antoniani.
Interessante rilevare come, in apertura, il g.i.p. abbia avvertito la necessità di precisare che il provvedimento «è frutto di un’attenta analisi del dato normativo nazionale, nonché delle fonti sovranazionali già richiamate dal PM e dalla difesa dell’indagato» e che esso «rifugge da qualsiasi pregiudizio assiologico sui delicati temi che il fatto pone in rilievo, bensì si fonda, come si vedrà di seguito, su un’analisi tecnica degli istituti giuridici sottesi alla vicenda in esame».
La vicenda fattuale, brevemente ripercorsa in nota[2], è balzata subito agli onori della cronaca ed ha scosso le coscienze di molti instaurando un vivace dibattito nell’ambiente socio-politico e giuridico italiano. Il punto nodale del dibattito è se esista, nel nostro ordinamento, un diritto, esigibile dallo Stato, ad una “morte dignitosa”, almeno in quei casi in cui l’esistenza umana diventa troppo dolorosa a causa di mali inguaribili.
Ebbene, la Procura, a seguito delle indagini del caso, richiedeva al g.i.p. l’archiviazione della posizione dell’indagato sulla base di un duplice ordine di argomentazioni: da un lato, una interpretazione restrittiva della fattispecie di “partecipazione materiale” di cui all’art. 580 c.p., tale da escludere dall’alveo dell’incriminazione le condotte poste in essere dall’indagato; dall’altro, una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata della norma stessa alla luce del “diritto ad una morte dignitosa” ricavato da una lettura integrata di varie norme costituzionali e convenzionali, che agirebbe come causa di giustificazione atipica nel caso di specie. Premessa di tutto il ragionamento era che la condotta posta in essere dall’indagato costituisse in realtà una mera “partecipazione materiale” al suicidio di DJ Fabo, e che fosse sicuramente da escludersi qualsiasi forma di istigazione al suicidio o anche solo di rafforzamento del proposito suicida di quest’ultimo. A seguito della fissazione di un’udienza da parte del g.i.p., la Procura e i difensori depositavano, pertanto, due memorie volte a sollecitare, in esito ad itinerari argomentativi largamente coincidenti, la formulazione di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. da parte del giudice fondante sull’esistenza di un diritto all’autodeterminazione ed alla dignità avente rango costituzionale, che risulterebbe violato per effetto del divieto incondizionato di aiuto al suicidio posto dalla norma in questione.
Ciò posto, preliminarmente, si rileva che il codice penale, nel libro II, titolo XII, capo I – all’interno, cioè, del novero di fattispecie poste a presidio della vita e dell’incolumità – punisce, all’art. 579 c.p., l’omicidio del consenziente e, al successivo art. 580 c.p., l’istigazione o l’aiuto al suicidio.
Si tratta di precetti che proteggono il bene giuridico vita in situazioni del tutto peculiari, ossia qualora vi sia il consenso del soggetto passivo a farsi uccidere per mano dell’agente (art. 579 c.p.) o quando vi sia, invece, l’istigazione o l’agevolazione dell’altrui suicidio (art. 580 c.p.)[3].
Ovviamente, quale che sia la condotta incriminata nel singolo caso di specie, non si può prescindere da una rigorosa verifica del nesso di causalità tra l’azione (o l’omissione) posta in essere dal soggetto attivo e l’evento morte: id est sarà fonte di penale responsabilità soltanto quel fatto senza il quale quel suicidio non sarebbe avvenuto (o non sarebbe avvenuto in quel momento e con quelle modalità).
Da queste brevi analisi, discende ictu oculi l’elemento discriminante tra le fattispecie in esame: nel primo caso, l’azione determinante la morte della vittima si riconduce ad un soggetto terzo rispetto ad essa; nel secondo, al contrario, è il suicida a compiere in persona quel gesto da cui discende il fatale esito. Illuminante, a questo proposito, un passaggio di un fondamentale pronunciamento della Suprema Corte in materia: «si avrà istigazione o agevolazione al suicidio tutte le volte in cui la vittima abbia conservato il dominio della propria azione, nonostante la presenza di una condotta estranea di determinazione o di aiuto alla realizzazione del suo proposito, e lo abbia realizzato, anche materialmente, di mano propria»[4].
Tale distinzione, che pure appare tanto palese, risulta fondamentale per una corretta qualificazione dei fatti ove ci si trovi in una di quelle vicende che, spesso con indebita approssimazione, si riconducono sotto l’ampia e generica nozione di “eutanasia”.
Poste queste premesse, merita condivisione l’approdo del PM secondo cui «la condotta posta in essere da Marco Cappato, come sopra ricostruita, deve essere inquadrata all’interno della fattispecie di cui all’art. 580 c.p., ed in particolare tra le condotte di partecipazione materiale al suicidio». In effetti, nel caso di specie, il desiderio di morire, già espresso dal malato, era – in considerazione delle condizioni fisiche dello stesso – privo di effettive possibilità di attuazione; soltanto grazie all’intervento e al successivo consulto con l’indagato, si è trasformato in una possibilità concreta, cosicché è evidente che tale decisione si è evoluta e rafforzata: Antoniani voleva morire, prima di conoscere l’indagato; dopo i colloqui avuti con lo stesso, voleva suicidarsi con le modalità offerte dalla clinica svizzera, la cui “serietà” gli era stata garantita dall’indagato.
In ciò, contrariamente a quanto sostenuto dal PM, il g.i.p. ha ravvisato un “rafforzamento” del proposito suicidario e, per i motivi di cui appresso, anche un’ulteriore condotta vietata consistita nell’aiutare il paziente a raggiungere l’obiettivo suicidario.
Infatti, è necessario interrogarsi circa la portata semantica dell’ultima parte dell’art. 580 c.p.: «chiunque (…) agevola in qualsiasi modo l’esecuzione [del suicidio]». Si tratta, invero, di una norma di scarsa ricorrenza all’interno della giurisprudenza, sia di merito, sia di legittimità.
In materia, costituisce significativo precedente la già citata sentenza della Sezione I della Corte di Cassazione[5] ove, in uno degli snodi dell’iter argomentativo, è dato scorgere alcune sottolineature davvero meritevoli di attenzione: «La legge, nel prevedere, all’art. 580 c.p., tre forme di realizzazione della condotta penalmente illecita […] ha voluto quindi punire sia la condotta di chi determini altri al suicidio o ne rafforzi il proposito, sia qualsiasi forma di aiuto o di agevolazione di altri del proposito di togliersi la vita, agevolazione che può realizzarsi in qualsiasi modo: ad esempio, fornendo i mezzi per il suicidio, offrendo istruzioni sull’uso degli stessi, rimuovendo ostacoli o difficoltà che si frappongono alla realizzazione del proposito ecc., o anche omettendo di intervenire, qualora si abbia l’obbligo di impedire la realizzazione dell’evento. L’ipotesi della agevolazione al suicidio prescinde totalmente dalla esistenza di qualsiasi intenzione, manifesta o latente, di suscitare o rafforzare il proposito suicida altrui. Anzi presuppone che l’intenzione di autosopprimersi sia stata autonomamente e liberamente presa dalla vittima, altrimenti vengono in applicazione le altre ipotesi previste dal medesimo art. 580».
Il significato della terza delle condotte incriminate dall’art. 580 c.p., quindi, può essere delineato grazie alle limpide parole del giudice di legittimità. In primo luogo, l’impiego del verbo agevolare denota già, in sé, l’intenzione del legislatore di sanzionare ogni condotta che materialmente renda possibile l’altrui convincimento[6]. E, trattandosi di un reato a forma libera – come ribadisce la locuzione avverbiale successiva, «in ogni modo» – il concetto di “aiuto” riassume in sé ogni condotta che sia compiuta dal soggetto terzo e senza la quale l’esito mortale non si sarebbe verificato.
La seconda nozione che rileva è quella di «esecuzione». Invero, nella richiesta di archiviazione, il PM ne ha fornito una interpretazione particolarmente restrittiva, ritenendo di doversi limitare l’esecuzione a quella che viene definita come «fase esecutiva»: soltanto l’aiuto reso negli ultimi e decisivi frangenti che precedono il gesto finale potrebbero assumere rilevanza penale. Ogni altra condotta precedente, quali, ad esempio, il reperimento di mezzi o il trasferimento fisico della persona incapace di muoversi verso il luogo prescelto, sarebbe, adottata quest’impostazione, irrilevante, in quanto mero atto preparatorio.
Ebbene, l’esegesi fornita dal PM appare sfornita di adeguato supporto motivazionale ed, in ogni caso, in contraddizione con la teoria della causalità nella parte in cui si toglie (almeno potenziale) rilievo penale ad una condotta che sembra potersi inquadrare, invece, come antecedente rispetto all’evento finale[7].
In primo luogo, la formulazione della norma in esame appare evidentemente orientata a riassumere in sé – e quindi a punire – ogni condotta che abbia dato un apporto causalmente apprezzabile ai fini della realizzazione del proposito suicidario. Restringere l’applicazione alla sola fase che immediatamente precede l’evento mortale (nel caso di specie, alla predisposizione dell’iniezione letale in Svizzera) comporterebbe quindi togliere ogni rilevanza a condotte che, invece, hanno agevolato in modo palese la concretizzazione del suicidio[8].
Una tale impostazione non risulta affatto convincente, come si può cogliere da un illuminante passaggio della già richiamata sentenza n. 3147/1998 del Supremo Collegio, secondo cui «si avrà agevolazione al suicidio se l’agente si limita a fornire alla vittima, su richiesta di quest’ultima e conoscendo l’uso che ne farà, l’arma che poi essa utilizzerà contro se stessa». Ancora, la Corte, nel prosieguo della medesima sentenza, esemplifica alcune condotte frequenti nell’ambito dell’art. 580 c.p.: «ad esempio, fornendo i mezzi per il suicidio, offrendo istruzioni sull’uso degli stessi, rimuovendo ostacoli o difficoltà che si frappongono alla realizzazione del proposito ecc.».
A parere del giudice milanese, quindi, l’intervento dell’indagato nella vicenda che ha condotto alla morte di Antoniani è stato determinante: «egli stesso è stato contattato in ragione della ampia conoscenza che aveva delle modalità con cui il proposito suicidario poteva essere concretizzato». Se si sottrae, nel quadro della vicenda, la condotta dell’indagato, «l’esito finale non sarebbe certo stato quello occorso lo scorso 27 febbraio: egli ha rafforzato il proposito suicidario e agevolato l’esecuzione dell’intento auto-soppressivo di Antoniani in primo luogo suggerendo la struttura dove ciò poteva accadere (in sostanza, egli ha permesso di trovare il mezzo tramite cui realizzare il suicidio), poi trasportandovi in concreto Antoniani stesso. Sono certamente condotte che chiunque altro avrebbe potuto realizzare, con medesimo risultato: ciò che conta, tuttavia, è che senza di esse, non sarebbero state rimosse quelle difficoltà che impedivano ad Antoniani di perseguire il fine fortemente e liberamente voluto»[9].
Un approfondimento è altresì necessario quanto alle modalità con cui l’ordinamento italiano protegge e tutela il bene vita: è questo il punto di partenza necessario per risolvere la questione centrale che il caso in esame pone e, cioè se, nel nostro Paese, possa dirsi sussistente – almeno a certe condizioni – un diritto, esigibile dallo Stato, ad una “morte dignitosa”.
Dall’analisi dello stato della legislazione, emerge con tutta evidenza come nel contesto attuale esista certamente un “diritto a lasciarsi morire” per mezzo del rifiuto di un trattamento sanitario, in ossequio al combinato disposto degli artt. 13 e 32 Cost.: se, infatti, nessuno può essere sottoposto ad una forma di terapia non voluta, discende immediatamente che il personale medico (ed ogni altra persona) dovrà accettare, senza opporsi od intervenire diversamente, la normale evoluzione delle patologie o delle condizioni che affliggono il paziente[10]. In un simile caso, vi è l’esercizio di un diritto costituzionalmente protetto da parte del soggetto, mentre per tutti coloro che prestano la propria opera (od omettono di prestarla, poiché si astengono dall’effettuazione del trattamento non voluto) scatta l’esimente di cui all’art. 51 c.p., con ciò scriminando una condotta che altrimenti risulterebbe de plano ricompresa nell’alveo dell’art. 579 c.p..
Giova evidentemente osservare che, in tali vicende, la morte del paziente è sopravvenuta non già per l’apporto di un elemento esterno, ad esempio un farmaco letale, bensì per la naturale evoluzione delle patologie, resa possibile dall’interruzione del funzionamento dei dispositivi che consentivano la protrazione dell’esistenza e che sopperivano all’incapacità del corpo dell’individuo di adempiere ad una (o più) delle funzioni vitali indefettibili. Una volta acquisito il consenso – o ricostruito giudizialmente, come, ad esempio, avvenuto nel caso Englaro – del paziente, si è poi provveduto al distacco dei macchinari, in attesa che le condizioni dell’individuo ne conducessero il corpo al fatale esito.
Tuttavia, nel caso oggetto di odierna analisi, dovrebbe ammettersi – sulla base di quanto chiesto dal Pubblico Ministero – la sussistenza di un altro e ulteriore diritto, rispetto a quello esercitato nel precedente giurisprudenziale relativo al caso Englaro: non quello al rifiuto di un trattamento sanitario (ipotesi che, peraltro, Antoniani rifiutò, poiché la sua condizione lo avrebbe portato ad una morte dolorosa e lenta), ma quello a «morire o suicidarsi con dignità», con conseguente esclusione dell’antigiuridicità penale del comportamento di chi abbia coadiuvato il suicida.
Per quanto lo stesso art. 2 Cost. costituisca il fondamento della dignità della persona, non pare possibile fondare una lettura – quella proposta dal PM – del medesimo articolo della Carta repubblicana che sancisca il diritto “alla morte dignitosa”. Il diritto a “lasciarsi morire”, infatti, si ricostruisce a partire da una disposizione della Costituzione, l’art. 32, co. 2, che esprime in modo palese la libertà di esprimere il rifiuto ad un trattamento sanitario, salvi i (rari) casi in cui sia la legge ad imporlo in via coattiva. La morte del paziente subentra, in questi casi, come conseguenza dell’esercizio (insindacabile) di questo diritto, purché il dissenso sia consapevole, manifesto e permanente.
Al contrario, la ricostruzione del presunto “diritto alla morte dignitosa”, ipotizzato dal PM, incontra un insormontabile ostacolo nell’assenza di una previsione normativa che facoltizzi una simile scelta.
La ricostruzione del PM risulta altresì aporetica nel momento in cui postula un diritto ad una morte dignitosa nei soli casi in cui vi siano «vite percepite, da chi le vive, come indegne, inumane, troppo dolorose per essere sopportate». Invero, qualora si decidesse l’archiviazione sulla base di un simile argomento, il giudice sì ergerebbe, in modo totalmente vietato dall’ordinamento, a legislatore, poiché introdurrebbe nell’ordinamento un diritto inedito (con relativo accesso alla conseguente esimente) e, soprattutto, ne filtrerebbe l’esercizio, limitandolo ai casi in cui sussistano taluni requisiti, peraltro meritevoli di una formulazione generale, astratta e rispettosa del canone di precisione che una simile materia esige.
Si tratterebbe peraltro di un’interpretazione chiaramente contraria allo spirito e al tenore della legislazione penale vigente, poiché condurrebbe all’abrogazione (quanto meno parziale) degli artt. 579 e 580 c.p.
Ma v’è di più: una simile interpretazione, in assenza di un quadro normativo chiaro ed univoco, introdurrebbe un concreto pericolo per coloro che percepiscono la loro esistenza come troppo dolorosa: si pensi ai casi di persone che percepiscono l’indegnità della propria vita a causa di patologie depressive, il cui giudizio sulla propria esistenza è pesantemente inficiato da tale condizione.
Pur rifuggendo qualsiasi approccio confessionale o di carattere “paternalistico” pare, però, evidente che l’affermazione di un diritto ad una morte dignitosa si porrebbe in palese contrasto con lo spirito della Carta costituzionale e con diverse norme della legislazione vigente.
Del resto, anche la CEDU – ed il diritto convenzionale – tutela il bene vita in modo espresso e ne accentua la rilevanza in continuazione, tanto da esprimersi nei termini di sanctity of life[11]. Già dalla sentenza Pretty c. Regno Unito la Corte EDU ha sancito che, per quanto la vita privata non debba subire alcuna ingerenza da parte dell’autorità pubblica, «non è possibile dedurre dall’art. 2 della Convenzione un diritto di morire, per mano di un terzo o con l’assistenza di una pubblica autorità» (§ 40). Se, quindi, ciascuno può disporre della propria vita in modo libero, ricorrendo — in modo autonomo — a gesti autolesivi o addirittura auto-soppressivi, non esiste alcun diritto al suicidio “assistito”: ciò si trae dal fatto che non è stata contestata alcuna violazione degli artt. 2 e 8 CEDU a quei Paesi che incriminino l’agevolazione o l’aiuto alla condotta suicidaria. Anzi: è costante, nella Corte, l’affermazione di esigenze di protezione di quei soggetti deboli che, per la malattia, la sofferenza, l’anzianità o simili cause, potrebbero essere portati a disporre in modo avventato o non lucido della propria esigenza.
Nella stessa sentenza Gross, talvolta indicata come la pronuncia che fonderebbe un presunto “diritto al suicidio assistito”, la violazione dell’art. 8 CEDU contestata alla Svizzera deriva non dal fatto che la legislazione elvetica subordini l’accesso al farmaco letale a certe condizioni, bensì dalla circostanza che tali requisiti siano definiti con rinvio ad una fonte non normativa[12]. Invero, la Corte, nell’esaminare la normativa svizzera in tema di eutanasia e suicidio assistito prendeva atto che il codice penale svizzero (cfr. art. 115) non incrimina l’aiuto al suicidio, se non nella misura in cui sia commesso per motivi non compassionevoli, ovvero per motivi egoistici. Ad avviso della Corte EDU, in forza di tale disposto, risulterebbe quindi legittima la somministrazione di farmaci idonei a cagionare la morte, in caso di regolare prescrizione medica. Si rilevava, peraltro, in modo critico, quanto dianzi sottolineato, ossia che le regole per disciplinare la corretta emissione di detta prescrizione non sono contenute in una vera e propria legge, ma nelle linee guida dell’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche (A.S.S.M.).
Quindi, ancora una volta, si deve trarre come è ben possibile, stante il margine di apprezzamento lasciato ai Paesi membri (tra cui, peraltro, solo quattro lasciano spazio al suicidio “assistito” tout court), che uno Stato ammetta, soltanto a certe e chiare condizioni, pratiche di assistenza alla morte[13]: ma non sarebbe mai censurabile, rebus sic stantibus, una legislazione che conservasse un totale divieto in tal senso (ovvero, conservasse le sanzioni penali per l’assistenza ai suicido o per l’omicidio con consenso).
A conferma di tale orientamento, si può fare cenno anche alla Risoluzione n. 1859 del 25.1.2012 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa che, avendo ad oggetto “la tutela dei diritti umani e della dignità in base alle volontà in precedenza espresse dai pazienti”, ha sancito, al proprio § 5: «This resolution is not intended to deal with the issues of euthanasia or assisted suicide. Euthanasia, in the sense of the intentional killing by act or omission of a dependent human being for his or her alleged benefit, must always be prohibited».
Questo atto – per quanto, ovviamente, non vincolante nei confronti degli Stati – ribadisce una volta di più l’orientamento seguito, sul punto, nell’ambito del Consiglio d’Europa: pieno rispetto della libertà di autodeterminazione, ivi inclusa la possibilità di scegliere se sottoporsi (o meno) ai trattamenti sanitari, ma totale rifiuto per tutte quelle pratiche attive volte a porre fine all’esistenza di un singolo, in quanto esse siano ritenute preferibili rispetto alla prosecuzione della vita in certe condizioni. Tale divieto, come già visto nella giurisprudenza CEDU, sorge dalla necessità di proteggere la vita specie ove i pazienti si trovino in condizioni di debolezza e vulnerabilità tali da esporsi a facili abusi del proprio consenso.
Nel 2016 è il Tribunale Federale Svizzero ad affrontare nuovamente il problema del suicidio assistito. L’occasione nasce da un ricorso presentato da due associazioni contro la legge del Cantone di Neuchâtel che nel 2014 ha introdotto l’art. 35 in tema di suicidio assistito. La pronuncia appare particolarmente interessante perché prende in esame lo stato della giurisprudenza della Corte EDU. Ad avviso del Tribunale Federale, esiste un diritto di scegliere la forma e il momento della fine della propria vita, che trova fondamento nel diritto di autodeterminazione sancito dall’art. 8, co. 1 CEDU. Allo stesso tempo, non sussiste un obbligo positivo dello Stato di garantire tale diritto. In forza di simili principi, il Tribunale Federale conclude che la norma introdotta con la novella del 2014, garantendo la libertà di autodeterminazione, non appare in contrasto con i principi costituzionali[14].
Ritornando al caso di specie, invece, soffermandosi più nel dettaglio sulla richiesta di adire la Consulta proposta da entrambe le parti del procedimento, il g.i.p. ha rigettato tale istanza sulla base di una duplice argomentazione.
Innanzitutto, secondo il giudice la questione sarebbe manifestamente infondata in quanto inammissibile. La Consulta, infatti, ammette la possibilità di “integrare” la disciplina normativa per mezzo di una pronuncia additiva solo quando l’oggetto del petitum sia “a rime obbligate”, ossia quando dal dato costituzionale emerga un’indicazione chiara ed univoca circa il contenuto della “legge mancante”, che non lasci spazio alcuno a scelte discrezionali. In questo caso, invece, una sentenza “a rime obbligate” non sarebbe possibile poiché non è chiaro quale contenuto dovrebbe avere la norma atteso che la difesa riteneva che l’art. 580 c.p. fosse costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non esclude la punibilità di colui che agevola l’esecuzione del suicidio quando le circostanze di fatto lo configurano come diritto «in ragione di condizioni di vita ritenute non più dignitose», mentre il PM circoscriveva l’ipotizzata illegittimità costituzione ai casi di suicidio assistito del solo «malato terminale o irreversibile» quando il malato stesso ritenga le sue condizioni di vita lesive della sua dignità.
Inoltre, a detta del giudice milanese, la questione proposta dalle parti sarebbe manifestamente infondata anche nel merito atteso che – in diparte il non pertinente richiamo al concetto di “dignità della figura umana” che, come supra esposto, non giustifica in ogni caso l’esistenza di un diritto a morire in modo dignitoso attraverso l’intervento di un’altra persona – la ricostruzione offerta dal PM pare anche aporetica.
Invero, quand’anche si ammettesse che, a certe condizioni (malattie terminali o irreversibili, dolore fisico insopportabile, percezione dell’indegnità dell’esistenza), la vita possa essere interrotta perché la sua prosecuzione viola la dignità umana, «si introdurrebbe un’evidente sperequazione nella tutela della vita umana, in quanto vi sarebbero vite meritevoli di essere vissute ed esistenze non meritevoli. Le prime, mai sacrificabili, e protette sempre ed in ogni caso da qualsiasi ingerenza esterna; le seconde, invece, rinunciabili in quanto indecorose, laddove, però, una simile valutazione andrebbe riconosciuta soltanto in presenza di requisiti non particolarmente limpidi e, soprattutto, di difficile accertamento (che cosa si intende per malattia irreversibile? come viene accertata la volontà suicidaria successivamente al decesso per le persone sole il cui unico affetto è quello della persona che lo ha aiutato a togliersi la vita?)».
Un tale approdo, quindi, non solo colliderebbe con la già osservata centralità del bene vita, ma andrebbe ad indebolire la tutela proprio in quelle situazioni di fragilità e debolezza in cui il rischio di altrui ingerenze è particolarmente evidente: le norme di cui agli artt. 579 e 580 c.p., infatti, sono orientate proprio ad evitare si disponga di una “vita” in modo avventato o irrispettoso della stessa.
In conclusione, non si può neppure condividere la presenza di un diritto al suicidio, ove la vita sia divenuta motivo di particolare ed esasperante tormento – psichico e fisico – per l’individuo, «nei casi di malati terminali o con patologie gravissime e irreversibili». Una simile impostazione, infatti, porrebbe in grave crisi il diritto alla vita e, soprattutto, lo piegherebbe in modo improprio all’esercizio dell’autodeterminazione: in nome di un criterio soggettivo di dignità, la ratio di tutela del bene vita muterebbe, rimanendo protetto il bene vita soltanto ove accompagnato dalla volontà del suo titolare di conservarlo. Dunque, il vero bene protetto delle stesse norme che puniscono l’omicidio non sarebbe più la vita ma la volontà di vivere: ossia, si finirebbe per annichilire il senso stesso degli artt. 579 e 580 c.p., concepiti proprio per evitare che il consenso a morire, espresso da persone evidentemente deboli, possa essere sfruttato per finalità abiette e riprovevoli.
Legittimare il suicidio assistito (in assenza di norme che lo prevedano positivamente) soltanto per alcune categorie di malati costituisce un potenziale vulnus dell’uguaglianza. Come evidenziato nella ordinanza del g.i.p. di Milano, il diritto penale, in quanto diritto pubblico, tutela la vita e «tale forma di presidio non può avere declinazioni diverse a seconda della percezione soggettiva del singolo. Peraltro, si finirebbe per compiere un’operazione logicamente censurabile, in quanto per rispettare la dignità della vita umana si andrebbe a distruggere ciò che di tale principio è il presupposto indefettibile, ossia la vita stessa».
[1] Giacomo Romano, Sull’ammissibilità del suicidio assistito e l’esistenza del c.d. diritto ad una morte dignitosa, Gazzetta Forense n. 4, Giapeto Editore, Napoli, 2017.
[2] Il 13 giugno del 2014 Antoniani (detto Fabo) rimaneva coinvolto in un grave incidente stradale nel quale riportava lesioni midollari a due vertebre; da ciò derivava la paralisi totale e la cecità, pur rimanendo inalterate le sue facoltà intellettive. Le cure, pur tempestive e prestate in centri altamente specializzati, non ottenevano la sperata guarigione, né si registrava alcun miglioramento delle condizioni di vita del paziente. Dopo diversi ricoveri ed oltre un anno di degenza ospedaliera, l’équipe medica che lo seguiva dimetteva il paziente, il quale sarebbe stato poi curato ed accudito a casa propria, e, contestualmente, formulava un giudizio di irreversibilità di questa condizione. Dopo un infruttuoso ricorso ad un’ulteriore terapia in India – tra fine 2015 e inizio 2016 – Antoniani faceva ritorno a Milano, di fatto nelle medesime condizioni in cui già in precedenza versava, nonostante le premurose cure prestategli da apposito personale e dai propri cari. Nel giro di pochi mesi, Antoniani maturava il proposito di porre fine alla propria esistenza e, una volta vinte le resistenze della madre e della fidanzata, quest’ultima entrava in contatto con l’indagato, soggetto attivo nell’ambito di una associazione che si occupa di fornire assistenza ai soggetti che desiderano porre fine alla loro vita. L’indagato, avendo avuto modo di conoscere bene Antoniani ed avendo, altresì, contezza del pieno, irremovibile proposito dello stesso, provvedeva ad informarlo che, per dar esecuzione ad un simile intendimento, si poteva ricorrere alla “strada svizzera” o, in alternativa, si poteva seguire la strada italiana, che avrebbe potuto consistere nell’interruzione di qualsiasi trattamento accompagnato dalla sedazione profonda. Scartata subito l’ipotesi di rinunciare ai trattamenti in corso, in conformità al diritto italiano, a causa dei patimenti che questa via avrebbe comportato, Antoniani prendeva, invece, in considerazione l’ipotesi di rivolgersi ad una struttura in Svizzera, segnalata dallo stesso indagato, con cui furono presi contatti e, dopo alcune visite volte ad accertare la volontà e le condizioni psico-fisiche del paziente, Antoniani, assistito dal personale della clinica, si toglieva la vita mediante un dispositivo progettato appositamente, che egli ha morso. Antoniani stesso ha dato, pertanto, corso all’iniezione del farmaco letale che lo ha condotto dapprima al coma profondo, quindi alla morte. Il giorno successivo, l’indagato si recava presso i Carabinieri di Milano per esporre la vicenda di cui sopra.
[3] L’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) punisce il fatto di colui che cagiona la morte di un uomo, con il consenso di questi. L’unico elemento specializzante rispetto all’art. 575 c.p. – e che, quindi, connota in modo palese questa ulteriore fattispecie – si deve rinvenire appunto nella manifestazione del consenso da parte del soggetto passivo: la mitigazione del trattamento sanzionatorio deriva, infatti, dalla minore gravità del gesto omicidiario, sia sul piano soggettivo – essendovi il proposito non di aggredire il bene giuridico altrui, bensì di assecondare la volontà di un’altra persona – sia sul versante oggettivo, poiché non v’è alcuna ingerenza nell’esercizio della libertà della vittima. Ovviamente, ciò che deve essere valutato con particolare rigore ed attenzione è, appunto, il valido consenso formulato da parte del soggetto passivo: questo deve essere serio, esplicito, inequivocabile e perdurante sino al momento finale (così, da ultimo, Cass. Pen., sez. I, n. 32851/2008).
L’art. 580 c.p., invece, si configura quale autonoma e specifica forma tipizzata di concorso. In primo luogo, giova osservare che tale fattispecie punisce condotte (la determinazione, il rafforzamento dell’altrui proposito, l’agevolazione dell’esecuzione) che si collocano in rapporto di funzionalità rispetto ad un gesto, quello suicidario, che rimane (ovviamente) impunito dall’ordinamento. Inoltre – altro elemento di particolarità, oggetto di ampia critica da parte della dottrina – questo precetto punisce allo stesso modo condotte profondamente differenti, poiché sanziona da un lato il fatto di chi determina taluno a togliersi la vita (istigazione o determinazione al suicidio), dall’altro, invece, il sostegno (morale o materiale che sta) nella realizzazione di una decisione già autonomamente deliberata da parte del soggetto. Delle tre condotte punite dalla norma, due rientrano nel perimetro del c.d. concorso morale (la determinazione al suicidio ovvero il rafforzamento di tale proposito), l’ultima, invece, formulata in termini assai ampi, sanziona il fatto di chi in qualsiasi modo, agevoli l’esecuzione dell’intento suicidario (concorso materiale).
[4] Cass. Pen., sez. I, n. 3147/1998.
[5] Ibidem.
[6] Anche facendo riferimento ad un qualunque dizionario della lingua italiana, al fine di cogliere il comune significato del verbo in questione, il termine in analisi viene spiegato come “rendere facile qualcosa, favorire qualcuno, assistere”: agevolare, in altre parole, non vuol dire altro che aiutare (come, peraltro, dice la stessa rubrica dell’art. 580 c.p.) consapevolmente un soggetto nella realizzazione di un proposito già consolidato.
[7] Infatti, secondo la teoria condizionalistica, una condotta può essere considerata come causa di un evento se non può essere mentalmente esclusa senza che venga meno anche l’evento. Un antecedente può configurarsi come conditio sine qua non soltanto ove esso rientri nel novero delle cause che, sulla base di una successione regolare conforme ad una legge generale di copertura, portino ad un evento pari a quello concretamente verificatosi (sul punto, cfr. Cass., sez. IV pen., n. 7214/2004; Cass., sez. IV pen., 4793/1990). Ovviamente, onde evitare che tale meccanismo consenta un regresso all’infinito, l’ambito di rilevanza degli antecedenti viene ben delineato grazie all’elemento soggettivo (dolo/colpa), che consente di sceverare quelle condotte che assumono rilevanza rispetto alla fattispecie incriminatrice considerata.
[8] La soluzione proposta dal g.i.p. milanese si discosta qui da quella adottata di recente dal g.u.p. di Vicenza in un caso simile (Trib. Vicenza, sent. 14 ottobre 2015, dep. 2 marzo 2016, g.u.p. Gerace, imp. A. T.). In quell’occasione, infatti, il giudice veneto ha ritenuto che la mera condotta di accompagnamento in Svizzera di una persona intenzionata a sottoporsi alla pratica del suicidio assistito non rientri nella fattispecie di cui all’art. 580 c.p., neanche come mera agevolazione materiale, in quanto non «direttamente e strumentalmente connessa all’attuazione materiale del suicidio». Nel dettaglio, «deve ritenersi che l’avere l’agente, come nel caso in esame, accompagnato in auto l’aspirante suicida da Arzignano in Svizzera dove la stessa sarebbe stata accompagnata alla morte dal personale della Fondazione Omissis, non integra, come si pretende dall’accusa, la condotta di agevolazione dell’esecuzione del suicidio. È vero che l’agevolazione può essere realizzata in qualsiasi modo, ma nel caso deve ritenersi che la condotta posta in essere dal T. non concernesse l’esecuzione del suicidio. Prova ne è che l’apporto facilitatore del T. fu del tutto fungibile, perché ove egli non si fosse prestato ad accompagnare O.C. nel luogo dove essa aveva autonomamente deciso da tempo di andare a morire, sottoponendosi personalmente e senza mediazioni alle valutazioni del caso da parte degli esperti, concordando e fissando lei stessa il programma, e versando gli importi occorrenti per accedere alla procedura, sarebbe del tutto irragionevole pensare che la donna non vi si sarebbe ugualmente recata e avrebbe receduto dal programma, perché colle sue disponibilità economiche avrebbe potuto raggiungere la Fondazione utilizzando un taxi, o un treno comodo e veloce, o una corriera o anche la propria auto che ancora guidava avendo da poco rinnovato la patente. Come si vede, la condotta del T., ancorché sia stata foriera di una obbiettiva facilitazione del viaggio, in realtà va riguardata come agevolatrice della mera potenzialità di attuazione del programma della C. di autosopprimersi, ma nessuna diretta connessione, se non sul piano soltanto motivazionale, ebbe sull’esecuzione del suicidio, la quale costituì (e va riguardata come) una fase finale a sé stante, la quale ebbe inizio nella struttura della Fondazione Omissis, dove il personale non istigò la donna al suicidio né ne rafforzò il proposito, ma pose in essere una condotta sicuramente qualificabile come agevolazione dell’esecuzione del suicidio, dappoiché in tal caso furono forniti (soprattutto dalla dott.ssa E. P.) i mezzi per il suicidio, la donna venne edotta sulla tecnica da seguire per indurre in vena il liquido che l’avrebbe condotta a morte, e dunque vennero rimossi gli ostacoli anche legali che si frapponevano alla realizzazione del proposito».
[9] Come appare dalla ricostruzione dei fatti, l’indagato ha, in piena consapevolezza: a) individuato l’associazione, le cui strutture, in Svizzera, avrebbero consentito ad Antoniani una morte scevra dalle sofferenze che altrimenti avrebbe incontrato in Italia; b) offerto ad Antoniani la possibilità di suicidarsi utilizzando quelle strutture, in alternativa rispetto al ricorso alla terapia della “sedazione profonda” praticabile in Italia; c) fatto in modo che giungesse alla famiglia Antoniani materiale informativo in materia; d) trasportato ed accompagnato personalmente, ponendosi alla guida dei mezzo, Antoniani presso la clinica dell’associazione; e) assistito alle procedure preparatorie del successivo suicidio.
[10] Può, in tal senso, essere utile ripercorrere brevemente le motivazioni della Cassazione sul noto caso Englaro, ove anche vi è stato un forte coinvolgimento mediatico e su cui, a vario titolo, sono intervenute le competenti autorità giudiziarie. Ebbene, dopo una complessa serie di pronunce, la Corte Cassazione civile, adita dal padre, con la sentenza n. 21748/2007 sancì che «In tema di attività medico-sanitaria, il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente non incontra un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio – nel quadro dell’ “alleanza terapeutica” che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno – per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c’è prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico. Né il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, giacché tale rifiuto esprime piuttosto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale». Ancora, «su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice – fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente – può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario, in sé non costituente, oggettivamente, una forma di accanimento terapeutico, unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, delta voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione».
[11] Segnatamente, l’art. 2 Convenzione prevede, sotto la rubrica “diritto alla vita”, che «il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il reato sia punito dalla legge con tale pena». L’art. 8, invece, rubricato “Diritto al rispetto della vita privata e familiare”, sancisce che «1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».
[12] È interessante osservare che successivamente il procedimento Gross è stato rinviato alla Grande Camera della Corte Edu, la quale ha invece poi dichiarato inammissibile il ricorso per “abuso del diritto”, in quanto la ricorrente si era suicidata già nel 2001 e il suo avvocato non aveva comunicato tale circostanza alla Corte, che ne è venuta a conoscenza solamente a seguito delle note del Governo Svizzero (Corte EDU, Grande Sezione, 30 settembre 2014, Gross c. Suisse, n. 67810/10).
[13] Nel caso Koch c. Germania (sentenza 19.7.2012, ric. N. 497/09), la Corte EDU dà ampio conto della propria precedente giurisprudenza (casi Pretty e Haas) ed, in particolare, specifica (§ 71) che: «Comparative research shows that the majority of Member States do not allow any form of assistance to suicide (compare paragraph 26, above and Haas, cited above, § 55). Only four States examined allowed medical practitioners to prescribe a lethal drug in order to enable a patient to end his or her life. It follows that the State Parties to the Convention are far from reaching a consensus in this respect, which points towards a considerable margin of appreciation enjoyed by the State in this context (also compare Haas, cited above, § 55)».
[14] Tribunale Federale Svizzero,13 settembre 2016, n. 66/2015.
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Avv. Giacomo Romano
Ideatore e Coordinatore at Salvis Juribus
Nato a Napoli nel 1989, ha conseguito la laurea in giurisprudenza nell’ottobre 2012 con pieni voti e lode, presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II, discutendo una tesi in diritto amministrativo dal titolo "Le c.d. clausole esorbitanti nell’esecuzione dell’appalto di opere pubbliche", relatore Prof. Fiorenzo Liguori. Nel luglio 2014 ha conseguito il diploma presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. Subito dopo, ha collaborato per un anno con l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli occupandosi, prevalentemente, del contenzioso amministrativo. Nell’anno successivo, ha collaborato con uno studio legale napoletano operante nel settore amministrativo. Successivamente, si è occupato del contenzioso bancario e amministrativo presso studi legali con sede in Napoli e Verona. La passione per l’editoria gli ha permesso di intrattenere una collaborazione professionale con una nota casa editrice italiana. È autore di innumerevoli pubblicazioni sulla rivista “Gazzetta Forense” con la quale collabora assiduamente da giugno 2013. Ad oggi, intrattiene collaborazioni professionali con svariate riviste di settore e studi professionali. È titolare di “Salvis Juribus Law Firm”, studio legale presso cui, insieme ai suoi collaboratori, svolge quotidianamente l’attività professionale avendo modo di occuparsi, in particolare, di problematiche giuridiche relative ai Concorsi Pubblici, Esami di Stato, Esami d’Abilitazione, Urbanistica ed Edilizia, Contratti Pubblici ed Appalti.
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