Sul nesso di causalità con particolare riferimento alla responsabilità penale del datore di lavoro per morte o lesioni del lavoratore
Sommario: 1. Introduzione – 2. L’accertamento del rapporto di causalità – 3. Segue. I reati omissivi impropri – 4. L’interruzione del nesso di causalità fra evento lesivo e condotta omissiva del datore di lavoro in caso di comportamento anomalo del lavoratore – 5. La responsabilità penale del datore di lavoro per i contagi da Covid-19 – 6. Conclusioni
1. Introduzione
L’emergenza sanitaria ha portato all’adozione di specifiche norme volte a prevenire la diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro; la violazione di predette norme, in caso di contagio di qualche dipendente, potrebbe far sorgere una responsabilità penale del datore di lavoro ai sensi dell’art. 40 comma 2 c.p. per lesioni colpose o omicidio colposo attesa la posizione di garanzia che egli assume rispetto ai lavoratori.
Tuttavia, occorre rilevare che l’accertamento del nesso di causalità tra la condotta omissiva del datore di lavoro e l’evento lesivo risulta essere un’Impresa ardua non soltanto perché occorrerà ricorrere ad un giudizio ipotetico ma soprattutto perché appare difficile escludere con certezza la possibile incidenza sull’evento di ulteriori fattori causali considerato il lungo periodo di incubazione del virus.
2. L’accertamento del rapporto di causalità
Il nesso di causalità rappresenta un elemento costitutivo del reato in tutte quelle fattispecie incriminatrici che prevedono un evento naturalistico. Esso può definirsi il legame tra la condotta dell’agente e l’evento e rinviene la sua disciplina negli articoli 40 e 41 del codice penale.
Il legislatore non fornisce indicazioni utili all’interprete nell’accertamento della causalità. Pertanto, sono emerse diverse teorie che cercano di fornire i criteri per la verifica del nesso di causalità.
Secondo la teoria condizionalistica o dell’equivalenza delle condizioni, per causa deve intendersi ogni singola condizione senza la quale l’evento non si sarebbe verificato. Il meccanismo per individuare se un’azione possa ritenersi causa di un evento è rappresentato dal giudizio controfattuale, ovvero occorre eliminare idealmente la condotta considerata condizionante e verificare se senza di essa l’evento si sarebbe ugualmente verificato.
Uno dei problemi posti dalla teoria condizionalistica attiene all’individuazione dei percorsi logici da seguire per giungere all’affermazione che una condotta è causa di un evento.
In passato la giurisprudenza accoglieva il metodo individualizzante fondato sull’intuizione del giudice nel cogliere nel caso concreto le connessioni tra evento e condotta. Tale metodo, poiché troppo discrezionale, è stato poi superato da un metodo scientifico. Pertanto, si è giunti all’affermazione che l’azione è causa dell’evento se questi, secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico, risulti conseguenza certa o altamente probabile della condotta. Un antecedente può, quindi, essere condizione necessaria dell’evento solo a patto che rientri nel novero di quegli antecedenti che, sulla base di una successione regolare conforme ad una legge dotata di validità scientifica portino ad eventi del tipo di quello verificatosi in concreto.
Quanto alle leggi di copertura utilizzabili, si distinguono le leggi universali, dotate di un grado di certezza assoluto e quelle statistiche che, invece, attestano il verificarsi di un evento in una certa percentuale di casi.
Occorre evidenziare che l’uso di leggi statistiche comporta che l’accertamento del nesso di causalità si connoti di carattere probabilistico. Sul punto la Corte di Cassazione, con la nota sentenza a Sezioni Unite “Franzese” del 2002[1], ha sottolineato che occorre distinguere il concetto di probabilità statistica da quello di probabilità logica. La prima indica la frequenza con cui si verifica una determinata successione di eventi; la seconda riguarda la verifica ulteriore, sulla base delle circostanze concrete, dell’attendibilità dell’impiego di una legge statistica nel caso concreto e della credibilità dell’accertamento giudiziale.
Pertanto, affinché l’accertamento del nesso causale, oltre ad essere statisticamente probabile, sia anche logicamente credibile , è necessario che il giudice , una volta individuata la legge statistica, verifichi la sua validità nel caso concreto, escludendo l’intervento di altri fattori causali che potrebbero aver causato l’evento in alternativa alla condotta del reo.
In caso di assenza di leggi scientifiche di copertura, la giurisprudenza ha affermato che si possa far riferimento a criteri medio-bassi di probabilità circa la frequenza di una determinata successione di eventi purché confermati da un riscontro probatorio che accerti in termini di certezza processuale l’esistenza del nesso di causalità.
Va rilevato che la teoria condizionalistica è stata criticata sotto diversi aspetti e, in particolare, per il rischio di regresso all’infinito che essa può comportare considerando equivalenti tutte le condizioni che concorrono alla produzione dell’evento.
Secondo un orientamento, un temperamento alla teoria è dato dal comma 2 dell’art. 41 c.p.. Invero, alla luce di tale norma, le cause sopravvenute intese come fattori eccezionali e anomali interrompono il rapporto di causalità quando sono state sufficienti a determinare l’evento.
Parte della dottrina ha interpretato l’art. 41 comma 2 c.p. come conferma del recepimento della teoria della causalità adeguata la quale richiede non solo che la condotta sia stata condizione necessaria dell’evento, ma anche che quest’ultimo, sulla base di un giudizio ex ante, costituisca sviluppo probabile di quella condotta.
Altra tesi ha interpretato la norma come espressione della teoria della causalità umana secondo la quale possono considerarsi causati dall’uomo soltanto gli eventi che rientrano nella sfera di controllo del soggetto agente.
Un ulteriore orientamento ritiene che l’art. 41 comma 2 c.p. accolga la teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento secondo la quale un evento può essere considerato il risultato di una condotta per il solo fatto che l’azione abbia creato o aumentato il rischio giuridicamente non consentito del suo verificarsi.
3. Segue. I reati omissivi impropri
Con riguardo ai reati omissivi si discute se la connessione tra condotta e evento sia identica a quella esistente nei reati commissivi. Il problema riguarda i reati omissivi impropri detti anche reati commissivi mediante omissione. Essi non sono tipizzati e nascono dal combinato disposto tra la fattispecie incriminatrice di parte speciale che disciplina il reato commissivo di evento e l’art. 40 c.p che prevede la cosiddetta clausola di equivalenza in quanto assimila il mancato impedimento di un evento alla commissione dello stesso.
Gli elementi costitutivi del reato omissivo improprio sono la situazione tipica, ovvero l’insieme dei presupposti che fanno nascere in capo al soggetto agente una posizione di garanzia con il conseguente obbligo di attivarsi; la condotta omissiva; la possibilità materiale per il soggetto di attivarsi per impedire l’evento.
Sebbene qualche autore abbia affermato che l’accertamento del nesso di causalità si presenti identico tanto nel reato commissivo quanto nel reato omissivo, l’opinione prevalente evidenzia le peculiarità della verifica della causalità nei reati omissivi.
Infatti, in tali reati il controllo della causalità si basa su un giudizio ipotetico perché si tratta non di un rapporto causale in senso fisico-naturalistico ma di un suo equivalente ai fini dell’imputazione giuridica del soggetto.
Occorre, in definitiva, ipotizzare come avvenuta la condotta doverosa e verificare se essa avrebbe evitato il prodursi dell’evento.
Appare evidente che, trattandosi di un giudizio ipotetico, in sede di accertamento del rapporto di causalità nei reati omissivi impropri non si possa giungere allo stesso livello di rigore esigibile nella verifica della causalità dei reati commissivi di evento. Tuttavia, alla luce dei principi della sentenza “Franzese” della Corte di Cassazione, il giudice, nella ricostruzione del nesso eziologico tra la condotta omissiva e l’evento, deve ragionare in termini di probabilità logica, verificando alla luce delle circostanze concrete, la validità della legge scientifica di copertura rispetto al caso concreto e la non interferenza di fattori alternativi al di là di ogni ragionevole dubbio.
4. L’interruzione del nesso di causalità fra evento lesivo e condotta omissiva del datore di lavoro in caso di comportamento anomalo del lavoratore
La problematica dell’incidenza di fattori alternativi sul nesso di causalità viene in rilievo, in particolare, con riguardo alla responsabilità penale del datore di lavoro per gli eventi lesivi in caso di comportamento anomalo del lavoratore.
In capo al datore di lavoro vi è una posizione di garanzia da cui scaturisce l’obbligo di apprestare tutti gli accorgimenti necessari per garantire la massima protezione della salute e dell’incolumità del lavoratore.
Nonostante il d.lgs. n. 81/2008[2] preveda anche in capo al lavoratore una serie di obblighi finalizzati alla cura della propria salute e sicurezza nonché delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, la giurisprudenza esclude la possibilità per il datore di lavoro di far affidamento sul rispetto da parte del dipendente delle norme cautelari e ritiene che sia compito del datore di lavoro proteggere i lavoratori anche dai loro prevedibili comportamenti imprudenti. Infatti, si osserva che la valutazione dei rischi lavorativi, prevista dal d.lgs n. 81/2008, deve prendere in considerazione anche i comportamenti imprudenti dei lavoratori[3].
Può escludersi la responsabilità del datore di lavoro solo se il lavoratore pone in essere una condotta imprevedibile, esorbitante dal procedimento di lavoro e incompatibile con il sistema di lavorazione oppure inosservante di precise disposizioni antinfortunistiche.
Quindi, la condotta del lavoratore può interrompere il nesso di causalità solo se essa presenti i caratteri di eccezionalità, abnormità, esorbitanza, inevitabilità, imprevedibilità.
Occorre evidenziare che questa posizione della giurisprudenza non è esente da critiche atteso che è stato evidenziato come essa implichi una iperprotezione del lavoratore, con il rischio che si scivoli verso una responsabilità oggettiva per fatto altrui.
4. La responsabilità penale del datore di lavoro per i contagi da Covid-19
Presupposto perché possa sorgere una responsabilità penale del datore di lavoro per lesioni è la sussistenza di una malattia. Secondo la giurisprudenza la nozione di malattia deve essere intesa come qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo[4]; alla luce di questa definizione anche il contagio viene comunemente ricondotto alla nozione di malattia.
Occorre rilevare che espressamente l’art. 42 del DL 18/2020 stabilisce che il contagio da Covid- 19 deve essere considerato dal datore di lavoro e dall’Inail come un infortunio.
Orbene, la sussistenza del contagio è condizione necessaria ma non sufficiente a fondare la responsabilità penale del datore di lavoro. Invero, occorrerà accertare: la sussistenza in capo al datore di lavoro di una posizione di garanzia e che quindi, il contagio si sia verificato all’interno dell’ambiente di lavoro; la colpa , ovvero la violazione di prescrizioni di legge o di normative secondarie che mirino ad evitare l’evento (colpa specifica), ovvero la violazione delle ordinarie regole di prudenza (colpa generica); il nesso di causalità tra la violazione della regola cautelare e l’evento lesivo.
Con riguardo al rischio di contagio covid-19, le prescrizioni volte ad evitare l’evento lesivo sono quelle contenute nel d.lvo 81/2008 e quelle contenute nella regolamentazione emergenziale. In particolare, l’art. 29 bis del dl 8 aprile convertito con legge del 5 giugno 2020 n. 40 stabilisce che : ”ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
Tra gli obblighi previsti dai protocolli vi sono quelli di informazione e formazione, di adozione di misure di prevenzione (come la misurazione della temperatura corporea all’ingresso, il distanziamento sociale sul posto di lavoro, fornitura di dispositivi di protezione, l’ organizzazione di turni di lavori e dello smart working, ecc) nonché di sorveglianza sull’adozione da parte dei lavoratori delle misure di prevenzione.
Sul punto particolarmente significativa, anche se non riguardante specificatamente le misure di prevenzione anti- Covid, è la sentenza della Corte di Cassazione, sez. IV n. 13575 del 5 maggio 2020 con cui è stata riconosciuta la responsabilità penale del datore di lavoro per la fornitura di guanti protettivi non adeguati al lavoratore e il mancato aggiornamento del DVR.
In particolare, a fronte di un infortunio accaduto ad un dipendente non adeguatamente formato sui rischi e al quale erano stati consegnati dispositivi di protezione individuale diversi da quelli previsti dalla normativa antifortunistica, la Corte di Cassazione ha affermato la responsabilità penale del datore seguendo un giudizio ipotetico e sostenendo che la consegna di dispositivi idonei e l’adeguamento del DVR avrebbero contribuito in modo rilevante ad evitare l’incidente.
Con riguardo al contagio da Covid, sulla scorta di tale sentenza, il mancato rispetto dei protocolli anti-Covid in caso di contagio potrebbe configurare un fattore causale con conseguente possibile responsabilità del datore di lavoro per lesioni colpose o per omicidio colposo.
5. Conclusioni
Se da un lato la qualificazione del contagio da Covid- 19 come malattia può far sorgere una potenziale responsabilità penale del datore di lavoro per lesioni colpose, o , nei casi più estremi, per omicidio colposo, dall’altro lato la prova della sussistenza di tale responsabilità appare piuttosto ardua.
Infatti, occorrerà provare un doppio nesso di causalità, ovvero che il contagio è avvenuto in ambito lavorativo e il collegamento causale tra l’infezione e la violazione da parte del datore di lavoro di una norma cautelare finalizzata a prevenire il rischio.
Orbene, considerato il periodo di incubazione del virus risulta già difficile provare che il contagio sia avvenuto in ambito lavorativo senza l’interferenza di altri fattori causali come la vicinanza di altre persone positive nei luoghi frequentati come esercizi commerciali, mezzi pubblici ecc.
Appare, quindi, abbastanza difficoltoso raggiungere la prova al di là di ogni ragionevole dubbio della responsabilità penale del datore di lavoro, escludendo con certezza l’incidenza di altri fattori causali.
Bibliografia
DAVI M.- MANGIA M., MERENDA A., Le responsabilità penali del datore di lavoro e COVID -19. Profili applicativi e dlgs . 231/01, 2020;
NUCCI A., Nesso di causalita’ e concorso di cause nel processo penale,2017;
SANTISE M.-CHIESI G.A., Diritto e Covid, 2020.
[1] Cass. Pen. Sez. Unite, n. 30328/2002.
[2] In particolare art. 20 del dlgs n. 81/2008.
[3] Corte di Cassazione, sentenza n. 57668 depositata il 28 dicembre 2017; sentenza n. 1871 depositata il 17 gennaio 2018; sentenza n. 31615 , depositata il 11 luglio 2018; sentenza n.31863 depositata il 18 luglio 2019; sentenza n. 35934 depositata il 9 agosto 2019; sentenza n. 14082 del 07 luglio 2020.
[4] Cass. Pen., Sez. IV, sentenza n. 4339 del 02/2/2016.
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