Sul reato di indebito utilizzo della carta di credito
L’art. 55 del decreto legislativo 231/2007, al quinto comma, individua la fattispecie incriminatrice nei termini seguenti: “Chiunque al fine di trarne profitto per se’ o per altri, indebitamente utilizza, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, e’ punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 310 euro a 1.550 euro” .
Trattasi dunque di un reato comune riconducibile al genus del furto (art. 624 c.p.), ma con due elementi di specialità: la modalità della condotta, che richiede non solo il mero spossessamento ma anche l’utilizzo del bene che ne è oggetto, ed in secondo luogo l’oggetto materiale su cui essa si riversa.
L’elemento “dissonante” del dispositivo è dato dai limiti edittali di pena, molto elevati, tali da porne in dubbio la legittimità costituzionale sul piano della proporzionalità e della ragionevolezza: utilizzando il metodo, caro alla giurisprudenza della Corte Costituzionale, del tertium comparationis e confrontando il suddetto art. 55 proprio con l’ipotesi di furto, come si giustifica un gap così elevato di quantum di pena, alla luce degli elementi di specialità che tuttavia non individuano condotte così profondamente differenti?
La risposta al quesito è da rinvenirsi nelle rationes delle due fattispecie, che non sono del tutto coincidenti. E’ evidente che il primo bene giuridico idoneo ad essere leso da entrambe le condotte considerate è il patrimonio, ed infatti il furto rientra tra i reati posti a presidio di tale bene della vita. Non è però lo stesso per l’art. 55: il decreto legislativo, all’art. 2, nel capo I (“Ambito di applicazione“), precisa la propria finalità “… di prevenzione e contrasto dell’uso del sistema economico e finanziario a scopo di riciclaggio e finanziamento del terrorismo” (comma 1), e che “… il presente decreto detta misure volte a tutelare l’integrita’ del sistema economico e finanziario e la correttezza dei comportamenti degli operatori tenuti alla loro osservanza.” (comma 2). Finalità dunque definibili come pubbliche, o perlomeno certamente più ampie del patrimonio della singola persona offesa.
Questo tuttavia non soddisfa nel momento in cui del reato in esame sia imputato un privato cittadino (e ciò è verosimile, trattandosi di un reato comune) del tutto incapace di pregiudicare il bene giuridico tutelato dalla disposizione incriminatrice, in quanto non coinvolto in fenomeni di criminalità quali il riciclaggio o il terrorismo, né trattandosi di un operatore economico tenuto all’osservanza di specifici obblighi. Si pensi ad un quisque de populo che, dopo aver sottratto ad un altro “uomo della strada” la sua carta di credito, semplicemente la utilizzi per le proprie spese, in modo del tutto inoffensivo nei confronti della collettività. Evidentemente in questo caso non viene leso alcun interesse pubblico, e pare, si ribadisce, estremamente sproporzionato il relativo trattamento sanzionatorio, trattandosi di un fatto riconducibile, dati gli elementi di specialità di cui sopra, all’art. 55 del decreto 231/2007 più che all’art. 624 c.p. .
Per risolvere questa problematica è, di nuovo, necessario ricorrere al metodo sistematico di interpretazione della norma. “Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle categorie di soggetti individuati nel presente articolo, siano esse persone fisiche ovvero persone giuridiche“, questo si legge all’art. 3 del medesimo; trattasi di soggetti quali, per esempio, determinati intermediari bancari e finanziari, altri operatori finanziari, operatori non finanziari (ad esempio prestatori di servizi relativi a società e trust), prestatori di servizi di gioco … . Tutte categorie che hanno la materiale possibilità, nell’ambito della relativa attività professionale, di cagionare l’offesa giuridica che la norma vuole evitare; certamente non il nostro quisque de populo.
Dunque, ad avviso di chi scrive, gli artt. 3 e 55 del decreto sono da leggersi in combinato disposto, non potendosi di conseguenza ritenere comune il reato delineato: sarà integrabile soltanto dai soggetti espressamente individuati dalla legge stessa, coerentemente con i princìpi, fondamentali per la disciplina penale, di offensività, legalità (accompagnato dal relativo corollario, cioè la tassatività), proporzionalità rispetto al quantum di disvalore.
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Lara Gallarati
Avvocato presso il Foro di Milano.
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