Sul richiamo dei classici nella redazione degli atti giudiziari. Frammenti.
E se i classici non fossero poi così distanti?
I classici sono dentro di noi, così come è dentro di noi l’innata tensione a riprodurre ciò che è esteticamente perfetto e logicamente coerente. Essendo poi tanto profonda quanto impercettibile la connessione temporale tra il nostro pensiero e quello degli antichi, gioverebbe rimandare sempre al corretto uso dei classici, svecchiandoli e attualizzandoli.
Richiamando un passo in cui Lucio Anneo Seneca, nelle epistole morali indirizzate a Lucilio, tra i diversi temi affronta anche quello relativo alla opportunità di esprimere i concetti d’utilità sociale in modo diretto e limpido, ben si comprenderà l’importanza dell’opera di purificazione del testo.
Gli orpelli o eccessi linguistici, nonché la presenza di qualsivoglia artificio lessicale, a nulla servirebbero se non a distrarre il lettore ovvero l’ascoltatore dal fine primario che è, appunto, quello della corretta comprensione dei contenuti specifici.
Non delectent verba nostra sed prosint, che non siano cioè le nostre parole destinate al solo piacere degli ascoltatori, bensì al loro giovamento. Il linguaggio sia, quindi, conciso e lineare, mai fine a se stesso, ma di concreta utilità; una delle tecniche insomma di redazione degli atti giudiziari e non solo. Operando, sul punto, un parallelismo tra l’epistola 75[1] e l’attuale quadro di riferimento normativo, si scorge la comune necessità di valorizzare l’importanza della semplicità comunicativa, luogo in cui nasce l’eleganza stilistica. Ci si chiede, inoltre, se la snellezza compositiva degli scritti processuali coincida con una necessità d’ordine formale o attenga anche a questioni che assumono un’importanza sostanziale, affinché si dia concreta attuazione ai principi posti a fondamento del diritto processuale. La risposta al quesito si rinviene nei criteri di chiarezza e di sinteticità degli atti, cristallizzati con il DM del 7 agosto 2023 n. 110 e rispetto ai quali già la Cassazione era intervenuta con ordinanza a Sezioni Unite[2]. In quest’ultimo caso, gli Ermellini si pronunciavano sul non marginale tema della brevità degli atti, affrontandolo secondo una duplice prospettiva che rimarcava da un lato la garanzia dei principi che regolano il giusto processo[3] attuabili attraverso il requisito formale della non prolissità, mentre dall’altro poneva a carico delle parti l’ottemperanza al criterio in parola, pena la inammissibilità del ricorso. Sul punto il Collegio rileva quanto “il risparmio di tempo per il giudice impegnato nella lettura e nella comprensione del ricorso contribuisce, infatti, ad una più rapida conclusione del giudizio. Sinteticità e chiarezza consentono un impiego della risorsa giurisdizionale per la singola controversia che tenga conto della necessità di riservare risorse anche per altre controversie, nell’osservanza del principio di proporzionalità”.
E così come il Filosofo nella lettera 40 del libro quarto esalta l’eloquio dei romani che “…magis se circumspicit et aestimat praebetque aestimandum” e cioè deve procedere con molta circospezione e ponderatezza, permettendo all’ascoltatore di valutare bene le parole, allo stesso modo, per analogia con i criteri di redazione degli atti, può dirsi che il Decreto Ministeriale su richiamato più che alla ampiezza fa riferimento alla intelligibilità di quest’ultimi, rilevando, nell’art. 2 del DM, l’importanza della “chiarezza e la sinteticità degli atti processuali in conformità a quanto prescritto dall’articolo 121 del codice di procedura civile”.
Chiara, quindi, è la similitudine con il passo in cui si legge: “…quae veritati operam dat oratio incomposita esse debet et simplex…”, perché appunto un discorso che miri alla verità dev’essere senz’artifici e semplice, è di massima importanza il richiamo al principio di funzionalità, che si rende veicolo di trasmissione di concetti volti a far luce sui fatti per cui è processo. Pertanto, lo stile “…perennis sit unda, non torrens”, ossia fluente e copioso come le onde, non già complesso e impetuoso come un torrente.
Probabilmente, quindi, i classici non sono affatto così distanti dalla dimensione degli operatori del diritto, meritando dunque d’essere ripresi, rivalutati e contestualizzati. Il modello stilistico, infatti, che offrono a quanti praticano i luoghi della giustizia costituisce un paradigma essenziale, fornendo coordinate lessicali entro cui snodare la difesa, che deve ispirarsi a
Ad ogni modo, a chi già è interessato o a chi, leggendoli, se ne interesserà vanno questi citati frammenti.
[1] Seneca – Lettere a Lucilio, BUR Rizzoli, 2021, in ordine di esposizione si v. libro (liber) IX, ep. 75 n. 5; libro IV ep. 40 nn. 4 e 11, con traduzione e note a cura di G. MONTI. Per completezza, si ritiene opportuna la segnalazione del titolo originale dell’opera: Ad Lucilium epistularum moralium libri XX .
[2] Cass. Sez. U., ordinanza n. 37552, 30 novembre 2019, in banca dati One Legale.
[3] La ragionevole durata del processo, quale principio fondamentale per il suo giusto svolgimento (ex art. 111, 2 Cost.), è attuata grazie anche alla sinteticità degli atti processuali. È sottintesa, dunque, la duplice cooperazione tra giudice e avvocato, per le ben note esigenze di snellezza processuale richieste in ogni tipologia di giudizio.
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Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
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Avv. Federica Marciano di Scala (Avvocato della Rota Romana - Avvocato Civilista).
Nata Napoli il 23.07.1989, si laurea in Giurisprudenza e, intrapresi gli studi presso una delle Pontificie Universitá di Roma, consegue anche la licenza e il dottorato in Diritto Canonico. Abilitata all’esercizio della professione forense, è iscritta al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli. Superato il relativo esame di abilitazione, è altresì Avvocato del Tribunale Apostolico della Rota Romana.
Patrocina in foro civile ed ecclesiastico.