Sul riparto di potestà legislativa Stato-Regioni in materia di cooperazione

Sul riparto di potestà legislativa Stato-Regioni in materia di cooperazione

Notoriamente, la L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3, “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”, ha innovato profondamente la disciplina del riparto di potestà legislativa tra Stato e Regioni, invertendo completamente il criterio, fino a quel momento vigente, fondato su una tassativa elencazione di materie sulle quali le Regioni avevano il potere di legiferare. Nella riscrittura dell’art. 117 Cost., si è determinato un rovesciamento contenutistico: sono ora, infatti, tassativamente esplicitate le materia attribuite in via esclusiva alla potestà legislativa dello Stato, con una sostanziale traslazione del potere legislativo in favore delle Regioni, con il vincolo rappresentato dal «rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Si è aperta, così, una prospettiva tendenzialmente federalistica del sistema istituzionale italiano[1].

Naturaliter, tale diversa configurazione della potestà legislativa tra Stato e Regioni ha posto interrogativi sulla materia della cooperazione, in particolare rispetto alla spettanza della disciplina delle imprese in questione, non essendo le stesse esplicitamente contemplate negli elenchi di materie di cui ai commi due, tre e quattro dell’art. 117. Tale costatazione potrebbe indurre a ritenere che la cooperazione sia da ricomprendere nella potestà legislativa residuale delle Regioni. Ma una simile interpretazione, con ogni evidenza, trascurerebbe il portato del comma 2, lett. l), dello stesso art. 117, il quale attribuisce allo Stato legislazione esclusiva in materia di «giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa». La dottrina maggioritaria ricomprende il diritto societario, e quindi anche la cooperazione, nella materia dell’ordinamento civile[2], anche in virtù della peculiare funzione del diritto privato come limite alla legislazione regionale, per soddisfare l’esigenza di garanzia del principio costituzionale di uguaglianza e di uniformità nella disciplina dei rapporti tra privati[3]. Già prima della riforma del Titolo V, la Corte Costituzionale si era chiaramente pronunciata favorevolmente alla legislazione esclusiva dello Stato per la disciplina di alcuni aspetti specifici e centrali della cooperazione[4]. Pur ponendo il baricentro dell’analisi negli ambiti materiali nei quali le imprese cooperative operano concretamente, piuttosto che sugli elementi strutturali delle stesse imprese e prendendo in esame le statuizioni della Corte costituzionale, ad inizio degli anni Novanta, a proposito di cooperative sociali[5], è necessario evidenziare lo stretto legame esistente tra la normativa nazionale e l’intervento del legislatore regionale, così come il ruolo propulsivo svolto centralmente dalla L. 381/1991, che ha posto in capo alle regioni l’onere di attuare, promuovere e sviluppare la propria normativa sulla cooperazione sociale[6].

Nell’ambito dell’equilibrio nella suddivisione delle potestà legislative così esposto, nel corso degli anni hanno cominciato a susseguirsi, a partire dall’iniziativa degli organismi consiliari regionali, normative volte a disciplinare le cooperative di comunità.

La sentenza 20 maggio 2020, n. 131, della Corte Costituzionale. Il conflitto latente tra potestà legislativa statale e regionale nella materia di cui sopra ha trovato in diverse circostanze possibilità di manifestazione, da ultimo nella questione di legittimità costituzionale, sollevata con ricorso dello Stato alla Corte Costituzionale avverso l’art. 5, comma 1, lettera b), della legge della Regione Umbria 11 aprile 2019, n. 2, “Disciplina delle cooperative di comunità[7]. Oggetto della contestazione mossa dall’Avvocatura generale dello Stato è stato il sostanziale ampliamento alle cooperative di comunità dei soggetti espressamente menzionati nel Codice del Terzo Settore come enti del Terzo Settore (ETS), ai sensi dell’art. 4 dello stesso D. Lgs. 3 luglio 2017, n. 117, escluse, al contrario, dalla normativa statale. Le ragioni a suffragio della richiesta di una pronuncia di illegittimità sono individuate nella omologazione sostanziale di queste forme di cooperazione agli ETS, ampliando di fatto il novero dei soggetti del Terzo Settore, secondo quanto disciplinato dalla legge statale e dal diritto privato, con uno “sconfinamento” nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, ex art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, operato da parte della Regione Umbria. Di diverso segno, come ovvio, sono state le argomentazioni addotte dall’ente regionale, il quale ha ricordato l’assenza di una disciplina nazionale delle cooperative di comunità, ed ha basato l’assimilazione di tali cooperative agli ETS in virtù delle finalità squisitamente sociali di tali imprese, richiamando la definizione di “impresa sociale” data dall’art. 1, comma uno, d. lgs. 3 luglio 2017, n. 112, “Revisione della disciplina in materia di impresa sociale, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera c) della legge 6 giugno 2016, n. 106”)[8].

Nelle considerazioni in diritto contenute nella sentenza della Corte Costituzionale, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, vi sono diversi passaggi d’interesse notevole: in primo luogo, la Consulta ha chiarito la natura dei rapporti tra ETS e pubbliche amministrazioni, individuata nell’attuazione del principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale, ex art. 118, comma quattro, Cost[9]. Nella norma costituzionale ora citata, per mezzo della valorizzazione della «originaria socialità dell’uomo», si è attuato un superamento dell’idea per la quale esclusivamente lo Stato, il sistema pubblico, presenti intriseci caratteri di idoneità allo svolgimento di quelle attività indirizzate all’interesse generale, realizzando una «procedimentalizzazione dell’azione sussidiaria». Secondo la Consulta, «si è identificato così un ambito di organizzazione delle ‘libertà sociali’ (sentenze n. 185 del 2018 e n. 300 del 2003) non riconducibile né allo Stato, né al mercato, ma a quelle ‘forme di solidarietà’ che, in quanto espressive di una relazione di reciprocità, devono essere ricomprese ‘tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente’ (sentenza n. 309 del 2013). (…) Si instaura, in questi termini, tra i soggetti pubblici e gli ETS, in forza dell’art. 55, un canale di amministrazione condivisa, alternativo a quello del profitto e del mercato: la «co-programmazione», la «co-progettazione» e il «partenariato» (che può condurre anche a forme di «accreditamento») si configurano come fasi di un procedimento complesso espressione di un diverso rapporto tra il pubblico ed il privato sociale, non fondato semplicemente su un rapporto sinallagmatico. Il modello configurato dall’art. 55 CTS, infatti, non si basa sulla corresponsione di prezzi e corrispettivi dalla parte pubblica a quella privata, ma sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione, in comune, di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico».

Il modello richiamato dall’art. 55 CTS è, però, appannaggio esclusivo degli enti tassativamente citati all’art. 4 dello stesso Codice. Al legislatore regionale, perciò, la Consulta riconosce, nell’ambito delle proprie competenze, quelle prerogative volte «a declinare più puntualmente, in relazione alle specificità territoriali, l’attuazione di quanto previsto dall’art. 55 CTS», affermando, contestualmente, che quello stesso legislatore «non può, dall’altro, alterare le regole essenziali delle forme di coinvolgimento attivo nei rapporti tra gli ETS e i soggetti pubblici». Nel caso di specie, la Corte non ravvisa, da parte della norma regionale in questione una violazione dei principi di riparto della potestà legislativa sopra menzionati. La Regione Umbria non ha, in sostanza, equiparato le cooperative di comunità agli ETS. La norma regionale, ha sottolineato la Corte Costituzionale, all’art. 2 della L.R. umbra 11 aprile 2019, n. 2, riconosce a dette imprese la facoltà di scelta di un sottotipo formale tra cooperativa sociale, cooperativa a mutualità prevalente, cooperativa priva dei requisiti di prevalenza ex art. 2514 cc.. La Corte, dunque, ha affermato la possibilità per le cooperative di comunità di essere costituite o come cooperative sociali, o come imprese sociali. La norma oggetto del giudizio di legittimità, secondo quanto statuito dalla Consulta, contiene una distinzione tra due sistemi riconducibili a fonti diverse e non identificabili in un medesimo regime, appalesata formalmente dall’uso della congiunzione ”e” tra i compiti affidati alla regione nella disciplina di attuazione della co-programmazione, co-progettazione e accreditamento ex art. 55 CTS, da un lato, e le forme per il coinvolgimento delle cooperative di comunità, dall’altro.

Attraverso tale pronuncia, dunque, la Corte Costituzionale sembrerebbe avere sostanzialmente ricondotto tale tipologia d’impresa, in assenza di una legislazione nazionale della cooperazione comunitaria, alle forme sociali cooperative e d’impresa tipizzate dal legislatore, riproponendo quindi l’esigenza di normare il fenomeno comunitaristico «all’interno della comune forma societaria cooperativa».

 

 

 

 


[1] La letteratura scientifica in materia è estremamente copiosa  ed articolata. Ex multis, per un’analisi ex post della riforma del Titolo V della Costituzione e dei successivi passi verso il federalismo od il regionalismo si veda quanto recentemente proposto in VILLONE M., Italia, divisa e diseguale. Regionalismo differenziato o secessione occulta?, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019. A pag. 25 del volume ora citato, l’autore così sintetizza impatto e prospettiva della revisione costituzionale: «La riforma si spinge molto avanti nel ridefinire il rapporto tra lo Stato e le Regioni. Allo Stato rimane una potestà legislativa esclusiva in un elenco non amplissimo di materie, mentre la potestà legislativa concorrente si gonfia a dismisura, e si crea una nuova categoria di potestà legislativa regionale residuale ed esclusiva. Si cancella il concetto di interesse nazionale, inviso ai regionalisti dell’epoca. Si cancellano i controlli preventivi sugli atti di regioni ed enti locali. Si prevedono livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali affidati alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, con ciò implicitamente introducendo in Costituzione il concetto di una diversità costituzionalmente compatibile, per quel che essenziale non è ed è pertanto rimesso alla legge di ciascuna regione. Per quanto in specie riguarda Nord e Sud, si elimina il richiamo al Mezzogiorno e le Isole contenuto del testo originario del 1948. Il cambiamento è profondo e non casuale, come dimostra il lungo percorso iniziato alla fine degli anni ‘80. E lo dimostra anche l’art. 116, con il richiamo a forme particolari e ulteriori di autonomia a richiesta, di cui forse al momento non si valuta appieno il potenziale impatto».
[2] In CAMPOBASSO G. F., Diritto Commerciale. 1. Diritto dell’impresa, CAMPOBASSO M. (a cura di), UTET Giuridica, Torino, 2012, p. 3 si afferma: «il diritto commerciale moderno è appunto quella parte del diritto privato che ha per oggetto e regola l’attività di impresa. È il diritto privato delle imprese, parte centrale del diritto privato dell’economia».
[3] Principio espresso dalla Corte Costituzionale nella sentenza del 5 febbraio 1992, n. 35: «Come questa Corte ha da tempo affermato (v. spec. sentt. nn.72 del 1965, 154 del 1972, 151 del 1974, 38 del 1977 e 691 del 1988), il limite del “diritto privato” si basa sull’esigenza che sia assicurata su tutto il territorio nazionale una uniformità di disciplina e di trattamento riguardo ai rapporti intercorrenti tra i soggetti privati, trattandosi di rapporti legati allo svolgimento delle libertà giuridicamente garantite ai predetti soggetti e al correlativo requisito costituzionale del godimento di tali libertà in condizioni di formale eguaglianza (artt. 2 e 3 della Costituzione). In ragione di tale base giustificativa, non v’è dubbio che, per quel che concerne i rapporti intersoggettivi attinenti alle società, le competenze legislative regionali non possono svolgersi in altro modo che nel senso di applicare ad essi le norme del cod più in generale, le norme che lo Stato detta per la disciplina dei relativi rapporti, salvi ovviamente i campi nei quali le stesse norme rinviano agli usi e alle consuetudini locali».
[4] In particolare, nella sentenza 24-26 marzo 1993, n. 115, la Consulta così si esprimeva relativamente alle nuove prescrizioni introdotte dalla già ricordata legge n. 59 del 1992: la Corte, rispetto alle nuove disposizioni relative alla base societaria, ai requisiti per il riconoscimento e l’iscrizione nei registri prefettizi, ai modi e alle forme di espressione della mutualità nella destinazione degli utili, affermava esplicitamente che «Si tratta di aspetti concernenti la disciplina delle figure soggettive, la struttura delle cooperative, la impostazione generale delle finalità mutualistiche, indipendentemente dai settori nei quali le cooperative operano e dalla disciplina delle materie che formano oggetto della loro attività, in ordine alle quali si esprimono competenze regionali, non idonee a toccare o ad assorbire la disciplina delle figure soggettive della cooperazione, affidate alla competenza statale».
[5] Nella sentenza 28 aprile 1992, n. 202, infatti la Corte così si esprimeva: «Considerate alla luce della ricordata definizione, le disposizioni impugnate possono essere interpretate in modo conforme alla ripartizione costituzionale delle competenze fra Stato e regioni. Infatti, dove prevedono l’emanazione, da parte delle regioni, di norme volte alla promozione, al sostegno e allo sviluppo della cooperazione sociale e pongono gli oneri conseguenti a carico delle ordinarie disponibilità finanziarie delle regioni medesime, esse si riferiscono alle attività di cooperazione sociale rientranti nei campi materiali affidati alle competenze regionali. Non è, pertanto, possibile considerare contrastanti con i parametri costituzionali invocati disposizioni di legge che, lungi dal perseguire fini di ampliamento della sfera di attribuzione delle regioni, addossano sulle ordinarie disponibilità finanziarie regionali gli oneri che deriveranno dalla futura adozione di misure di sostegno a favore della cooperazione sociale in relazione ad ambiti materiali già trasferiti o delegati alle competenze regionali».
[6] L’art. 9 della L. 8 novembre 1991, n. 381, “Disciplina delle cooperative sociali”, infatti così ha disciplinato: «1. Entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, le regioni emanano le norme di attuazione. A tal fine istituiscono l’albo regionale delle cooperative sociali e determinano le modalità di raccordo con l’attività dei servizi socio-sanitari, nonché con le attività di formazione professionale e di sviluppo della occupazione. 2. Le regioni adottano convenzioni-tipo per i rapporti tra le cooperative sociali e le amministrazioni pubbliche che operano nell’ambito della regione, prevedendo, in particolare, i requisiti di professionalità degli operatori e l’applicazione delle norme contrattuali vigenti. 3. Le regioni emanano altresì norme volte alla promozione, al sostegno e allo sviluppo della cooperazione sociale. Gli oneri derivanti dalle misure di sostegno disposte dalle regioni sono posti a carico delle ordinarie disponibilità delle regioni medesime».
[7] L’art. 5, comma uno, lettera b), della legge della Regione Umbria 11 aprile 2019, n. 2, “Disciplina delle cooperative di comunità” testualmente afferma tra le prerogative della stessa Regione in attuazione della legge regionale in esame: «disciplina le modalità di attuazione della co-programmazione, della co-progettazione e dell’accreditamento previste dall’ articolo 55 del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 (Codice del Terzo settore, a norma dell’ articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106 ) e le forme di coinvolgimento delle cooperative di comunità e adotta appositi schemi di convenzione-tipo che disciplinano i rapporti tra le cooperative di comunità e le stesse amministrazioni pubbliche operanti nell’ambito regionale»
[8] L’impresa sociale, a cui è ricondotta la forma comunitaria della cooperazione nelle tesi avanzate dalla Regione Umbria nel giudizio di legittimità di cui trattasi, è così definita dall’art. 1, comma uno, d. lgs. 3 luglio 2017, n. 112: «Possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutti gli enti privati, inclusi quelli costituiti nelle forme di cui al libro V del codice civile, che, in conformità  alle  disposizioni  del  presente decreto,  esercitano  in  via  stabile  e   principale   un’attività d’impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, adottando modalità di gestione  responsabili  e  trasparenti  e  favorendo  il  più  ampio coinvolgimento dei lavoratori,  degli  utenti  e  di  altri  soggetti interessati alle loro attività».
[9] Così la Consulta si esprime nella sentenza 131/2020, con utile approfondimento, in merito  ai caratteri di socialità e al legame con la mutualità che innerva la cooperazione ed al loro legame con le statuizioni dell’art. 118 Cost.: «Quest’ultima previsione, infatti, ha esplicitato nel testo costituzionale le implicazioni di sistema derivanti dal riconoscimento della “profonda socialità” che connota la persona umana (sentenza n. 228 del 2004) e della sua possibilità di realizzare una «azione positiva e responsabile» (sentenza n. 75 del 1992): fin da tempi molto risalenti, del resto, le relazioni di solidarietà sono state all’origine di una fitta rete di libera e autonoma mutualità che, ricollegandosi a diverse anime culturali della nostra tradizione, ha inciso profondamente sullo sviluppo sociale, culturale ed economico del nostro Paese. Prima ancora che venissero alla luce i sistemi pubblici di welfare, la creatività dei singoli si è espressa in una molteplicità di forme associative (società di mutuo soccorso, opere caritatevoli, monti di pietà, ecc.) che hanno quindi saputo garantire assistenza, solidarietà e istruzione a chi, nei momenti più difficili della nostra storia, rimaneva escluso».

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Dott. Francesco Valerio della Croce

Laureato in giurisprudenza nel 2018 alla LUISS "Guido Carli", è praticante avvocato presso lo Studio Legale Mauriello, sito in Roma. Nell'A.A. 2019/2020 è docente a contratto di Diritto dell'Unione Europea presso la Sapienza Università di Roma. Ha conseguito un Master di II livello nell'A.A. 2019/2020 presso l'Università degli Studi Roma Tre in "Impresa cooperativa: economia, diritto e management". Autore di pubblicazioni a carattere scientifico su riviste e siti nazionali ed internazionali

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