Sulla continuazione tra reati sanzionati con pene eterogenee: si attendono le Sezioni Unite
La IV sezione penale della Corte di Cassazione, con la recente pronuncia n. 16104 dell’11 aprile 2018, ha rimesso al Supremo Consesso di legittimità la soluzione della questione interpretativa concernente l’applicabilità della disciplina del reato continuato all’ipotesi di fattispecie delittuose punite con pene eterogenee; la risposta affermativa al quesito avrebbe aperto la strada alla soluzione della seconda questione interpretativa sollevata, concernente le modalità con le quali realizzare l’aumento di pena conseguente al riscontro del vincolo continuativo in riferimento alla fattispecie punita con la pena pecuniaria.
Preliminarmente, occorre chiarire che il reato continuato di cui all’art. 81 comma 2 cod.pen. si configura allorchè il soggetto realizzi una pluralità di azioni ed omissioni, accomunate dall’essere riconducibili nell’alveo di un unico disegno criminoso, realizzando anche in tempi diversi la violazione della stessa o di diverse disposizioni di legge. Dalla verifica circa la sussistenza di tali elementi il legislatore fa derivare l’applicabilità della disciplina sul concorso formale di reati di cui all’art. 81 comma 1 c.p., ai sensi del quale è applicabile la sola pena prevista per il reato più grave aumentata fino al triplo, piuttosto che tante pene quante sono le fattispecie delittuose riscontrate. La ratio sottesa alla modulazione meno afflittiva del trattamento sanzionatorio di tale ipotesi è rinvenibile nella diminuita rimproverabilità del contegno di chi compia più azioni determinandosi unitariamente a perseguire un singolo obiettivo criminoso, piuttosto che di chi compia più azioni od omissioni perseguendo obiettivi criminosi plurimi: la disposizione, pertanto, trova un diretto addentellato nel principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., non essendo ragionevole equiparare il trattamento sanzionatorio nei casi descritti; in secondo luogo, nel principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art 27 comma 1 Cost., sub specie di colpevolezza in relazione agli eventi effettivamente riconducibili alla deliberazione del reo.
Alla luce di quanto segnalato, risulta evidente la rilevanza applicativa della questione: infatti, la soluzione affermativa al quesito circa l’applicabilità della disciplina del reato continuato all’ipotesi di più fattispecie delittuose punite con pene eterogenee consentirebbe all’imputato di accedere ad un trattamento sanzionatorio meno afflittivo di quello cui sarebbe soggetto applicandosi disgiuntamente le due pene, quella detentiva e quella pecuniaria, salvo poi dover valutare le modalità con le quali applicare l’aumento di pena.
La questione analizzata nell’impianto normativo originario non avrebbe avuto ragione di porsi: infatti, la previsione secondo la quale la disciplina del reato continuato è applicabile anche a chi commetta più violazioni di diverse disposizioni di legge è il risultato della novella normativa del 1974; è da questo momento in poi, allora, che si è posta la questione oggi demandata alla soluzione del Supremo Consesso di legittimità.
In un primo momento,sul tema si è pronunciata la Corte Costituzionale, la quale ha negato la sussistenza del vincolo della continuazione, salvo poi ad ammetterlo successivamente, ma senza analizzare la questione della legittimità costituzionale della conversione della pena pecuniaria in pena detentiva ai fini della determinazione del trattamento sanzionatorio unitario, limitandosi a prescrivere la necessità della diminuzione di pena detentiva rispetto all’applicazione della disciplina del concorso materiale di reati.
Per quanto riguarda la giurisprudenza di legittimità, essa in un primo momento ha negato la configurabilità nel caso di specie del vincolo della continuazione, ritenendosi ostativo il principio posto dall’art. 1 c.p., secondo cui nessuno può essere punito con pene non previste dalla legge, violato allorchè si consentisse la conversione della pena pecuniaria in detentiva ai fini del calcolo sanzionatorio (Sez. Un. 12190 del 23/10/1976).
Successivamente, la giurisprudenza ha però mutato orientamento, ritenendo che altra è la questione della quantificazione del trattamento sanzionatorio in ipotesi di reato continuato, altra quella della applicazione dei benefici relativi in ipotesi di fattispecie caratterizzate dalla medesimezza del disegno criminoso e tuttavia sanzionate con pene eterogenee. In tale ottica, la pena pecuniaria, una volta riscontrata la sussistenza del vincolo della continuazione, perderebbe la propria autonomia venendo necessariamente assorbita all’interno dell’unico trattamento sanzionatorio previsto nel caso di specie, senza potersi riscontrare alcuna violazione dell’art. 1 c.p., allorchè l’addentellato normativo della pena applicabile è rinvenibile direttamente nell’art. 81 comma 2 c.p. ( Sez. Un 4901 del 1992).
Tale soluzione è stata rimessa recentemente in discussione dalla sentenza della sez. V, n. 46695 del 2016, che è tornata all’impostazione dell’inapplicabilità del vincolo della continuazione al caso di specie, in quanto lo stesso avrebbe comportato piuttosto che un beneficio in termini sanzionatori, un trattamento deteriore, legato alla conversione della pena pecuniaria in pena detentiva, in violazione del principio del favor rei cui l’intera disciplina del reato continuato risulta essere improntata. Questa impostazione si rifà a quell’orientamento interpretativo secondo il quale la natura giuridica del reato continuato è a geometrie variabili, ovvero è configurabile quale unico reato oppure pluralità di reati a seconda delle conseguenze sanzionatorie che ne derivino per il reo (ad esempio, in tema di cause estintive del reato, secondo la giurisprudenza sono valutabili autonomamente le singole fattispecie, dovendosene ritenere l’estinzione al ricorrere di una delle ipotesi descritte dalla legge) : sicchè, allorchè l’applicazione della disciplina di cui all’art. 81 c.p. determinasse un aggravamento della pena detentiva rispetto a quella applicabile allorchè venisse esclusa la sussistenza del vincolo, e la pena pecuniaria prevista per la fattispecie meno grave dovesse essere sostituita da una parte della pena detentiva complessiva, verrebbe cagionata una violazione del principio del favor rei incompatibile con la ratio dell’istituto.
Senonchè, come si evince dall’ordinanza remissiva in esame, l’orientamento attualmente invalso si pone in contrasto con quello consolidato esposto in precedenza, ragione che giustifica la richiesta di pronunciamento al Supremo Consesso di legittimità. Peraltro, si sottolinea come la necessità di preservare a taluni fini l’autonomia delle singole fattispecie criminose è stata fatta propria anche dal legislatore del 2005, allorchè con la legge 251 del 5 dicembre, ha ritenuto l’autonomia dei reati ai fini dell’individuazione del dies a quo della decorrenza del termine di prescrizione; essa è inoltre desumibile dalla lettera dell’art. 81 ultimo comma c.p., nel quale si fa riferimento esclusivamente all’aumento della “quantità” della pena piuttosto che della qualità; dall’art. 669 cod.proc.pen. che, in ipotesi di pluralità di sentenze per lo stesso fatto nei confronti della medesima persona, consente al giudice dell’esecuzione la conversione della pena detentiva in pena pecuniaria ma mai il contrario, sempre in un’ottica di favor rei; dall’art. 533 secondo comma c.p.p., che nella determinazione della pena complessivamente irrogabile impone al giudice di provvedere prima all’individuazione della pena per ciascun reato e poi a quella complessiva, consentendo implicitamente l’operazione meramente addizionale della pena pecuniaria a quella detentiva senza la necessità di incorporarla in un’unica pena interamente detentiva.
L’ordinanza sottolinea, altresì, i punti di attrito tra l’orientamento più risalente della continuità tra fattispecie punite con pene eterogenee e il dettato costituzionale, con particolare riferimento al diverso ed inferiore livello di tutela accordato ai beni patrimoniali incisi dall’applicazione di una pena pecuniaria rispetto alla libertà personale incisa dall’applicazione di una pena detentiva, in virtù del combinato disposto degli articoli 13 e 42 Cost.: risulterebbe contrastante con il dettato costituzionale, infatti, applicare la pena incisiva di beni giuridici di maggiore rilevanza piuttosto che quella incisiva di beni inferiori, a fronte di fattispecie la cui ratio è quella di favorire il condannato che abbia astrattamente commesso più fattispecie delittuose, per la peculiare condizione in cui versi.
Pertanto, si propone di applicare il vincolo della continuazione al caso di specie in modo peculiare: in primo luogo, determinando in astratto l’aumento di pena per il reato più grave; in secondo luogo, operando la conversione del quantum sanzionatorio così determinato, nei limiti della parte che eccede la pena prevista per il reato più grave, in pena pecuniaria, ai sensi dell’art. 135 c.p.p.; in tal modo, si consentirebbe da un lato la massima estensione del vincolo della continuazione, e dall’altro la salvaguardia del favor rei, che ne costituisce la ratio.
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Pietro Palumbo
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