Sull’abolizione del reato di abuso d’ufficio

Sull’abolizione del reato di abuso d’ufficio

di Michele Di Salvo

La Camera dei deputati, in data 10 luglio 2024, ha approvato il disegno di legge proposto dal Ministro Nordio, il cui testo si compone di 9 articoli e di un allegato relativo al ruolo organico della magistratura ordinaria.

L’art. 1 del disegno di legge Nordio (C 1718) abroga il reato di “abuso d’ufficio” previsto e punito dall’art. 323 del Codice penale secondo il quale:

«Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.»

La condotta delittuosa descritta dall’art. 323 c.p. consta di un’azione, relativa alla funzione o al servizio svolto, perpetrata in violazione di legge, oltre che nell’inosservanza di obblighi di astensione tipizzati dalla stessa fattispecie delittuosa o da altre fonti normative. La formulazione ampia della norma incriminatrice consente di ritenere oggetto del reato non solo i tipici provvedimenti amministrativi, bensì qualunque tipologia di atto (o attività) posta in essere dal funzionario.

Il reato si configura nel caso in cui un pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, nell’esercizio delle sue funzioni, produca un danno o un vantaggio patrimoniale in contrasto con le norme di legge. Trattasi, pertanto, di un reato proprio, in quanto soggetti attivi del reato sono solo il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio nello svolgimento delle loro funzioni o del loro servizio.

Nel rispetto del principio di determinatezza, tipico e indispensabile pilastro del diritto penale, il legislatore ha delineato i confini dell’abusività della condotta descritta nella fattispecie, consistente in 1) violazione di norme di legge o di regolamento, ove sono ricomprese anche le mere norme procedimentali, qualora atte a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale o un danno ingiusto; e 2) violazione dell’obbligo di astensione, qualora vi sa un obbligo giuridico di astensione in presenza di una situazione di conflitto di interessi.

L’abuso d’ufficio è un reato pluri-offensivo: il bene giuridico tutelato dalla norma è costituito dal buon andamento e dall’imparzialità della pubblica amministrazione, in uno alla trasparenza dell’azione amministrativa, ma anche dal patrimonio del terzo danneggiato dall’abuso del funzionario pubblico.

È un reato di evento, il cui disvalore penale si verifica al momento della effettiva realizzazione di un ingiusto vantaggio patrimoniale o di un danno ingiusto ad altri. Per la configurazione del delitto, infatti, la norma richiede l’avverarsi di due eventi alternativi: un ingiusto vantaggio patrimoniale, che il pubblico agente procura a sé o ad altri, oppure un danno ingiusto arrecato a qualcuno. È inoltre necessario che l’autore agisca con dolo intenzionale e, quindi, con la coscienza e la volontà della condotta e degli eventi previsti dalla fattispecie incriminatrice, con la conseguenza che il delitto non potrà configurarsi nei casi di dolo eventuale. Per quanto concerne il vantaggio patrimoniale, trattasi di qualsivoglia vantaggio suscettibile di valutazione economica; il danno ingiusto, invece, contempla sia il danno patrimoniale sia quello non patrimoniale. Infatti, mentre l’ingiusto vantaggio può essere soltanto patrimoniale, il danno per il terzo può consistere in qualunque ingiusta aggressione della sfera personale o patrimoniale del soggetto passivo.

È quindi richiesta la c.d. “doppia ingiustizia” del danno, nel senso che tanto la condotta in violazione di legge quanto il vantaggio patrimoniale conseguito debbono essere ingiusti.

Il reato di abuso d’ufficio è stato oggetto di varie riforme legislative. Nello specifico, la riforma del 1997, operata con la Legge n. 234/1997, ha prodotto due effetti sull’art. 323 c.p.: anzitutto, ha modificato il limite edittale ivi previsto per la pena – allora stabilita da sei mesi a tre anni, aumentata nel caso in cui il vantaggio o il danno abbiano un carattere di rilevante gravità, ed ha escluso la possibilità per il Pubblico Ministero di chiedere, nell’ambito delle indagini, intercettazioni telefoniche; in secondo luogo, mentre nella versione previgente era punito il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che avesse abusato del suo ufficio al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio, patrimoniale o non patrimoniale, o per arrecare ad altri un danno ingiusto, nella nuova previsione, veniva punito il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che intenzionalmente procurasse a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o intenzionalmente arrecasse un danno ingiusto. L’elemento soggettivo ora richiesto è il dolo intenzionale e non più il dolo specifico, quindi il reato non si configura nel caso di dolo eventuale, così determinando difficoltà probatorie di non poco momento. Inoltre, è stato espunto il vantaggio non patrimoniale: ai fini dell’integrabilità del reato, il vantaggio deve essere “patrimoniale”. Il limite edittale della pena è, poi, stato nuovamente oggetto di riforma con la Legge n. 190/2012, con un’estensione dei termini minimi da sei mesi a un anno e dei massimi da tre a quattro anni.

Altra modifica legislativa è intervenuta nell’anno 2020: l’art. 23 D.L. 16 luglio 2020, n. 76 ha mutato la disciplina del delitto di abuso di ufficio, con riferimento all’elemento oggettivo della fattispecie, riducendo l’area applicativa alla violazione di specifiche ed espresse regole di condotta cosicché da quel momento non sono più penalmente sanzionati i comportamenti in trasgressione di misure regolamentari, ma solo di “specifiche regole di condotta” previste da norma di rango primario (legge o atto avente forza di legge); ulteriore condizione per la realizzazione del delitto è che le regole di condotta violate non contemplino margini di discrezionalità in sede di applicazione. L’intervento legislativo ha, infatti, previsto la sostituzione delle parole “di norme di legge o di regolamento,” con le seguenti: “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

Il 10 luglio 2024, la Camera dei deputati ha approvato definitivamente il disegno di legge Nordio, abolendo il reato di “abuso d’ufficio” con una maggioranza compatta: il provvedimento è stato approvato con 199 sì, 102 contrari e nessun astenuto.

A seguito dell’abrogazione del reato previsto dall’art. 323 c.p., coloro che siano stati riconosciuti colpevoli del delitto di abuso d’ufficio potranno chiedere la revoca della loro condanna. L’abolizione di una fattispecie di reato, infatti, travolge anche le condanne passate in giudicato. Al riguardo, l’art. 673 c.p.p. (rubricato “Revoca della sentenza per abolizione del reato”) dispone che nel caso di abrogazione (o di dichiarazione di illegittimità costituzionale) della norma incriminatrice, il giudice dell’esecuzione revochi la sentenza di condanna o il decreto penale, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotti i provvedimenti conseguenti.

Nei confronti dei soggetti attualmente sottoposti ad un procedimento penale pendente per il fatto di reato di cui all’art. 323 c.p., potrà chiedersi l’emissione di sentenza di non doversi procedere perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.

In genere la restringere le fattispecie penali è sempre “una cosa buona”: ne beneficia l’amministrazione penale, che può concentrarsi su reati maggiori, è un indice di una società in buona salute civica, e soprattutto riduce il ricorso alla delega penale per la soluzione a problemi di altra natura.

Adesso però facciamo un passo indietro al testo dell’articolo 323 cp «Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.»

Se leggiamo la norma appare tuttavia evidente che quanto previsto è sacrosanto. In quale ordinamento “civile” le fattispecie di atti e fatti e violazioni indicate non è da considerarsi degno di tutela e sanzione?

In realtà la discussione sull’abolizione del reato in parola ha altre origini, che nulla hanno a che vedere con la cd. “paura della firma”, ovvero quell’atteggiamento presunto dell’amministratore pubblico che nel timore di incorrere nel reato di abuso, non compirebbe atti!

Il nodo è quello della sancita separazione tra funzioni di indirizzo politico – amministrativo spettanti agli organi di governo e funzione di gestione amministrativa proprie dei Dirigenti, necessaria per garantire il principio di buon andamento e di imparzialità dell’azione amministrativa.

In pratica l’ingerenza del “politico” sull’ “amministrazione” è in sé abuso d’ufficio e violazione di legge teso ad un altro – ulteriore – abuso d’ufficio. Attraverso l’abolizione del reato di cui al 323 c.p. in pratica si supera questa separazione.

Da questo ha origine questo voto a larghissima maggioranza, se vogliamo togliere la foglia di fico delle buone intenzioni. Tra queste presunte buone intenzioni anche le presunte molte denunce.

In proposito sarebbe bene ricordare che esistono vari argini in tal senso: l’esame prima facie per discriminare i casi di particolare tenuità del fatto, o la condotta che appare immediatamente non costituire reato, o finanche la nuova disciplina che impone l’archiviazione quando non appaia immediatamente raggiungibile una sentenza di colpevolezza. E così progredendo verso modifiche alla procedura per determinare un criterio probatorio specifico e dirimente.

Premesso quindi il testo di una norma che difficilmente appare pleonastico per uno stato di diritto, quella che è stata eliminata, di fatto, è una norma a tutela di chi è stato danneggiato o privato in un suo diritto, si è liberato il pubblico amministratore – che già oggi è libero nel proprio agire e praticamente mai risponde di un operato errato – anche solo dal rischio della denuncia, e si è liberato il politico da qualsiasi limitazione di ingerenza sulla sfera amministrativa. Ciò con l’ulteriore regalo a coloro che sono stati condannati in via definitiva per aver commesso abusi, e che oggi si vedono quasi premiati per una condotta che ha – se c’è stata una sentenza così è! – cagionato danni in violazione della legge e di regolamenti.

Si è agito insomma più o meno come se per eliminare il problema dei falsi invalidi (vere e proprie frodi) si eliminasse direttamente la pensione di invalidità, in uno assolvendo ex post chi ha protratto la frode. Oggettivamente il problema verrebbe risolto, ma ci si chiede a quale costo.

La legge, nessuna legge, è perfetta. E appare evidente che sin troppo spesso a emergere nel difetto sia la legge penale e quella amministrativa. Il vero rischio, per porre rimedio a questi difetti, è di nascondere dietro motivazioni apparenti interessi diversi.

La legge – soprattutto quella penale – non può essere il sostituto di misure di intervento sociale, così come l’abolizione di una fattispecie non può togliere diritti alle vittime, non può togliere strumenti di tutela né può determinare strumenti di ingerenza e di violazione maggiore, o al contempo prevedere aree di impunità oggettiva.

La legge è sempre un temperamento di interessi, e questo temperamento è mediazione e tecnica definitoria: il colpo di spugna – da sempre – mal si concilia con il diritto e con la tutela dei diritti.


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