Supplenze e algoritmi: un commento alla sentenza del Tribunale di Torino
di Michele Di Salvo
La sentenza del Tribunale di Torino, Sezione lavoro, 19 settembre 2024 che ha dichiarato non funzionante l’algoritmo per l’assegnazione delle supplenze, offre l’opportunità di riflettere sulla regolamentazione dei sistemi automatizzati, evidenziando la necessità di conciliare la protezione dei dati personali con un corretto utilizzo dell’intelligenza artificiale per garantire un impiego responsabile ed equo delle tecnologie.
La sentenza in commento ha messo in luce i rischi connessi all’utilizzo di algoritmi nei processi decisionali automatizzati. Nel caso specifico, un algoritmo utilizzato dal Ministero dell’Istruzione e del Merito (MIM) per l’assegnazione delle supplenze ha svantaggiato ingiustamente una docente, dimostrando come anche sistemi apparentemente neutrali possano nascondere bias impliciti e produrre effetti discriminatori.
L’algoritmo, basato su un’analisi dei punteggi e delle preferenze espresse dai docenti, ha assegnato alla ricorrente un contratto parziale, negandole la possibilità di ottenere una cattedra ad orario intero: invece di garantire equità nell’assegnazione degli incarichi scolastici, ha finito per penalizzare la docente, assegnando le ore residue a colleghi meno meritevoli e determinando una chiara violazione dei principi di imparzialità.
Il caso solleva interrogativi cruciali sulla trasparenza e l’affidabilità dei processi decisionali automatizzati e, comunque, dei sistemi di intelligenza artificiale che impattano in modo significativo sulla sfera giuridica degli interessati. Se da un lato questi sistemi offrono la possibilità di analizzare grandi quantità di dati in modo rapido ed efficiente, dall’altro pongono seri rischi per la privacy e l’equità, soprattutto quando le decisioni prese hanno un impatto diretto significativo sulla vita delle persone.
Il Regolamento UE sulla protezione dei dati personali n. 679 del 2016 (“GDPR”) e il recente Regolamento sull’intelligenza artificiale n. 1689 del 2024 (“IA Act”) stabiliscono una serie di requisiti che i processi decisionali automatizzati devono rispettare per garantire la tutela dei diritti degli individui. Tra questi, la trasparenza, l’accountability e la supervisione umana sono elementi fondamentali.
Sebbene il Tribunale si limiti a dichiarare il malfunzionamento dell’algoritmo senza approfondire le relative implicazioni in ambito privacy, l’accertato errore di assegnazione degli incarichi potrebbe essere sintomo di una possibile carenza dell’adeguamento dello stesso ai principi fondamentali di minimizzazione, esattezza e sicurezza dei dati, che devono essere rispettati in ogni trattamento di dati personali, inclusi quelli relativi ai processi decisionali automatizzati (come imposto dagli artt. 5 e 32 GDPR).
Il processo decisionale automatizzato dovrebbe invece rispettare elevati standard di protezione e che siano predisposti meccanismi di controllo adeguati a garantire l’integrità dei dati e prevenire violazioni suscettibili di compromettere la conformità normativa o esporre le informazioni personali a trattamenti illeciti. La protezione dei dati, nel contesto di selezioni automatizzate come quella in esame, non si limita al rispetto delle norme settoriali, ma costituisce un presupposto essenziale per consolidare la fiducia degli interessati e garantire il corretto funzionamento dei sistemi pubblici.
La vicenda solleva questioni, pertanto, non solo in termini di privacy ma anche e soprattutto in termini di potenziale pregiudizialità del processo automatizzato nei confronti degli interessati. Per “processo decisionale automatizzato” deve intendersi una decisione – con effetti giuridici vincolanti per una persona fisica – adottata da un algoritmo, spesso basato su intelligenza artificiale, senza intervento umano, mediante l’elaborazione di dati specifici.
Questi sistemi stanno progressivamente influenzando ambiti cruciali della vita quotidiana, come la selezione di candidati per posizioni lavorative o la concessione di finanziamenti (“credit scoring”); sostituendosi alle decisioni umane, le valutazioni algoritmiche richiedono un controllo rigoroso, soprattutto quando coinvolgono settori sensibili come l’istruzione, le carriere lavorative e gli avanzamenti professionali. Una serie di valutazioni algoritmiche si insinuano nella vita degli individui, finendo per sostituirsi alle decisioni dell’essere umano.
Il GDPR pone dei limiti stringenti all’utilizzo di questi processi che di fatto consentono di prendere decisioni impiegando mezzi tecnologici senza l’intervento di un soggetto umano. Ex art. 22 la norma stabilisce altresì un divieto generale dell’utilizzo di processi decisionali automatizzati al ricorrere di tre condizioni cumulative:1) che la decisione sia basata unicamente su trattamento automatizzato, compresa la profilazione; 2) che la decisione produca effetti giuridici; 3) che la decisione incida significativamente sulla persona fisica (CGUE 7/12/2023, C-634/2021).
Gli interessati i cui dati sono sottoposti a un processo decisionale automatizzato dovrebbero avere il diritto ad accedere a spiegazioni chiare e comprensibili riguardo al funzionamento dell’algoritmo e alle logiche che sottendono le decisioni prese da quest’ultimo. Questo principio di trasparenza è essenziale per garantire che i soggetti coinvolti possano comprendere come vengono trattati i loro dati e come vengono assunte le decisioni che li riguardano.
Il GDPR prevede veri e propri strumenti di tutela a garanzia degli individui, per evitare che il processo decisionale automatizzato impatti in modo pregiudizievole sui relativi diritti: il soggetto che svolge il processo decisionale automatizzato dovrebbe attuare misure appropriate per garantire all’interessato almeno il diritto di ottenere l’intervento umano nell’ambito del processo decisionale automatizzato, nonché di esprimere la propria opinione e di contestarne la decisione.
L’intervento umano è un aspetto fondamentale. Qualsiasi riesame dovrebbe essere effettuato da una persona che dispone dell’autorità e della competenza adeguate a modificare la decisione. Il responsabile di tale riesame dovrebbe effettuare una valutazione approfondita di tutti i dati pertinenti, comprese eventuali informazioni aggiuntive fornite dall’interessato.
Il considerando 71 del GDPR sottolinea che: “In ogni caso, tale trattamento dovrebbe essere subordinato a garanzie adeguate, che dovrebbero comprendere la specifica informazione all’interessato e il diritto di ottenere l’intervento umano, di esprimere la propria opinione, di ottenere una spiegazione della decisione conseguita dopo tale valutazione e di contestare la decisione”.
Diventa pertanto indispensabile la trasparenza del processo in quanto l’interessato sarà in grado di contestare una decisione o esprimere il proprio parere soltanto se messo nelle condizioni di comprendere pienamente come è stata presa la decisione.
Nel caso del Tribunale di Torino, è possibile ipotizzare che il malfunzionamento dell’algoritmo abbia compromesso non solo il diritto alla corretta attribuzione degli incarichi scolastici, ma anche il diritto alla trasparenza e alla comprensibilità del processo decisionale che li riguarda. Questi principi sono cruciali per garantire che i trattamenti automatizzati non solo rispettino la legge, ma siano anche percepiti come giusti e legittimi dagli interessati, prevenendo qualsiasi abuso o errore che possa danneggiarne i diritti.
Nell’ottica del principio di accountability, nell’implementazione di processi decisionali automatizzati, bisognerebbe garantire, infatti:
– trasparenza: gli interessati dovrebbero essere informati in modo chiaro e comprensibile sulle modalità di funzionamento del trattamento, incluse le logiche alla base dell’algoritmo;
– esattezza e minimizzazione: il trattamento dovrebbe essere accurato e limitato ai dati strettamente necessari. Gli errori di attribuzione evidenziati dalla sentenza suggeriscono possibili carenze nel rispetto di questi principi, con un impatto diretto sui diritti degli interessati;
– sicurezza: ai sensi dell’articolo 32, il sistema dovrebbe essere progettato per garantire l’integrità e la protezione dei dati personali, prevenendo violazioni e utilizzi non conformi.
La vicenda, infine, determina importanti spunti di riflessione anche in riferimento al più ampio contesto delle normative europee sull’intelligenza artificiale. L’algoritmo utilizzato dal MIM rientra senza dubbio nello spazio applicativo dell’IA Act; pertanto, avrebbe dovuto garantire:
– affidabilità e accuratezza: testando il sistema per garantire performance corrette e prive di errori sistematici, come quelli rilevati nel caso di specie;
– trasparenza e intellegibilità: è obbligatorio che gli algoritmi siano documentati e che le loro decisioni siano comprensibili, sia per i cittadini che per gli operatori pubblici;
– supervisione umana: le decisioni dell’algoritmo dovrebbero essere monitorate e validabili da parte di un soggetto umano, specialmente quando possono incidere sui diritti fondamentali delle persone coinvolte.
In altri termini, un sistema pienamente conforme alla regolamentazione applicabile in materia, avrebbe dovuto garantire accuratezza, coerenza e non discriminazione nelle sue decisioni che ne scaturiscono e che impattano sulla sfera giuridica dell’interessato.
Il sistema utilizzato dal MIM, invece, ha verosimilmente fallito questi requisiti fondamentali. L’errore nell’assegnazione degli incarichi può derivare da logiche decisionali inadeguate, nonché dall’assenza di una previa mancanza di verifiche e test e ha finito per compromettere il diritto dei docenti a una gestione equa e trasparente delle opportunità lavorative, con effetti significativi sul piano professionale.
È necessario, quindi, che ogni sistema basato sull’IA sia progettato e implementato seguendo un approccio che unisca trasparenza, responsabilità e protezione dei diritti individuali, rendendo la tecnologia un mezzo per promuovere l’equità e la giustizia, e non una fonte di nuove disuguaglianze o inefficienze.
Nel caso specifico la sentenza in commento appartiene all’ampio contenzioso relativo al personale precario delle scuole pubbliche di ogni ordine e grado. Utile preliminarmente qualche cenno sulla giurisdizione delle controversie anche per i casi, come questo, nei quali vengono in rilievo atti amministrativi a contenuto generale.
Accanto ai posti disponibili per le assunzioni in ruolo, la scuola, com’è noto, assume anche insegnanti con contratti di lavoro a termine, corrispondenti alle cd supplenze, e anche tale tipo di assunzione avviene attraverso graduatorie. Ciò posto, con specifico riferimento, dapprima, alle graduatorie ad esaurimento (cd. GAE), istituto analogo alle graduatorie provinciali per le supplenze (cd. GPS), e, successivamente, con riferimento a queste ultime, la giurisprudenza amministrativa ha sostenuto:
– in primo luogo, che il procedimento di formazione e modificazione delle graduatorie ad esaurimento non abbia natura concorsuale, con la conseguenza che non può affermarsi la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo;
– inoltre, che gli atti di gestione delle graduatorie stesse siano assunti con i poteri del datore di lavoro, cosicché, per individuare quale sia il giudice dotato di giurisdizione, occorre verificare se l’impugnazione abbia ad oggetto un atto particolare di gestione della graduatoria oppure un presupposto atto amministrativo generale, e, pertanto, se si verta in ipotesi di diritto soggettivi o interessi legittimi (Cons. Stato, Ad. plen., 12/7/2011, n. 11; T.A.R. Campania Salerno, Sez. I, 11/10/2019, n. 1732; T.A.R. Lazio Roma, Sez. III-bis, 30/10/2017 n. 10803; T.A.R. Piemonte, Sez. I, 8/9/2017, n. 1055; T.A.R. Calabria Reggio Calabria, Sez. I, 15/3/2017, n. 210; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. IV, 13/6/2014, n. 1564);
– che, in aggiunta, è estranea alla giurisdizione del giudice amministrativo, la fase successiva alla conclusione della procedura concorsuale, sicché rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la posizione del soggetto utilmente collocato in graduatoria che faccia valere il diritto all’assunzione e salvo che la controversia abbia ad oggetto l’alternativa tra lo scorrimento e l’indizione di un nuovo concorso che rientra sfera giurisdizionale del giudice amministrativo (T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III-bis, sent., 7/12/2021, n. 12631 e T.A.R. Campania, Napoli, Sez. IV, sent. 13/12/2022 n. 7763).
L’istituto della c.d. carta docente va inserito nel contesto del sistema della formazione degli insegnanti scolastici. L’art. 282 del D.Lgs. n. 297/1994 stabilisce, al comma 1, che “l’aggiornamento è un diritto-dovere fondamentale del personale ispettivo, direttivo e docente (…) inteso come adeguamento delle conoscenze allo sviluppo delle scienze per singole discipline e nelle connessioni interdisciplinari; come approfondimento della preparazione didattica; come partecipazione alla ricerca e alla innovazione didattico-pedagogica”.
Coerentemente, secondo l’art. 63 del CCNL Istruzione e Ricerca 2016-2018, “la formazione costituisce una leva strategica fondamentale per lo sviluppo professionale del personale, per il necessario sostegno agli obiettivi di cambiamento, per un’efficace politica di sviluppo delle risorse umane”. L’art. 64 del medesimo CCNL afferma poi che “la partecipazione ad attività di formazione e di aggiornamento costituisce un diritto per il personale in quanto funzionale alla piena realizzazione e allo sviluppo delle proprie professionalità”.
È indubbio che il diritto-dovere formativo proclamato e ribadito dalle norme citate riguardi non solo il personale di ruolo, ma anche i c.d. supplenti o precari, non essendovi nessuna distinzione in tal senso nella normativa citata. Il Consiglio di Stato, Sez. VII, 16/3/2022, n. 1842 è stato molto chiaro in tal senso, evidenziando l’esigenza di formazione dell’intero corpo docente, di ruolo e non, necessaria per l’erogazione del servizio scolastico.
La c.d carta docente è stata introdotta dall’art. 1 comma 121 della L. n. 107/2015 e va riferita precipuamente al piano formativo e di aggiornamento e non a quello delle dotazioni lavorative individuali in senso stretto. Secondo il dato testuale, da un lato, essa è destinata ai soli insegnanti di ruolo, manifestando un indirizzo legislativo che affonda le radici nella scelta di curare, attraverso quello strumento, la formazione ed aggiornamento del personale che rappresenta, proprio per il trattarsi di dipendenti a tempo indeterminato, la struttura di fondo attraverso cui viene fornito il servizio educativo.
Per altro verso, la taratura di quell’importo di 500 euro in una misura “annua” e per “anno scolastico” evidenzia la connessione temporale tra tale sostegno alla formazione e la didattica, calibrandolo in ragione di un tale periodo di durata di quest’ultima.
La destinazione della carta docente ai soli insegnanti di ruolo interseca, sul piano lavoristico, la tematica del divieto di discriminazione dei lavoratori a termine. La Corte di Giustizia 18 maggio 2022, sulla premessa che il beneficio della carta docenti attenga all’ambito delle “condizioni di impiego” (punti 35-38) ed escludendo che il solo fatto della durata dei rapporti possa costituire ragione obiettiva (punto 46), ha ritenuto che, in presenza di un «lavoro identico o simile» e quindi di comparabilità (punti 41-43), la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro allegato alla Direttiva 1999/70/CE ed il principio di non discriminazione ivi sancito ostino ad una normativa nazionale che riservi quel beneficio ai soli docenti a tempo indeterminato. Dunque, sono proprio le ragioni obiettive perseguite dal legislatore, sotto il profilo del sostegno alla didattica annua, a impedire che, quando si presenti il medesimo dato temporale, il beneficio formativo sia sottratto ai docenti precari. «Essi, infatti, allorquando svolgano una prestazione lavorativa pienamente comparabile, devono consequenzialmente ricevere analogo trattamento» (Cass. civ., Sez. lav, sent. 27/10/2023; n. 29961).
Il Tribunale di Torino, con la sentenza in commento, estende il principio anche al caso di incarichi annuali a orario non intero, del resto anche la Corte di cassazione aveva riconosciuto il beneficio ai docenti di ruolo con orario part time settimanale, che nelle sue varianti orizzontale (meno ore tutti i giorni) e verticale (lavoro solo su alcuni giorni) si tara sull’intero anno scolastico e dunque rientra nel concetto di didattica “annuale”.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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