Sviluppo e sostenibilità nell’ordinamento europeo e nazionale
Sviluppo e sostenibilità nell’ordinamento europeo e nazionale: attuazione, tutela della persona e bilanciamento con altri principi, nel diritto pubblico e privato.
Il diritto dell’UE menziona lo “sviluppo sostenibile”, per la prima volta, già nel 1992, con l’introdursi della necessità di avviare una crescita sostenibile dell’ambiente nonché una promozione di uno sviluppo economico e sociale sostenibile dei paesi in via di sviluppo.
Invero il trattato di Maastricht all’art. 2 fissava tra gli obiettivi principali della Comunità Europea l’intento di promuovere l’ambiente umano nel suo complesso tenendo conto, soprattutto, delle generazioni future e della responsabilità generazionale che deve necessariamente essere osservata nelle scelte per la salvaguardia ambientale.
Il criterio della sostenibilità dello sviluppo è stato poi, nuovamente, ripreso nel testo del trattato di Amsterdam del 1999 quale obiettivo dell’integrazione europea. Esso assurge da obiettivo interno al contesto comunitario ad intento collettivo comune a tutti gli Stati membri.
Attualmente appare pacifico affermare che il principio di sviluppo sostenibile rientri a pieno titolo negli obiettivi dell’Unione Europea. Invero esso è specificamente indicato quale principio comunitario nel preambolo del Trattato del funzionamento dell’Unione Europea, seppur non espressamente menzionato come criterio cardine in materia ambientale.
Di fatti l’articolo 3 del TFUE sancisce che: “L’Unione […] si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata […] su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente”.
A conferma di quanto innanzi detto al paragrafo 5 del medesimo articolo, si legge che: “Nelle relazioni con il resto del mondo l’Unione afferma e promuove i suoi valori e interessi, contribuendo alla protezione dei suoi cittadini. Contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti del minore, e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite”.
Il legislatore europeo, in altre parole, pone la sua attenzione sullo sviluppo sostenibile dell’Europa sui generis, ovvero, sia sotto il profilo delle problematiche ambientali che dei diritti e valori umani. Il diritto dell’Unione europea con riferimento allo “sviluppo sostenibile” intende la sfera sociale, ambientale ed economica.
Per completezza va, altresì, detto che il principio internazionale dello sviluppo sostenibile, nonostante la sua rilevanza, non è chiaramente descritto nella normativa europea; tanto è vero che il legislatore tacitamente rimette un certo grado di discrezionalità alle istituzioni europee attraverso la loro attività legislativa ed amministrativa.
La stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ben consapevole della complessità intrinseca del principio dello sviluppo sostenibile, tenta di colmare le lacune normative dettate dalla vaghezza del suindicato principio affermando che ciascuna istituzione può attribuire connotati e definizioni differenti in ordine alla realizzazione di obiettivi specifici. Da tali parole emerge chiaramente la complessità interpretativa del principio di sviluppo sostenibile legata ad una sfera applicativa particolarmente variegata.
A tal uopo, infatti, la posizione della giurisprudenza dell’Unione europea è stata considerata alquanto controversa, o meglio, poco attenta, non tanto all’attuazione ma, alle conseguenze derivanti dall’applicazione dello sviluppo sostenibile.
Il nucleo essenziale dello sviluppo sostenibile all’interno dell’UE si configura nella volontà di migliorare gli standards di vita dei cittadini europei, la protezione della natura e del patrimonio ambientale nonché rafforzare il progresso sociale ed economico europeo.
Sul punto, invece, il contesto italiano appare ben diverso. Il principio dello sviluppo sostenibile si configura come l’unico strumento per garantire contemporaneamente la protezione ambientale e gli interessi dei consociati. Invero la tutela dell’ambiente deve tendere allo sviluppo sostenibile della specie umana, dunque, lo sviluppo sostenibile si configura come dovere di solidarietà. Ben presto, ci si è resi conto che nell’adozione di scelte politiche compatibili con lo sviluppo sostenibile entrano in gioco una serie di interessi, primi fra tutti, la collettività, pertanto, fondamentale è il compito affidato al potere amministrativo.
L’amministrazione nell’esercizio delle sue funzioni, al fine di evitare decisioni arbitrarie, si pensi alle possibili ricadute dell’azione amministrativa, soggiace al corollario del principio di legalità ed ai criteri di efficacia, efficienza ed economicità. Innegabile è il ruolo centrale riconosciuto, in tema di attuazione dello sviluppo sostenibile, alla pubblica amministrazione sia a livello internazionale, o meglio europeo, che nazionale. Si pensi ad esempio alla normativa in materia di danno ambientale.
Il nodo cruciale è dettato dal compromesso di fronte al quale si è trovato il nostro legislatore, ovverosia, riconoscere un ruolo essenziale alla politica ed al contempo temere le scelte “arbitrarie e/o arbitrabili” di quest’ultima. La disciplina posta dal d.lgs. 152/2006 ha destato non poche perplessità, soprattutto, in ordine alla sua incerta formulazione letterale. Da qui nasce l’esigenza di ricercare un modello di interpretazione del principio quanto più pregnante possibile, tenendo conto, non solo degli interessi presenti, ma anche delle generazioni future.
Tale normativa, pur richiamando il carattere preminente dell’interesse ambientale e la valorizzazione del tema delle risorse non apporta elementi radicalmente innovativi rispetto a quelli ricavabili dall’ordinamento nel suo complesso. Invero il principio dello sviluppo sostenibile, al fine di trovare terreno fertile nell’ordinamento giuridico italiano, ricorre ad altri istituti e principi.
Appare necessario, a questo punto, chiedersi se i principi fondamentali dell’azione amministrativa, tra gli altri, la precauzione, l’efficacia, l’efficienza, l’economicità, l’imparzialità ed il buon andamento siano da soli sufficienti ad un’adeguata attuazione dello sviluppo sostenibile. Nel contesto giuridico italiano lo sviluppo sostenibile, secondo un’accezione più complessa ed articolata, è intento a realizzare un equilibrio tra ambiente e sviluppo della società. Pacifico, dunque, appare il binomio inscindibile tra lo sviluppo sostenibile e l’ambiente. Esso, però, non va letto come semplice protezione dell’ambiente ex se (sia dalle catastrofi naturali che dalle possibili aggressioni dell’uomo); piuttosto come protezione dell’intera specie umana sia delle generazioni presenti che future.
Lo sviluppo sostenibile, dunque, non esclude la protezione delle risorse ambientali anche in chiave di conservazione e di sostenibilità. Il concetto di sviluppo sostenibile, pertanto, va tradotto come valore aggiuntivo riconducibile ad una serie di campi di applicazione, tra gli altri, l’ambiente, la protezione civile e la protezione della salute umana.
È un criterio dalle sfumature rivoluzionarie e futuristiche, che pone la sua attenzione sulla semplice proiezione del diritto verso il futuro, giacché presuppone una sorta di consapevolezza dei nostri limiti umani e dell’enorme responsabilità circa l’utilizzo dell’ambiente e delle sue risorse nei confronti delle generazioni future. Detta in altri termini lo sviluppo sostenibile introduce, al contempo, un legame tra le generazioni presenti e future ed un limite all’utilizzo frenetico delle risorse naturali.
Lo sviluppo sostenibile trova riconoscimento costituzionale nell’art. 2 Cost., il quale rileva come valore assoluto il rispetto della dignità umana, della solidarietà e sussidiarietà in chiave di ragionevolezza e di precauzione tenendo conto degli interessi delle generazioni presenti e future.
Tale principio va letto in combinato disposto con altre disposizioni costituzionali, ovvero, l’art. 97 della Cost. per l’individuazione dei criteri di scelta dell’azione amministrativa nonché l’art. 117 Cost. (come modificato dalla L. cost. n. 3/2001) con riferimento ai vincoli derivanti dal diritto dell’Unione europea. La rilevanza del principio dello sviluppo sostenibile e la sua capacità di garantire l’equità inter e intra generazionale presuppone una necessaria rivalutazione dell’ordinamento giuridico.
Il sistema giuridico in materia ambientale risulta particolarmente complesso e variegato anche per la progressiva introduzione di fonti “soft law” sul piano del diritto internazionale, e di norme nazionali settoriali tecniche. In ordine al profilo civilistico, che si ritiene di voler approfondire, la pluralità degli interessi in gioco impone una revisione concettuale tradizionalmente intesa sia del diritto di proprietà che del contratto.
Invero l’impostazione classica del diritto di proprietà prende le mosse dal potere di disposizione finalizzato alla circolazione del bene, e non al profilo della gestione e del godimento della res. Il modello dominicale risulta del tutto incapace di fornire le necessarie risposte. Il diritto di proprietà prende in considerazione il solo potere di disposizione riconosciuto al dominus, con conseguente circolazione del bene. Il proprietario diviene titolare del bene in maniera piena ed assoluta sia come diritto di disporre della res che come diritto di escludere tutti gli altri dal godimento del bene stesso. La proprietà, tradizionalmente intesa, sembra non dare spazio alle forme di proprietà collettiva, o meglio, non tener conto dei c.d. beni comuni, ovvero, res che coinvolgono necessariamente una pluralità di interessi giuridicamente rilevanti e meritevoli di tutela.
Soltanto con la nuova teoria dei beni comuni il diritto civile pone la sua attenzione ad una nuova tipologia di rapporto tra individuo e bene valorizzando, stavolta, i diritti della persona (come la salute e la salvaguardia dell’ambiente), della solidarietà sociale, in chiave non patrimoniale. Discorso analogo può essere fatto per il contratto che, storicamente, svolge come funzione principale quella di scambio, o meglio di circolazione dei beni e/o dei diritti.
Come già innanzi precisato le nuove esigenze della collettività impongono un cambiamento di rotta, stavolta legato al profilo della gestione e/o godimento delle risorse, e non più al mero scambio, anche nell’interesse delle generazioni future. Ciò, indubbiamente, comporta un necessario superamento del diritto civile tradizionale. Invero il contratto diviene lo strumento diretto che, mira, non solo a regolare gli interessi contrapposti delle parti, quanto piuttosto a disciplinare una pluralità di interessi convergenti tra loro. Il fine ultimo del contratto cosiddetto “ecologico” è diretto alla gestione razionale e responsabile delle risorse per garantire il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali e future. Esso si traduce, dunque, in una forma di cooperazione tra i consociati che realizza il progetto costituzionale della solidarietà sociale rappresentando essa stessa l’essenza vera del contratto.
Tale contratto prevede come causa concreta una funzione economico- ambientale che valuti al contempo le esigenze di mercato e quelle ambientali.
Questa nuova concezione civilistica in chiave di sviluppo sostenibile fa venir meno l’idea, oramai obsoleta, di assoluta inconciliabilità tra lo sviluppo economico e la protezione dell’ecosistema. Esso, infatti, rappresenta terreno fertile per mettere in gioco interessi patrimoniali e non patrimoniali, sempre nel rispetto del pieno sviluppo della persona umana. Non può dirsi diversamente giacché, come previsto dal codice del diritto ambientale, ogni attività umana, pubblica o privata “…deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile”.
Detta in altri termini la nozione classica di contratto risulta, così, insufficiente se non opportunamente integrata dai principi di solidarietà, sussidiarietà e sostenibilità. Il diritto civile, oggi, per essere definito “sostenibile” deve tendere ad orientare e conformare il comportamento degli operatori pubblici e privati nel rispetto dell’interesse ambientale e della vita salubre.
Tuttavia la nuova concezione del contratto “ecologico” ha destato non poche perplessità in ordine al principio di relatività secondo cui “il contratto produce effetti soltanto tra le parti” (ex art. 1372 del codice civile). Esso, infatti, non produce effetti appropriativi, come di regola vale per un qualsiasi tipo di contratto, ma coinvolge tutti i soggetti, anche terzi, interessati alla fruizione e al godimento di beni comuni. Il contratto che ha ad oggetto un bene comune svolge, dunque, una funzione di regolazione ed attuazione di interessi generali in chiave di sussidiarietà c.d. orizzontale.
Ciò vuol dire che, non soltanto avrà valore di legge tra le parti contrattuali, ma per i soggetti terzi – qualora portatori dei medesimi interessi comuni – saranno destinatari non soltanto dei vantaggi ma di vere e proprie regole di comportamento. Tale contratto, stante la sua particolare struttura, spiegherà i suoi effetti in una dimensione dinamica ed intergenerazionale, pertanto, sarà valido anche per tutti coloro che, anche in un momento successivo alla stipulazione, entrano in contatto con il bene comune. Il contratto ecologico, dunque, è qualificabile come contratto sostenibile ad efficacia esterna, che mira a realizzare i diritti fondamentali della persona umana in chiave di giustizia sociale.
In conclusione appare opportuno e necessario una rilettura degli istituti civilistici, in primis proprietà e contratto, alla luce dei nuovi obiettivi normativi imposti sempre nel rispetto tra individuo ed ambiente circostante.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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