T.S.O., un istituto complesso

T.S.O., un istituto complesso

Sommario: 1. Origine – 2. Presupposti per l’applicazione e procedura – 3. Diritti del soggetto e ipotesi di limitazione impropria della libertà personale: il punto della giurisprudenza

 

1. Origine

Noto con il suo acronimo, il “trattamento sanitario obbligatorio” (normato nell’art. 33 della legge del 23 dicembre 1978 n. 833 «Norme per gli accertamenti e i trattamenti sanitari volontari e obbligatori», in sostituzione della precedente legge n. 180 del 13 maggio dello stesso anno, la c.d. “Legge Basaglia”) si inserisce tra gli strumenti di assistenza, prevenzione e tutela in ambito legal-sanitario. L’obbligatorietà del trattamento sanitario trova copertura costituzionale nell’ art. 32 che, nel suo secondo comma, dopo aver chiarito che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario…”(specificando la volontarietà dei trattamenti sanitari), pone delle limitazioni a questa libertà di “autodeterminazione sanitaria” aggiungendo “…se non nei limiti di legge”. Legge, peraltro, “che non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Il fondamento nella legge, quale presupposto imprescindibile alla limitazione della libertà garantita ad ogni individuo, risulta una specificazione necessaria e tutt’altro che scontata: solo la legge può, ricorrendone tutte le condizioni, comprimere la libertà dell’individuo nella misura in cui ciò risulti necessario per tutelare l’interesse superiore rappresentato dalla salute del singolo, compromessa da una patologia (spesso di natura psichiatrica) tale da inficiare le sue capacità cognitive e di autodeterminazione. L’attuale disciplina è mutuata dalla precedente normativa del 1904 riguardante il ricovero coatto del soggetto (l. n. 36/1904 nota come “Legge Giolitti”) chiaramente finalizzato alla difesa sociale dal soggetto “pericoloso per sé e per gli altri e/o da un comportamento tale da determinare pubblico scandalo”. Pertanto, la pericolosità sociale e il pubblico scandalo si ponevano quali componenti necessarie a giustificare il ricovero dell’individuo senza particolari o ulteriori determinazioni in ordine alla effettiva realtà clinica del degente.

Il T.S.O. psichiatrico, invece, si pone quale strumento destinato e finalizzato alla tutela della salute e della sicurezza del paziente affetto da patologia invalidante: l’accertamento della gravità clinica e l’urgenza dell’intervento costituiscono il baluardo ad una applicazione indiscriminata, venendo meno l’elemento della “pericolosità per sé e per gli altri”, espressione nota al grande pubblico e ancora oggi impropriamente ricorrente.

2. Presupposti per l’applicazione e procedura

La legge regola e disciplina i presupposti alla presenza dei quali si ricorre al T.S.O. ospedaliero: necessità di trattamenti sanitari urgenti, anche di natura non psichiatrica; il rifiuto del trattamento da parte del soggetto interessato, che ne determina appunto la natura obbligatoria; l’impossibilità, per ragioni di urgenza e necessità, di provvedere ad attuare adeguate misure extraospedaliere.

Il T.S.O. viene disposto con provvedimento del sindaco presso il quale si trova il paziente al momento dell’intervento, previa proposta motivata di due medici, uno dei quali appartenente alla ASL territoriale del comune. Oltre a tali adempimenti, si procede alla convalida del provvedimento del sindaco da parte del giudice tutelare competente. Il ricovero avviene prevalentemente presso struttura ospedaliera (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, i SPDC, per soggetti affetti da patologie psichiatriche), ma è prevista altresì la possibilità di un ricovero presso l’abitazione o altra sede adeguata, ove non ricorra l’ipotesi dell’urgenza (come da Conferenza delle regioni e delle province autonome dell’aprile 2009).

Il ricovero obbligatorio, che deve svolgersi nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, su volontà del paziente interessato può trasformarsi in qualsiasi fase in ricovero volontario (T.S.V.), garantendo al soggetto la possibilità di scelta di luogo di cura e medico curante.

Il trattamento presenta una durata massima di sette giorni, ma è prorogabile più volte, in caso di necessità, con richiesta da parte del sanitario che ha in cura il soggetto indirizzata al sindaco del comune che ha firmato l’ordinanza (art. 3, l. n. 180/1978).

3. Diritti del soggetto e ipotesi di limitazione impropria della libertà personale: il punto della giurisprudenza

La limitazione della libertà personale che consegue all’applicazione della misura obbligatoria determina una serie di effetti sul piano empirico e giuridico. Il soggetto, privato della possibilità di autodeterminarsi in ordine alla sottoposizione ad un trattamento sanitario, oltre a non avere di fatto una volontà di scelta, è privato altresì della libertà motoria. L’obbligatorietà del trattamento, sia pure per le ragioni anzidette, comporta uno stato di “passività” per l’individuo. Ciò, tuttavia, non può determinare il venir meno di una serie di diritti inalienabili, tra i quali rientrano:

– diritto di difesa attraverso la possibilità di fare ricorso avverso il provvedimento del sindaco che dispone il T.S.O. Tale diritto viene esteso a chiunque, secondo quei principi di solidarietà cui è ispirato il nostro ordinamento. La richiesta di revoca può anche essere rivolta al giudice tutelare e/o al Tribunale competente;

– il consenso informato sui trattamenti a cui il soggetto verrà sottoposto (che devono essere indicati nella cartella clinica) e le possibili alternative;

– la contenzione fisica ha natura eccezionale e non può superare il limite temporale del periodo necessario alla somministrazione del trattamento (art. 1 legge supra: “La tutela fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e libertà della persona”): il comportamento ingiustificatamente violento, verbalmente o fisicamente, degli operatori nei confronti del paziente costituisce reato;

– libertà di comunicazione con chiunque, anche telefonicamente, senza limitazione alcuna;

– libertà di uscire liberamente dalla struttura terminato il periodo di T.S.O., senza necessità di autorizzazione, assenso altrui o altro tipo di vigilanza (in caso contrario il comportamento può essere configurato come sequestro di persona);

– informazione in ordine ai nominativi e alle qualifiche professionali degli operatori che lavorano presso la struttura e/o reparto in cui il soggetto è ricoverato.

I diritti indicati rappresentano un baluardo giuridico a qualsiasi forma indiscriminata di prevaricazione o abuso. Nelle ipotesi di limitazione (o, in alcuni casi, esclusione) impropria della libertà personale, ossia quando viene violata quella “inviolabilità” della libertà come concepita dall’art. 13 della nostra Costituzione, il soggetto può sempre agire in giudizio per vedersi riconoscere il risarcimento del danno patrimoniale patito derivato dall’esecuzione del provvedimento, nei confronti del sindaco che ha emesso il provvedimento e, solidalmente, nei confronti del Ministero dell’Interno: il T.S.O., pertanto, non può mai lecitamente applicarsi oltre i confini determinati dalla legge. La coercizione rappresenta extrema ratio a fronte di un comportamento le cui esternazioni siano in grado di minacciare l’ordine pubblico, la vita del soggetto o di terzi. Il trattamento obbligatorio deve pertanto trovare fondamento e giustificazione in comportamenti che configurano lo stato di necessità così come descritto dall’art. 54 c.p. (Corte Cass. S.U., 5 dicembre 1987 n. 9096).

Nonostante la legislazione puntuale, non si possono ignorare alcune criticità e storture nell’applicazione dell’istituto in oggetto, proprio a salvaguardia dell’individuo. Tra i punti controversi si pone l’attenzione sulla stigmatizzazione sociale subita dal soggetto sottoposto al trattamento, alle inevitabili ricadute psicologiche, anche sul piano lavorativo: non di rado il T.S.O., lungi dall’essere avvertito come uno strumento di tutela, si pone quale “marchio” ghettizzante rispetto a situazioni che potrebbero e dovrebbero essere trattate ricorrendo a strumenti differenti. Inoltre, come già tristemente avvenuto, la coercizione rischia di determinare conseguenze nefaste come la morte accidentale del soggetto o il suicidio. Occorre, pertanto, non trascurare, anche in una eventuale prospettiva di riforma dell’istituto, situazioni e valutazioni che condizionano la vita del soggetto soprattutto a seguito del trattamento.


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