Tecniche di anticipazione della tutela penale: dalle tradizionali alla più recente, introdotta in materia di lotta al terrorismo internazionale

Tecniche di anticipazione della tutela penale: dalle tradizionali alla più recente, introdotta in materia di lotta al terrorismo internazionale

Sommario: 1. Inquadramento della problematica: i rapporti tra le tecniche di anticipazione della tutela penale ed il rispetto dei principi di offensività e materialità – 2. Le principali tecniche di anticipazione della soglia della tutela penale – 2.1. Gli atti preparatori, il tentativo di reato e i delitti di attentato – 2.2. Le associazioni per delinquere con finalità criminale – 3. Nuova tecnica di anticipazione della tutela penale

1. Inquadramento della problematica: i rapporti tra le tecniche di anticipazione della tutela penale ed il rispetto dei principi di offensività e materialità

L’esigenza di tutela e di prevenzione di fenomeni di particolare gravità ed allarme sociale ha indotto il Legislatore, soprattutto alla luce dei gravi avvenimenti connotati da finalità terroristiche che hanno caratterizzato tutta l’Europa e non solo, a porre in essere una serie di interventi volti ad anticipare la soglia della tutela penale.

Occorre, tuttavia, evitare il rischio che siffatti interventi possano dare luogo ad un diritto penale scollegato dal verificarsi di un fatto materiale ed offensivo, e che finiscano in qualche modo per punire la mera intenzione malvagia in quanto tale.

Risulta, allora, di estrema importanza trovare un punto di equilibrio tra la fisiologica esigenza di prevenzione di certi gravi fenomeni, specie di stampo terroristico, e la necessità che siano rispettati i principi costituzionali in materia di diritto penale, primi fra tutti quelli di offensività e di materialità.

2. Le principali tecniche di anticipazione della soglia della tutela penale

Preliminarmente, occorre analizzare quelli che sono stati i tradizionali strumenti che il legislatore ha utilizzato, nel tempo, per anticipare la soglia della tutela penale, così da verificare in che modo si è ritenuto che i medesimi potessero conciliarsi con i principi di offensività e di materialità.

A tal riguardo, vanno menzionate le fattispecie che si incentrano sulla c.d. punibilità degli atti preparatori, nonché quelle che puniscono le associazioni con finalità criminale.

L’atto preparatorio, da un lato, si colloca nella fase che precede propriamente l’inizio dell’esecuzione di una condotta dannosa, e viene punito, in deroga alla disciplina del tentativo di reato, al fine di prevenire il compimento dell’atto finale.

La fattispecie associativa, dall’altro lato, persegue proprio il fatto di associarsi allo scopo di commettere determinati reati, e mira a scongiurare l’attuazione del programma criminoso che l’associazione persegue.

Come è evidente, sia gli atti preparatori che le fattispecie associative rispondono ad un’esigenza di anticipazione della tutela penale, ragion per la quale la dottrina si è sforzata nel trovare una sorta di “perno” intorno al quale fare ruotare tali istituti nel rispetto dei principi di offensività e di materialità.

2.1. Gli atti preparatori, il tentativo di reato e i delitti di attentato

Il Legislatore, nei casi in cui ha previsto la punibilità degli atti preparatori, lo ha fatto in deroga alla disciplina del tentativo di cui all’art. 56 c.p.

Il delitto tentato si configura quando l’agente non riesce a portare a compimento il delitto programmato, ma gli atti parzialmente realizzati sono idonei ad esteriorizzarne l’intenzione criminosa.

La ratio dell’incriminazione di attività che comunque precedono la commissione di un delitto consumato risponde alla necessità di arretrare la soglia della rilevanza penale, così da consentire alle forze di polizia di intervenire quando sussiste la seria prospettiva di una condanna, ma, nondimeno, la lesione al bene giuridico tutelato non è ancora giunta a perfezione.

La questione più problematica che si pone in materia di tentativo è quella relativa alla individuazione dell’inizio della attività punibile.

Sotto la vigenza del previgente codice, facendosi leva sull’espressione “inizio di esecuzione”, si distingueva tra: atti preparatori non punibili, di programmazione dell’attività delittuosa, ed atti esecutivi, con cui si realizza almeno un frammento della condotta tipica descritta dalla norma incriminatrice (così, nella rapina, devono almeno essere compiuti gli estremi della violenza o della minaccia, altrimenti si è in presenza di un atto preparatorio non punibile).

Tale criterio, tuttavia, era stato criticato per le seguenti ragioni.

Anzitutto, lo stesso finiva per restringere eccessivamente l’ambito di punibilità del tentativo, dal momento che consentiva di conferire rilevanza penale solo al tentativo compiuto, in cui l’azione è realizzata ma non si è verificato l’evento (ad esempio, il soggetto ha sparato, ma non ha colpito la vittima).

Sarebbe, dunque, rimasto impunito il tentativo incompiuto, rispetto al quale, sebbene l’azione non è stata compiuta, comunque il bene giuridico ha corso un pericolo concreto (ad esempio, il soggetto, mentre stava prendendo la mira per sparare, è stato bloccato dalla polizia appena prima di premere il grilletto).

In secondo luogo, il criterio in esame si rivelava inidoneo con riferimento ai cc.dd. reati a forma libera causalmente orientati, ove l’unico elemento che tipizza il fatto è la causalità, e quindi non era affatto agevole individuare quando aveva inizio l’azione tipica.

Rispetto ai medesimi si poneva poi il rischio di non ritenere inizio di esecuzione tutto ciò che non apparteneva alla tipicità, che, in questo caso, coincideva con l’attivazione del decorso causale.

Così, ad esempio, si sarebbe dovuto affermare che il tentato omicidio presuppone che il soggetto avesse sparato, ma non colpito la vittima, il che non sarebbe però accettabile, perché si sposterebbe troppo in avanti la soglia della punibilità in spregio alle esigenze di deterrenza e di effettività della tutela dei beni giuridici.

Proprio le difficoltà applicative emerse nella prassi nel distinguere tra atti preparatori ed atti esecutivi hanno spinto il Legislatore del ’30 ad abbandonare l’espressione “inizio di esecuzione” ed a introdurre il criterio dell’idoneità ed univocità degli atti.

L’idoneità presuppone che gli atti tipici del tentativo posti in essere, alla luce di un giudizio di prognosi postuma, ex ante ed in concreto, abbiano una effettiva potenzialità lesiva, integrando in concreto un pericolo per il bene giuridico tutelato dalla norma.

Il requisito dell’univocità degli atti è più problematico da definire, specie in merito all’individuazione della sua esattanatura.

Secondo una prima tesi c.d. soggettiva tale elemento si risolverebbe nella semplice necessità che risulti certa l’intenzione dell’agente di commettere il corrispondente delitto consumato.

In tale ottica, siffatta prova potrebbe anche non essere raggiunta attraverso l’atto in sé, ben potendo essere desunta o ricostruita aliunde, dalla lettura di uno qualsiasi degli elementi di fatto, dai precedenti, dalla personalità del reo, e così via.

Ad esempio, l’ingresso furtivo in un’abitazione non è, senz’altro, un atto in sé e per sé univoco, giacché lo stesso può essere compiuto per varie finalità, quali omicidio, furto, violenza sessuale. Tuttavia, lo stesso atto diventerebbe “diretto in modo non equivoco” al compimento di uno di questi delitti, se qualsiasi altro elemento, diverso dall’atto in sé considerato, consentisse di raggiungere la prova della reale intenzione dell’agente.

A questa opinione ha ribattuto la prevalente tesi c.d. oggettiva, secondo cui, risolvendosi l’art. 56 c.p. in una figura del tutto autonoma di delitto, la necessità di provare la sussistenza di una volontà criminosa in capo al soggetto attivo del reato discende dalle regole generali in tema di elemento soggettivo.

L’univocità degli atti, pertanto, deve essere sempre autonomamente provata, risolvendosi in un requisito strutturale essenziale di fattispecie, in virtù del quale un atto potrebbe essere punito soltanto allorché riveli in sé il proposito criminoso perseguito dall’agente.

Si pone, a questo punto, il problema di stabilire a quali condizioni un atto sia in grado di “parlare da sé”.

Secondo impostazione unanime della dottrina, risulta assolutamente indispensabile accertare se gli atti, considerati nella loro oggettività, riflettano in maniera sufficientemente congrua la direzione verso il fine criminoso (eventualmente) già accertato per altra via.

Così, ad esempio, la circostanza che un soggetto compia ogni giorno il giro intorno ad una specifica banca non è di per sé idonea a denotare oggettivamente la sua intenzione di effettuare una rapina, giacché costui potrebbe semplicemente voler fare una passeggiata.

Se, però, il medesimo porta con sé delle armi ed alcuni strumenti volti al travisamento della persona, allora si può facilmente intuire che sta per realizzare una rapina, denotando siffatta condotta oggettivamente un proposito criminoso.

Di regola, la capacità di parlare da sé si ravvisa maggiormente nelle ipotesi in cui il soggetto ha posto in essere esclusivamente degli atti pre-tipici, che cioè precedono l’inizio della condotta tipica, i quali, per il grado di sviluppo raggiunto, lasciano prevedere come verosimile il compimento del delitto.

Quindi, il fatto che, il giorno della rapina, il soggetto sia uscito dalla macchina priva di targa e si sia diretto verso la banca, in linea teorica, non costituisce ancora inizio di esecuzione, perché mancano i frammenti della condotta tipica. Tuttavia, esso è dimostrativo della circostanza che è imminente il passaggio alla fase esecutiva del reato di rapina.

Come è evidente, allora, la distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi, sebbene sia fuoriuscita dalla porta, è rientrata dalla finestra, posto che, non di rado, ai fini della configurabilità del tentativo, si considera che la condotta è univocamente diretta ed idonea quando si pone in uno stato talmente avanzato da aver superato la fase preparatoria, o da averla quasi terminata, o quantomeno da lasciare presagire l’imminente passaggio alla fase esecutiva.

Va, ad ogni modo, precisato che se è vero che l’art. 56 c.p. consente di incriminare condotte che non sono ancora inizio di esecuzione ma che segnano l’imminente inizio di esecuzione, è altresì innegabile che tale disposizione non consente di punire gli atti meramente preparatori.

Ciò, però, non significa che il Legislatore non possa anticipare la soglia di tutela penale, allorquando vengano in gioco interessi di particolare rilievo.

Tale operazione è assolutamente ammissibile, purché, come prima precisato, siano rispettati i principi di materialità ed offensività.

A conferma di quanto detto, si può prendere come riferimento la disciplina dei delitti di attentato, che strutturalmente richiamano il tentativo.

Molto spesso, infatti, nel punire i delitti di attentato, il legislatore ha fatto riferimento a fatti che sono univocamente diretti a commettere gravi eventi, lesivi di interessi fondamentali, che attengono alla personalità interna o internazionale dello Stato.

In tali casi, sono state elevate ad autonome fattispecie delittuose delle condotte strutturalmente analoghe al tentativo, che quindi avrebbero già potuto essere perseguite ai sensi dell’art. 56 c.p.

La ratio di ciò si ravvisa nel fatto che, anzitutto, l’attentato è spesso rivolto ad eventi di cui il Legislatore non concepisce la realizzazione, perché la loro consumazione determinerebbe la distruzione dello Stato di diritto.

In secondo luogo, venendo in gioco interessi fondamentali per lo Stato, si avverte la necessità di punire queste fattispecie di reato con una pena più severa (quale è l’ergastolo) rispetto a quella che deriverebbe dall’art. 56 c.p.

Ebbene, il legislatore, rispetto ai delitti di attentato, ha espressamente previsto la punibilità degli atti preparatori, con delle norme ad hoc, ossia l’art. 302 c.p. (istigazione a commettere alcuno dei delitti preveduti dai capi I e II tra i quali rientrano i delitti di attentato), l’art. 304 c.p. (cospirazione politica conclusa mediante accordo), e l’art. 305 c.p. (cospirazione politica mediante associazione).

È evidente che la circostanza che il legislatore abbia avvertito la necessità di punire, con delle norme specifiche, l’istigazione, l’accordo e l’associazione finalizzati a commettere i delitti di attentato, dimostra che, in mancanza di tali disposizioni, siffatte condotte preparatorie non sarebbero penalmente rilevanti.

Ed allora, dall’esistenza, nel codice penale, di previsioni che sanzionano delle condotte preparatorie rispetto all’attentato si ricava che l’inizio della soglia di rilevanza penale dell’attentato sostanzialmente coincide con il tentativo e richiede l’esaurimento della fase preparatoria, o l’imminente passaggio alla fase esecutiva.

In conclusione, si può affermare che il legislatore, nei casi in cui ha previsto la punibilità degli atti preparatori, lo ha fatto in deroga alla disciplina dell’attentato – che coincide con quella del tentativo – attraverso delle norme ad hoc, quali, ad esempio, quelle sull’accordo, sull’istigazione o sull’apologia.

La caratteristica principale di tali fattispecie è che sono tutte accomunate da due requisiti.

Il primo è quello della c.d. bilateralità, inter-soggettività o inter-relazionalità, che presuppone che siano sempre coinvolti due soggetti nella condotta preparatoria che assume rilevanza penale.

L’altro requisito è l’oggetto specifico, ossia il programma ben determinato, che crea un serio pericolo concreto che lo stesso possa avere un seguito.

Sono proprio siffatti requisiti che consentono di ritenere compatibili con i principi di offensività e materialità e, dunque, costituzionalmente legittime, le norme che anticipano notevolmente la tutela penale, punendo gli atti preparatori.

2.2. Le associazioni per delinquere con finalità criminale

L’associazione è l’altra fattispecie tradizionale attraverso la quale si anticipa la tutela penale.

Essa, come è noto, costituisce espressione di una libertà costituzionale, onde non può essere punita solo in ragione del fine perseguito, altrimenti verrebbe sanzionata una mera intenzione, in aperta violazione dei principi di offensività e materialità.

Si è reso, pertanto, necessario individuare un elemento oggettivo intorno al quale si possa ritenere che ad essere perseguito sia un fatto materiale ed offensivo, e non già un mero proposito malvagio.

Siffatto elemento oggettivo è stato ravvisato nella struttura organizzativa stabile, che deve essere – afferma la giurisprudenza – adeguata rispetto al programma delittuoso, cioè oggettivamente idonea a realizzarlo.

Con riguardo all’associazione di stampo mafioso ex 416-bis c.p. non si pongono particolari problemi di rispetto del principio di offensività, posto che, in relazione alla stessa, è sufficiente accertare che l’organizzazione abbia un’oggettività che denoti la capacità intimidatoria.

Ed infatti, nell’associazione di stampo mafioso, il disvalore s’incentra non tanto e non solo nel fine (che potrebbe anche non essere illecito, come nel caso in cui si mira a conseguire delle attività economiche), ma sulle modalità utilizzate, ossia l’avvalimento del metodo mafioso, della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo e dalla condizione di assoggettamento e di omertà che ne consegue.

Diverso è il caso delle comuni fattispecie di associazioni a delinquere non di stampo mafioso, ove il disvalore si concentra sul fine illecito e non già sul metodo.

Le stesse, peraltro, sono normalmente connotate dal dolo specifico, che si risolve in una finalità che ha ad oggetto un evento c.d. extrafattuale, con la conseguenza che il fatto è tipico anche se quest’ultimo non si realizza (basta solo che sia perseguito).

Ebbene, questa tecnica d’incriminazione è piuttosto pericolosa, ed in effetti sembrerebbe scontrarsi con i principi di offensività e materialità, che non consentono di punire le intenzioni.

Proprio per tale ragione, il reato associativo – così come tutte le fattispecie connotate da dolo specifico – è stato interpretato, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata.

In forza di quest’ultima, affinché l’associazione sia penalmente rilevante, è necessario, in ossequio al principio di materiale offensività, che il dolo specifico penetri all’interno della tipicità e che, pertanto, la stessa sia non solo soggettivamente protesa ad un programma delittuoso, ma anche che sia oggettivamente idonea a realizzarlo.

Siffatto principio è stato recepito anche in materia di associazioni terrorische.

Il legislatore, dopo aver previsto la sanzionabilità di varie condotte con finalità di terrorismo, ha fornito una definizione della stessa all’art. 270-sexies c.p., richiamando sia un elemento soggettivo, che un elemento oggettivo.

Precisamente, sono considerate con finalità di terrorismo quelle condotte che – per la loro natura o per il contesto – possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale (elemento oggettivo).

Tali condotte devono poi essere soggettivamente protese ad un fine, che può alternativamente consistere: nell’intimidire la popolazione; nel costringere i poteri pubblici ovvero un’organizzazione internazionale a compiere o a astenersi dal compiere un qualsiasi atto; nel destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale (elemento soggettivo).

Ebbene, si è evidenziato che, mentre le finalità di intimidire la popolazione o di distruggere strutture istituzionali di un paese non creano particolari problemi, poiché sono certamente illecite, invece, il fine di costringere i poteri pubblici a compiere o meno un qualsiasi atto, non è di per sé illecito.

Anzi, siffatto fine, se attuato con mezzi leciti e costituzionalmente consentiti, rappresenta l’essenza della politica e della democrazia.

Ciò ha indotto la giurisprudenza (con riferimento alla vicenda degli attentati No Tav in Val di Susa), a effettuare uno sforzo interpretativo ed a leggere la finalità politica alla luce di tutto il contesto normativo di riferimento.

In tale ottica, la finalità politica, attuata con violenza o minaccia, diventa terrorismo, quando costringe ad adottare o non adottare non un qualsiasi atto, ma uno che sia di particolare importanza per la vita del Paese, nel senso che il suo compimento o mancato compimento è tale da produrre un grave danno per lo Stato istituzione o per un’organizzazione internazionale.

Pertanto, è necessario che la condotta soggettivamente persegua questa finalità politica e venga attuata con modalità oggettivamente idonee a realizzarla.

3. Nuova tecnica di anticipazione della tutela penale introdotta in materia di lotta al terrorismo internazionale

Ciò premesso, giova precisare che, sull’onda della paura generata dai recenti e gravissimi attacchi terroristici di matrice Islamico-jihadista, il legislatore ha introdotto delle fattispecie caratterizzate da un’anticipazione della tutela penale fondata su una tecnica nuova.

Alla base di tale decisione v’è la presa di coscienza che le associazioni terroristiche di matrice Islamico-jihadista hanno delle peculiarità proprie, quanto a struttura e modus operandi, che sono ben diverse rispetto a quelle delle associazioni terroristiche interne.

Precisamente, le associazioni con finalità di terrorismo internazionale, di matrice islamico-jihadista, specie l’Isis, presentano degli elementi di forte destrutturazione e flessibilità.

Ed infatti, la cellula-madre (l’Isis), effettua delle proposte ad incertam personam, ossia rivolte a qualsiasi persona nel mondo voglia accoglierle ed attuarle, consistenti nel rendersi martire per la guerra santa, così stimolando il compimento di atti violenti in nome della causa islamica.

Tali proposte sono spesso accolte da micro-cellule rudimentali operanti in sedi locali, aventi contatti organizzativi davvero minimali con la cellula madre, o addirittura da singole persone individualmente (cc.dd. lupi solitari o foreign fighters).

Ebbene, siffatta struttura e modus operandi hanno indotto la giurisprudenza a ritenere che, rispetto all’associazione con finalità di terrorismo di stampo islamico-jihadista, la condotta di partecipazione cambia necessariamente la sua fisionomia, non potendosi pretendere che si seguano le regole comuni delle fattispecie associative.

Pertanto, la stessa si può rinvenire anche in assenza di quei profili strutturali che normalmente caratterizzano altre tipologie di associazioni note al panorama normativo nazionale.

La condotta partecipativa, in tal caso, può essere anche immateriale, nel senso che non occorre che si traduca nel compimento di atti operativi, essendo sufficiente la mera diffusione di una propaganda jihadista.

L’attività di proselitismo ideologico, anche dematerializzata tramite internet o via chat privata, compiuta da chi esalta gli atti di martirio in nome della guerra santa, può essere considerata già offensiva, in quanto fondamentale per consentire il corretto funzionamento dell’associazione terroristica estremista islamica-jihadista.

Quindi, se, di norma, la mera adesione ideologica e manifestazione del pensiero è inidonea ad integrare la partecipazione, che richiede il contatto operativo bilaterale, soltanto in questo caso, la stessa è ritenuta eccezionalmente sufficiente, giacché dirimente in relazione alle caratteristiche dell’associazione terroristica islamica.

Ad ogni modo va precisato che, con riferimento alla propaganda jihadista, bisogna compiere una valutazione caso per caso. La stessa, infatti, talvolta, può integrare la condotta di partecipazione all’associazione; talaltra, può risolversi in una apologia di reato (se crea il concreto pericolo che qualcuno possa raccoglierla, rientrando nell’ambito dell’art. 414 c.p., che oggi ha peraltro una aggravante specifica, che fa proprio riferimento alla apologia jihadista); ed infine, può semplicemente tradursi in un pensiero disdicevole non punibile.

In materia di terrorismo di stampo islamico, il Legislatore ha avvertito l’esigenza di anticipare l’intervento penale rispetto alla partecipazione e reprimere degli atti prodromici alla stessa, prevedendo ulteriori ipotesi di reato agli artt. 270-ter e seguenti.

Siffatte fattispecie si pongono in una relazione di sussidiarietà rispetto alla partecipazione, nel senso che operano salvo che il soggetto partecipi, e sono caratterizzate dal fatto che incriminano tutte condotte preparatorie (arruolamento, addestramento, istruzione, autoistruzione), che hanno una duplice finalità.

Nello specifico, il legislatore ha punito quelle condotte preparatorie che sono volte a commettere non uno determinato attentato, ma atti di violenza e sabotaggio (non ulteriormente specificati) di servizi pubblici essenziali (fine strumentale), con finalità di terrorismo (fine ultimo).

Come è evidente, è possibile ravvisare delle differenze rispetto all’incriminazione delle condotte associative e degli atti preparatori tradizionali.

Mentre, invero, nei reati associativi pure manca il fine specifico, ma la genericità del programma è compensata dal requisito dell’organizzazione stabile, nelle ipotesi in esame, invece, non solo non v’è specificità nel fine, ma nemmeno il requisito dell’organizzazione.

Peraltro, nelle fattispecie che puniscono gli atti preparatori, la soglia minima di offensività richiede, oltre al fine specifico, anche la bilateralità. In queste ipotesi, al contrario, difetta la specificità del fine e la bilateralità non sempre è presente (ad esempio, nei casi tradizionali di addestramento, arruolamento, istruzione c’è la bilateralità, mentre nell’autoistruzione no).

Alla luce di tali osservazioni, taluni hanno ritenuto che le fattispecie in esame comportino un vulnus al principio di materialità ed offensività, e che dunque questa anticipazione della tutela penale sia eccessiva.

Si rischierebbe, ad esempio, di ritenere che anche la ricerca su internet di istruzioni per costruire ordigni rudimentali, seguita magari dal compimento di qualche generico atto di violenza, possa integrare questo tipo di fattispecie, il che appare, considerando la gravità anche della risposta sanzionatoria, non correlato rispetto all’offesa.

Si è proposta allora una interpretazione costituzionalmente orientata, alla luce della quale, per punire le condotte preparatorie, le stesse devono avere una finalità specifica, dovendo emergere che l’agente stia preparando un preciso atto di violenza o di sabotaggio.

Rimarrebbe, però, il problema della mancanza della bilateralità nella fattispecie dell’autoistruzione.

Secondo taluni, in tal caso, dovrebbe farsi ricorso all’istituto del tentativo, nel senso che colui che si autoistruisce diventerebbe passibile di punizione allorché compia atti idonei e diretti in modo non equivoco a fare una violenza o sabotaggio.

Ne deriva che costui non dovrebbe limitarsi a vedere su internet come si preparano le bombe, ma dovrebbe fabbricarle personalmente e realizzare, per lo meno, un tentativo di atto terroristico.

Si è osservato, in senso contrario, che così letta la norma non avrebbe alcun senso, anzitutto, perché, rispetto alle fattispecie in cui è già presente una anticipazione della tutela, il tentativo non sarebbe punibile (giacché significherebbe punire il pericolo di un pericolo).

Peraltro, gli atti di violenza alle persone con finalità di terrorismo sarebbero già autonomamente incriminati da più gravi fattispecie.

Alla luce di tali considerazioni si è giunti alla conclusione che la fattispecie in esame avrebbe una sua utilità soltanto rispetto agli atti di sabotaggio patrimoniale.

In altri termini, l’autoistruzione diventerebbe penalmente rilevante, laddove il soggetto autoistruito compia atti di violenza a cose (quindi contro il patrimonio), con finalità di terrorismo.

Il danneggiamento a cose con finalità di terrorismo come esito dell’autoistruzione sposterebbe la fattispecie dalla mera preparazione ad un quid pluris, perché comunque c’è l’effettivo danneggiamento, e consentirebbe di recuperare l’offensività della fattispecie.

 

 

 

 

 


Sitografia
Andrea Giudici in DPC | Tentativo e atti preparatori: una questione sempre aperta (dirittopenaleuomo.org)

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