Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e sedazione palliativa profonda

Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e sedazione palliativa profonda

L’art. 2[1] della legge n. 219/2017 presenta una rubrica molto eterogenea, in quanto ha ad oggetto “terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e dignità nella fase finale della vita” ma, nella sostanza, esso è dedicato alle cure palliative. Il fatto che il legislatore abbia deciso di dedicare un articolo apposito a tali cure è significativo, e rappresenta un profilo molto innovativo della legge oggetto dell’odierna trattazione.

La scelta, infatti, non era affatto scontata, anche in considerazione del fatto che in tutte le proposte precedenti, ed anche nelle prime versioni della legge n. 219/2017, il riferimento alle cure palliative era sempre contenuto nell’ambito del rifiuto dei trattamenti sanitari indicati dal medico. La decisione di dedicare un articolo ad hoc, in tal senso, ha accolto la necessità di scongiurare il pericolo concreto, per chi decidesse di non intraprendere o interrompere una cura, di cadere nel baratro di sofferenze insopportabili, sancendo nero su bianco il dovere del medico di alleviare le sofferenze del malato conseguenti al rifiuto del trattamento, configurandosi tuttavia come una particolare applicazione del più generale ruolo della medicina, che deve avere anche una funzione palliativa.

Le cure palliative sono state definite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come «un approccio che migliora la qualità della vita dei pazienti e delle loro famiglie che si confrontano con i problemi associati a malattie mortali, attraverso la prevenzione e il sollievo dalla sofferenza per mezzo dell’identificazione precoce, dell’impeccabile valutazione e del trattamento del dolore e di altri problemi fisici, psicosociali e spirituali».

Il legislatore ha attribuito, nell’ambito delle cure di fine vita, una priorità alla terapia del dolore; in secondo luogo, ha reso ancora più esplicita l’assunzione della sedazione come parte decisiva ed integrante delle cure palliative. Quanto al primo profilo, il legislatore ha chiarito che la terapia del dolore deve essere sempre garantita in maniera appropriata, nel senso che deve essere in grado di alleviare le sofferenze.

Quanto al secondo, la sedazione, la questione resta più complessa. In proposito, nel parere reso dal Comitato Nazionale di Bioetica in data 29 gennaio 2016, si legge testualmente che «la sedazione palliativa consiste – nel senso generale – nella intenzionale riduzione della coscienza del paziente fino al suo possibile annullamento, al fine di alleviare i sintomi refrattari fisici e/o psichici». In esso viene, altresì, precisato che «la somministrazione della sedazione palliativa può  effettuarsi in diverse modalità: – moderata/superficiale, quando non toglie completamente la coscienza, o profonda, quando arriva all’annullamento della coscienza; – temporanea (se per un periodo limitato), intermittente (se somministrata in alternanza in base al modificarsi delle circostanze) o continua (se protratta fino alla morte del paziente)»[2].

La sedazione palliativa profonda, in determinate circostanze, rappresenta l’unica possibilità per controllare sintomi resistenti a qualunque intervento sanitario, a prezzo però di abbassare, se non di togliere totalmente, la coscienza del malato, a seconda della profondità dell’intervento sedativo. Il rischio, insomma, è quello di sottrarre del tutto al paziente la sua capacità decisionale e la sua capacità di relazione[3].

Al cospetto della sedazione, sia medici che infermieri avvertono un certo disagio morale, perché si tratta di un atto eccessivamente invasivo per il paziente. Resta il fatto che la sedazione continua e profonda in fase terminale costituisce, anche all’esito della legge, una questione ancora aperta e di assai difficile ed agevole soluzione.

Ci si chiede, infatti, se la sedazione continua e profonda possa essere equiparata all’eutanasia. Secondo alcuni[4], infatti, tale forma di sedazione è in sostanza una vera e propria eutanasia occulta, in quanto si concretizza in una morte lenta ma certa; diversamente, invece, altri[5] ritengono che, in realtà, la sedazione continua e profonda si discosti in maniera significativa dall’eutanasia, in quanto è, piuttosto, parte integrante della funzione palliativa della medicina[6].

Parte della dottrina, tra i cui illustri esponenti anche il Prof. Canestrari[7], in qualità di membro del CNB, e la giurisprudenza, hanno aderito a questo secondo orientamento, sottolineando la differenza tra eutanasia e sedazione: «a differenza della pratica eutanasica che elimina il dolore cagionando la morte, si risolve nella tensione a ridurre, fino ad annullare, la coscienza del paziente, per alleviarlo da sintomi fisici o psichici intollerabili. In questo senso, la palliazione si interessa non solo del dolore inteso come pregiudizio fisico del soggetto, ma anche alla sua dimensione psicorelazionale»[8].

Il legislatore, comunque, ha preso, in proposito, una posizione finalmente chiara, consentendo che in caso di malattie in fase terminale il medico, al cospetto di sofferenze refrattarie, possa ricorrere alla sedazione profonda e continuata come ad una forma estesa di controllo dei sintomi, a sottolineare, pertanto, la differenza con qualunque pratica eutanasica. Del resto la sedazione profonda non provoca in alcun modo la morte, anzi, talvolta protrae la vita biologica fino al momento morte.

Nella concezione del legislatore, che ha recepito gli orientamenti prevalenti nella scienza medica, dunque, la sedazione si pone come obiettivo quello di alleviare le sofferenze insopportabili. Nell’eutanasia, invece, l’obiettivo è quello di porre fine alla vita dell’individuo. Diversa è anche la procedura: nella sedazione si fa ricorso a farmaci sedativi, mentre nell’eutanasia sono somministrati farmaci letali, il cui risultato è la morte immediata del paziente.

L’elemento discriminante, pertanto, è l’animus del medico, ossia la sua intenzione, anche se è necessario che l’intenzione soggettiva sia necessariamente riflessa nel comportamento oggettivo: ad esempio, somministrare un farmaco normalmente sedativo in dosi e combinazioni maggiori di quanto richiesto si configura come pratica eutanasica piuttosto che come sedazione[9].

Un profilo critico della legge riguarda l’aspetto della proporzionalità della sedazione. Il trattamento sedativo, infatti, deve essere proporzionale ai sintomi refrattari: come è noto, infatti, la sedazione può  essere di diversi tipi, e non necessariamente quella profonda, continuata, definitiva ed irreversibile prevista dalla legge. Ne deriva che è piuttosto forte il rischio che venga meno quella proporzionalità che rappresenta un elemento fondamentale della novella legislativa.

Per quanto concerne le sofferenze del paziente che giustifichino il ricorso alla sedazione, esse possono essere sia fisiche che esistenziali/morali: l’importante è che si tratti di sofferenze tali da rendere intollerabile la prosecuzione della vita del malato. Resta la difficoltà di individuare in quale occasione una sofferenza è realmente intollerabile.

Un ultimo aspetto va chiarito: la sedazione è cosa ben diversa dall’interruzione dei trattamenti, che spesso invero si accompagnano ad essa, ma vanno tenuti ben distinti i due piani. L’interruzione dell’idratazione o dell’alimentazione non ha niente a che vedere con la sedazione, ponendosi su un piano differente e spesso complementare.

Alla luce di queste considerazioni, si può essere d’accordo con chi ha sostenuto che, tutto sommato, «la nuova legge riesca a fornire buone indicazioni per riuscire a integrare, nel contesto che caratterizza oggi il fine vita, cure mediche appropriate e rispetto per il paziente come persona. Restano questioni aperte che chiedono una particolare attenzione nella fase applicativa. Solo una pratica centrata sull͛’accompagnamento del paziente e sottoposta a una deliberazione quanto più partecipata e a una verifica sistematica, può contribuire a risolverle».

Continuando inoltre, il diritto di autodeterminazione terapeutica presenta interessanti risvolti anche con riferimento a minori ed incapaci.

In particolare, l’art. 3 della legge n. 219/2017 disciplina il percorso terapeutico di minori ed incapaci: si tratta di una previsione fondamentale della legge in esame, in quanto il legislatore ha cercato di sintetizzare e bilanciare le disposizioni generali in materia di consenso informato che fondano la nuova relazione di cura e di fiducia con il paziente, con quelle aventi ad oggetto le disposizioni anticipate di trattamento[10]. Infatti, nel momento in cui il minore o l’incapace, in considerazione della particolare situazione in cui si trova, non è capace di autodeterminarsi, è necessario individuare gli strumenti adatti per garantire anche a tali soggetti la possibilità di valorizzare il principio di autodeterminazione coerentemente con i principi di dignità, identità e libertà del paziente che informano tutta la legge n. 219/2017[11].

Del resto, la stessa giurisprudenza, sia costituzionale sia di legittimità, aveva in passato cercato di valorizzare la libertà di autodeterminazione anche di coloro i quali, in ragione della minore età o di una situazione d’incapacità, non sono in grado di esprimere liberamente la propria volontà e, quindi, di autodeterminarsi sotto il profilo sanitario.

La Corte Costituzionale, in particolare, con la sentenza n. 322/2011, aveva già affermato la necessità che anche le persone incapaci dovessero essere messe in condizione di esercitare i propri diritti alla stregua di tutti gli altri soggetti dell’ordinamento. La Cassazione, sulla stessa falsariga, con la notissima sentenza Englaro, di cui si è detto in precedenza, aveva fornito una serie di indicazioni riguardo i principi fondamentali del rapporto terapeutico con persone incapaci al fine di valorizzare il principio di autodeterminazione anche con riguardo a tali soggetti. Il legislatore ha recepito i suddetti orientamenti giurisprudenziali, ed è apprezzabile che, rispetto al testo originario, abbia deciso di attribuire ai minori non solo il diritto alla vita ed alla salute, ma anche quelli alla dignità e all’autodeterminazione terapeutica, coerentemente con il principio di fondo secondo cui la condizione di minore età e quella di disabilità non possono determinare una lesione dei diritti fondamentali.

Il rapporto con tali soggetti, dunque, segue le stesse linee guida prescritte dal legislatore per i pazienti ordinari, ovviamente con le uniche eccezioni per quegli aspetti in cui assume rilevanza decisiva la volontà dell’interessato. A tal proposito, è assai apprezzabile la scelta del legislatore di tenere conto del fatto che sia i minori che gli incapaci non possono essere considerati in termini standard, in quanto ognuno di essi si trova in una situazione diversa, presenta un diverso livello di comprensione e sofferenza, ragion per cui è previsto che si debba valorizzare il livello di partecipazione e di condivisione del percorso terapeutico dando ai pazienti informazioni adeguate al fine di recepire, per quanto possibile, la loro volontà.

Il legislatore, dunque, propone un approccio terapeutico flessibile e non rigido, che deve essere modulato tenendo conto della situazione concreta in cui versa il minore o l’incapace, con l’obiettivo non solo di rispettarne la personalità, ma anche di valorizzarla. In un contesto siffatto, la scelta di individuare un rappresentante legale, indispensabile in casi del genere, non è però concepita in termini di “eliminazione” o marginalizzazione del minore/incapace, in quanto il rappresentante legale si aggiunge alla volontà di quest’ultimo, ma non la sostituisce.

Il processo comunicativo che viene instaurato con il rappresentante legale, infatti, sia esso il genitore o il tutore, non deve estromettere il soggetto rappresentato, ma anzi deve essere in grado di valorizzare e fare emergere proprio la volontà di quest’ultimo, coerentemente con la volontà di valorizzarne l’autodeterminazione terapeutica.

 

 


[1] Art. 2 legge 219/16: «il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico. A tal fine, è sempre garantita un’appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l’erogazione delle cure palliative di cui alla legge 15 marzo 2010, n. 38. 2. Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico pu  ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente.  3. Il
[2] Comitato Nazionale di Bioetica, 29 gennaio 2016.
[3] Cfr., sul punto, T. Pasquino, op. cit., p. 89, secondo cui «la sedazione palliativa profonda si raggiunge per il tramite di un vero e proprio trattamento sanitario, prestabilito dal personale medico curante, consistente nella «somministrazione intenzionale di farmaci ipnotici, alla dose necessaria richiesta, per ridurre il livello di coscienza fino ad annullarla, allo scopo di alleviare o abolire la percezione di un sintomo, senza controllo, refrattario, fisico e/o psichico, altrimenti intollerabile per il paziente, in condizione di malattia terminale inguaribile in prossimità della morte».
[4] Cfr. V. Cacace, La sedazione palliativa profonda e continua nell’imminenza della morte: le sette inquietudini del diritto, in Rivista italiana di medicina legale e del diritto in campo sanitario, 2, 2017, p. 469 ss.
[5] Cfr. G. Battimelli, Riflessioni sulla sedazione palliativa profonda con riferimento anche al recente documento del CNB, in Medicina e morale, 5, 2016, fasc. 5, specialmente pp. 659 ss.
[6] Nel Parere reso dal Comitato della Bioetica il 29 gennaio 2016 si legge che «in tutte le situazioni cliniche che richiedono la sedazione profonda è di fondamentale importanza verificare prima l’effettiva refrattarietà del sintomo valutando che: a) il suo controllo non possa avvenire attraverso un dosaggio adeguato e proporzionato di farmaci (il più basso livello di sedazione in grado di risolvere il sintomo refrattario, con le minime conseguenze collaterali negative); b) ogni diverso o ulteriore intervento terapeutico non farmacologico non è in grado di assicurare entro un tempo accettabile sollievo al paziente o un sollievo tale da rendere tollerabile la sofferenza. Da tale diagnosi dipende sia l’appropriatezza clinica sia quella etica della scelta. Pertanto lo stato di refrattarietà di un sintomo deve essere accertato e monitorato da una équipe esperta in cure palliative di cui facciano parte medici, infermieri, psicoterapeuti. L’uso dei farmaci deve essere sempre monitorato e adeguato in relazione alla profondità, alla continuità e alla durata».
[7] Si veda S. Canestrari, la legge N.219 del 2017 in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento.
[8] Cass. pen., 12 giugno 2018, n. 26899, in www.dejure.it. «Affinché si possa parlare di sedazione profonda nei termini di cui sopra è necessario che il paziente si trovi in uno stato di malattia terminale, intesa quale inguaribilità con prognosi di ore o poco più». Perché ci  si verifichi, nei limiti descritti dalla Cassazione, si richiede «non solo il consenso del paziente, ma di essere di fronte a una malattia inguaribile in stato avanzato e, soprattutto, in una condizione di morte imminente. Ci , quindi, ribadisce la profonda differenza con l’atto eutanasico: l’evento morte infatti non diviene diretta conseguenza della sedazione profonda bensì del naturale decorso della malattia, diversamente da quanto accade con l’eutanasia dove la morte è diretta conseguenza di una azione od omissione. Infine, diviene necessario che quanto somministrato al paziente sia stato da esso approvato mediante consenso informato».
[9] Si è osservato, in proposito, che se «l’intenzione soggettiva di controllare un sintomo refrattario non trova riscontro in un trattamento proporzionato alle sofferenze che si cerca di alleviare, questo vuol dire o che l͛’intenzione non è autentica, oppure è autentica, ma non arriva a concretizzarsi per mancanza di esperienza e di competenza. È quanto, a ragione, denuncia B. Broeckaert, studioso in Europa tra quelli che più hanno approfondito gli aspetti etici della sedazione in fase terminale»: così T. Pasquino, op. cit., p. 89.
[10] Sull’art. 3 della legge n. 219/2017 si vedano, tra gli altri, G. Ferrando, Minori e incapaci, in BioLaw. Rivista di biodiritto, 1, 2018, pp. 46 ss.; L. Bozzi, La legge sulle disposizioni anticipate di trattamento tra esigenze di bilanciamento e rischi di assolutizzazione, in La Nuova giurisprudenza civile commentata, 9, 2018, pp. 1351 ss.
[11] Come è stato osservato da G. Ferrando, op. cit., p. 47, «la disposizione in commento si colloca nel solco dei principi fondamentali di diritto interno ed europeo. Fa seguito agli orientamenti della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione alla luce dei quali deve essere interpretata. Si inscrive nel sistema delle forme di tutela che l’ordinamento pone a tutela dei minori (art. 315 ss. c.c.) e delle persone prive in tutto o in parte di autonomia (artt. 404 ss. c.c.). Si coordina con altre norme di settore in ambito sanitario. La nostra costituzione garantisce in modo eguale i diritti fondamentali, la libertà, la dignità, la salute (art. 2, 3,13, 32 Cost.) indipendentemente da condizioni personali e sociali, comprese l’età, l’handicap, la malattia».

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