Terzo sesso e identità di genere

Terzo sesso e identità di genere

Sommario: 1. Identità personale – 1.1. Identità sessuale – 2. Sesso e Genere – 3. I profili costituzionali: la legge 164/1982 – 3.1. La questione di costituzionalità della Legge 164/1982 – 4. Il fenomeno del transessualismo: brevi cenni – 4.1. Transessualismo e Transgenderismo – 5. Il contesto internazionale – 6. Dignità umana e riconoscimento del terzo genere – 7. Terzo sesso: la rivoluzione della Corte costituzionale tedesca

 

1. Identità personale

Il concetto di identità personale serve essenzialmente a rispondere alle domande “chi sono io?” “che cosa sono io?”. Quello dell’identità è tema moderno. L’identità è un processo e non un elemento definito una volta per tutte. Il tempo è una variabile determinante nel processo di costruzione dell’identità: mutano le situazioni, così come gli individui.

Il processo di costruzione dell’identità è in buona parte una costruzione sociale. Questa costruzione può diventare patologica e costituire una gabbia, al di fuori della quale, l’individuo non è in grado di autodefinirsi. La persona però non è solo oggetto del meccanismo di costruzione dell’identità, ma è parte attiva del processo di continua costruzione del sé.

Il diritto di identità personale si trova al centro di un dibattito sul quale convergono gli interessi di diversi settori della riflessione scientifica odierna. Il punto comune è quello di comprendere il modo in cui l’individuo considera e costruisce sé stesso come membro di determinati gruppi sociali. Se si vuole, nell’ambito giuridico, si potrebbe definire l’identità come “immagine” che la società ha dell’individuo, la proiezione sociale della su personalità. Eppure, come potrebbe reclamare Luigi Pirandello – nel suo celebre Uno, nessuno, centomila -l’immagine di una persona è il modo in cui essa è vista dagli altri, ma non vi saranno mai due soggetti che vedono la stessa persona allo stesso modo. Sulla base di ciò, è difficile circoscrivere l’oggetto del diritto all’identità personale e conseguentemente dare un fondamento giuridico alla sua tutela. Il nome e l’immagine rappresentano i principali strumenti di identificazione, ma soprattutto nell’attuale contesto, l’identità personale non si limita all’esigenza di identificazione della persona; conseguentemente la sua tutela non può essere circoscritta a tali elementi. Determinante è stato il contributo della dottrina nell’affermazione ed evoluzione del diritto all’identità personale. Risale al 1905 l’opera di Nicola Stolfi “I segni di distinzione personali”, con la quale iniziava a profilarsi un concetto di identità della persona, nel senso di identificabilità nonché di unicità dell’individuo. È, però, con Adriano De Cupis ed il suo studio su “Il diritto all’identità personale” che inizia a prendere forma l’esigenza di tutela. Tuttavia, l’ingresso del diritto all’identità personale all’interno dell’ordinamento giuridico e la specificazione della sua fattispecie sono dovuti all’opera dei giudici di merito e legittimità, nonché della Corte costituzionale. Il riconoscimento è arrivato solo dopo più di vent’anni dalla sua concreta tutela giurisdizionale attraverso la legge 31 dicembre 1996 n.675, la quale, si è limitata a menzionare il diritto all’identità personale, ma non a definirne l’oggetto. La prima pronuncia che ha riconosciuto espressamente il diritto all’identità personale è quella della Pretura di Roma del 6 maggio 1974. Il giudice ordinario non si è preoccupato molto di argomentare nel merito il fondamento giuridico dell’identità personale, piuttosto ha avuto voluto garantire in concreto interessi che seppur non espressamente disciplinati dal legislatore, potevano essere ritenuti meritevoli di tutela, analogamente a quei beni giudici che identificano la persona quali il nome, l’immagine. Di particolare interesse – soprattutto per il contributo dato nella definizione del fondamento normativo del diritto all’identità personale – sono le sentenze che in tutti i gradi di giudizio hanno deciso il cosiddetto “caso Veronesi”. La Cassazione si è discostata dall’orientamento del passato per cui il diritto all’identità personale doveva essere tutelato solo in quanto rientrante nella fattispecie di altri diritti come il nome, l’immagine. Infatti, in ipotesi come quella del “caso Veronesi”, ad essere leso è l’interesse dell’individuo, ritenuto generalmente meritevole di tutela giuridica, di essere rappresentato, nella vita di relazione, nella sua vera identità, così come questa nella realtà sociale, è conosciuta. La Corte, inoltre, ha individuato il fondamento normativo del diritto all’identità personale direttamente nell’art.2 Costituzione, il quale dispone che “la repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità”. Il diritto all’identità personale mira a garantire la fedele e completa rappresentazione della personalità individuale del soggetto nell’ambito della comunità, in cui tale personalità individuale è venuta svolgendosi, estrinsecandosi e solidificandosi. Si tratta di un interesse essenziale, fondamentale e qualificante della persona e la finalità dell’art.2 Cost. è proprio quella di tutelare la persona umana integralmente e in tutti i suoi modi di essere essenziali. La Cassazione ha fatto sua la tesi di quella dottrina che aveva inteso l’art.2 della Costituzione come una fattispecie “aperta”, che non si limitava soltanto a riepilogare i diritti fondamentali espressamente menzionati nel testo costituzionale, bensì essa costituiva una clausola aperta e generale di tutela del libero ed integrale svolgimento della persona umana, idonea di conseguenza ad includere ed assicurare tutela a nuovi interessi emergenti ed essenziali della persona.

1.1. Identità sessuale

Un corollario del diritto all’identità personale è il diritto all’identità sessuale, da intendersi come il diritto a veder tutelata la propria caratterizzazione sessuale. Per superare la pretesa immodificabilità del sesso anagrafico della persona transessuale, anche nel caso di intervenute modifiche medico-chirurgiche dei caratteri sessuali, si propose una valorizzazione del diritto della personalità facendovi rientrare il diritto all’identità sessuale. Nasceva così un diritto soggettivo che ponendosi a garanzia di un valore collegato alla personalità umana acquisiva il riconoscimento di inviolabilità ad essa costituzionalmente collegata. Se tra la dottrina che si mostrava sensibile alle problematiche giuridiche legate al fenomeno del transessualismo non vi era dubbio circa la necessità di offrire una tutela costituzionale all’identità sessuale, vi era invece divergenza in riferimento all’individuazione quale fonte di tale diritto. Da un lato, c’è chi lo riconduceva all’art.2 Cost., dall’altro c’era chi ne individuava il fondamento nell’art.13 Cost. e ancora chi faceva riferimento all’art.32 Cost. Con la L. n. 164/1982 viene a delinearsi un diritto all’identità sessuale, inteso come diritto a veder riconosciuto dall’ordinamento giuridico un profilo essenziale della personalità, quello della sessualità, superiore e prevalente rispetto a caratteristiche esteriori. Se in precedenza il diritto all’identità sessuale aveva rilevanza nell’ordinamento giuridico soltanto come pretesa alla non ingerenza altrui nel proprio diritto, con la L. n. 164/1987 il diritto all’identità sessuale viene ad acquisire una nuova declinazione configurandosi non più come libertà negativa ma anche come pretesa che lo Stato intervenga attivamente, a riconoscere valore giuridico al proprio atto di autodeterminazione poiché elemento imprescindibile che consente il pieno svolgimento della persona umana, di cui la sfera sessuale è parte integrante. In dottrina vi è chi tende a distinguere il diritto all’identità personale da quello all’identità sessuale, reputando il riconoscimento della nuova appartenenza sessuale come una sorta si artificio giuridico. Probabilmente, i beni giuridici tutelati non sono esattamente i medesimi, ma non sembra possibile, però, ritenere che si tratti di un “accostamento improprio”, in forza della considerazione che, se il diritto all’identità personale è “il diritto a non vedersi attribuite opinioni mai attribuite o che falsano la propria immagine sociale, non si vede come si possa far rientrare il diritto a modificare chirurgicamente il proprio sesso”. In base della pronuncia della Corte costituzionale, l’identità sessuale deve essere intesa come una parte rilevante della persona, della sua identità, della sua verità, anche al di là delle apparenze fisiche.

2. Sesso e Genere

È un dato incontestabile che un elemento importante e primario per la definizione della propria identità è la condizione sessuale. Nella vita di tutti i giorni il genere è qualcosa che solitamente si dà per scontato, è un modo di classificare, di indicare l’esistenza. Si è soliti a identificare istantaneamente una persona come uomo o come donna, e implicitamente, si organizza la maggior parte delle interazioni quotidiane sulla base di questa distinzione. Con il termine sesso si indica la condizione biologica o fisica dell’uomo/donna, maschio/femmina. Il termine genere, invece, designa la percezione di sé in quanto maschio o femmina (identità di genere) e il sistema di aspettative sociali ad essa collegate (ruolo di genere). Questa distinzione tra sesso anatomico e ruolo di genere rende possibile ipotizzare la discontinuità tra corpo (come si nasce) e immagine di sé (come ci si sente). Peraltro, secondo questa corrente di pensiero, il sesso è indeterminato alla nascita e il genere si acquisisce progressivamente mediante l’educazione e la socializzazione. È stato affermato, infatti, che la sessualità alla nascita è indifferenziata, mentre si determina in senso maschile o femminile nel corso delle esperienze educative infantili, configurandosi come una sorta di apprendimento psichico che si completa entro due anni e mezzo dalla nascita e che può essere mutato più tardi solo a prezzo di gravi rischi per l’equilibrio psichico. Negli anni ’60 ad opera della psichiatria si teorizza la distinzione tra sesso e genere come differenza tra il substrato biologico (ciò che siamo) e il coefficiente di mascolinità e di femminilità presenti in ciascun individuo (ciò che apprendiamo). Nasce così il concetto di genere che si riferisce all’appartenenza soggettiva ad uno dei due sessi. Sulla base degli studi e dell’esperienza clinica, si afferma che di solito vi è corrispondenza tra sex e gender, mentre vi sono anche casi anomali in cui si nasce maschi o femmine biologicamente e si diviene uomini o donne socialmente (transessualismo). A partire dagli anni Settanta, sulla spinta dei movimenti femministi, è stato affrontato il problema della relazione che lega il diritto al sesso e al genere, e la filosofia della differenza sessuale apre una nuova prospettiva nel mondo femminista, iniziando un percorso di decostruzione del patriarcato, ponendosi l’obiettivo di abbattere la gerarchia che vige tra i generi maschile e femminile. Si propone una nozione di “genere”, utile inizialmente per delineare una differenza culturale – e non solo biologica – tra il maschile ed il femminile, giungendo alla costruzione di un mondo diviso nella sfera della “riproduzione” (ruolo sociale di esclusiva pertinenza del femminile) e nella sfera di produzione (mansione sociale di esclusiva pertinenza del maschile). La rigida dicotomia dei ruoli nella società e nella famiglia, cosi come i modelli comportamentali del maschio e della femmina, non sarebbero altro che la risposta ad un sistema di attese sociali e di distribuzione del potere, frutto di costruzione. L’obiettivo è quello di decostruire distruggendo le “costruzioni” maschiliste e ricostruire progettando una società che superi la differenza sessuale e liberi la donna dall’oppressione patriarcale. Se il pensiero femminista ha criticato il “sistema sex/gender” per mettere in discussione l’organizzazione sociale dei rapporti tra i due sessi, si deve al post-femminismo l’esasperazione del concetto di genere, concepito come uno status costruito dalla volontà individuale, esasperazione che trae origine dalla teoria gender-queer, secondo la quale il genere è una costruzione culturale; pertanto, non può essere considerato il risultato causale del sesso, né può essere caratterizzato dalla fissità. “Se lo status costruito del genere viene teorizzato come indipendente dal sesso, il genere stesso diviene un artificio fluttuante, con la conseguenza che uomo (sesso) e maschio (genere) possono significare sia un corpo femminile che un corpo maschile, e donna e femmina sia un corpo maschile che un corpo femminile”.

Gender/queer” rappresenta la categoria dell’indifferenza sessuale, della neutralità e neutralizzazione che annulla ogni differenza nella mescolanza, incrocio, confusione, dove scompaiono rigide classificazioni”. Non si parla più di “maschio o femmina”; semmai, in modo neutrale, di “maschio e femmina”. Svuotato di rilievo il sesso e scardinate la coincidenza e l’interazione di tra quest’ultimo ed il genere, è nel genere che si inquadra l’esperienza identitaria. Secondo uno studioso, “la tarda modernità ha liberato la sessualità dai confini di una singola egemonia e l’ha sostituita con il pluralismo sessuale: la sessualità intesa come fissità è stata soppiantata dall’identità sessuale in quanto definita e strutturata come dalla scelta individuale, dove la scelta sessuale diventa uno dei molti elementi della scelta del proprio stile di vita”. Solo di recente si è giunti a ritenere che l’incongruenza tra sesso di nascita e identità di genere, non sarebbe, di per sé, necessariamente patologica, se non causa un significativo disagio individuale. Si comincia ad affermare l’esistenza di un ampio spettro di possibili identità di genere e alcuni studiosi non nutrono dubbi in merito allo status non patologico del transessualismo, sostenendo come esso non possa essere considerato né una “malattia” né un “disturbo” in sé. Non esistono in natura standard fissi di riferimento che definiscano cosa sia normativamente “maschile” o “femminile”; si tratta in realtà di una classificazione puramente arbitraria. Stoller definisce l’identità di genere come il riconoscimento e la consapevolezza, conscia ed inconscia, da parte di un soggetto, della propria appartenenza all’uno o all’altro sesso e della presenza e mescolanza all’interno di sé di tratti più propriamente mascolini e tratti più propriamente femminili. Dalla nozione di identità di genere differisce il ruolo di genere, che, come sostiene Money, indicherebbe i comportamenti che la persona assume all’interno delle relazioni con gli altri, è tutto ciò che una persona dice e fa per indicare agli altri e a sé in che grado è maschio, femmina o ambivalente. L’identità di genere è l’intima esperienza della persona mentre il ruolo di genere costituisce una manifestazione esterna della stessa.

3. I profili costituzionali: la legge 164/1982

Sul piano strettamente giuridico il sesso è stato considerato tradizionalmente come una qualità della persona, predeterminata dalla natura e immutabile dall’uomo, che doveva essere accertata al momento della nascita, con la conseguenza che non assumeva, invece, alcuna rilevanza, il transessualismo. La giurisprudenza era del secolo scorso era prevalentemente orientata a ritenere che la persona dovesse essere qualificata giuridicamente solo in base al sesso biologico e il riconoscimento di una nuova identità sessuale veniva rifiutato per l’illiceità dell’intervento per il mutamento di sesso che, determinando l’incapacità di generare, veniva assimilato al reato di lesioni personali gravissime. Il consenso del paziente non avrebbe sottratto il medico alla responsabilità di tipo penale; inoltre l’intervento chirurgico avrebbe avuto pesanti ripercussioni tali da entrare in contrasto con la morale e con la certezza giuridica. Prima dell’emanazione della legge n.164/1982, ci si rifiutava di riconoscere ad un soggetto un sesso diverso da quello anagrafico, qualora la discordanza fosse stata determinata da un fatto volontario ed artificiale dell’uomo. Tra i diritti della persona costituzionalmente garantiti, di omette di considerare l’autoidentificazione sessuale.

Parte della giurisprudenza di merito è propensa a garantire, in alcuni casi, la rettificazione del sesso in ragione di una forte dissociazione della persona rispetto alla propria identità di genere attraverso un’interpretazione adeguatrice degli art.2,3,32 Cost. Nessun rilievo alla sensibilità psicologica della persona, indirizzata verso una nuova identità, viene attribuito dalla Corte costituzionale, che non ammette tra i diritti inviolabili della persona il riconoscimento di un sesso esterno diverso dall’originario. La Consulta propone un’interpretazione dell’art.2 Cost “come fattispecie chiusa” per il suo necessario collegamento con le singole norme costituzionali che disciplinano i diritti fondamentali.

Posizione diversa assume la dottrina che ritiene l’adeguamento dei caratteri sessuali tappa fondamentale per il libero sviluppo della persona umana, sottolineando che “esigenze esistenziali della persona, quali il mutamento di sesso, trovano nella previsione generale di tutela della persona un fondamento normativo preciso, idoneo a qualificare tali esigenze come giuridicamente meritevoli di con immediate conseguenze nelle relazioni intersoggettive”. Con la legge 14 aprile 1982, n.164, rubricata “Norme in materia di rettificazione di attribuzione del sesso” si sancisce il principio generale per cui la persona può procedere alla rettifica del sesso indicato nell’atto di nascita, qualora intervengano modifiche artificiali dei propri caratteri sessuali. In tal modo, si avverte la necessità di tutelare coloro che non si identificano nel sesso che è stato loro assegnato dalla nascita, inducendo cosi l’ordinamento a riconoscere il via definitiva il diritto all’identità sessuale. Diritto successivamente consacrato dalla Corte costituzionale che, optando per “la concezione del sesso come dato complesso della personalità determinato da un insieme di fattori” propone un concetto di identità sessuale nuovo e diverso rispetto al passato. La necessità di tenere presenti sia i caratteri fisici che quelli psicologici, al fine di determinare, anche dal punto di vista giuridico, l’orientamento sessuale della persona, impone di attribuire rilevanza, da una parte, ad un’identità psicosessuale opposta e prevalente rispetto a quella fisica e, dall’altra, ad un’evoluzione di questa identità dall’uno all’altro polo dell’appartenenza sessuale. In tal modo, si individua il contenuto del diritto all’identità sessuale e quindi all’identità di genere.

Molte sono però le questioni che la normativa lascia in sospeso e molti i problemi che la normativa stessa ha creato alla vita delle persone per tutelare le quali è stata emanata. Primo tra tutti il fatto che il testo della legge non fa esplicito riferimento alla condizione transessuale, che se da un lato potrebbe risultare positivo, al fine di non ghettizzare tali persone attraverso l’uso di un termine frequentemente utilizzato in modo offensivo all’interno della società italiana, dall’altro, però, nega il riconoscimento di una condizione e perciò nega la tutela diretta di chi in quella situazione si trova a vivere.

3.1. La questione di costituzionalità della Legge 164/1982

Pochi anni dopo l’entrata in vigore della l. n. 164/1982 “Norme in materia di rettificazione di attribuzione del sesso”, un’ordinanza della Corte di Cassazione, aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt.1 e 5 della Legge n.164/1982, prospettandone il contrasto con gli artt.2, 3,29,30 e 32 Cost. Il caso si era originato dalla Corte d’Appello di Napoli che con la sentenza n. 1726/1979, confermava quella di primo grado, rigettando la domanda di persona transessuale, diretta ad ottenere la rettificazione del sesso anagrafico attribuitogli dalla nascita sulla base del criterio biologico. La Corte d’Appello, in coerenza con quello che era all’epoca l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, negava rilevanza al sesso psichico. Tale sentenza era stata poi impugnata davanti alla Corte di Cassazione la quale, decidendo sul ricorso aveva individuato profili di sospetta incostituzionalità della legge n.164. La Corte affermava che “un’alterazione artificiale del sesso nel caso di persona transessuale avrebbe potuto determinare gravi implicazioni “in una società, in cui alla diversità del sesso corrisponde anche una diversità di doveri e comportamenti”. Si sosteneva che il mutamento artificiale del sesso “sconvolge l’ordine naturale della società familiare”. La Corte di Cassazione era pervenuta alla conclusione per cui la rettificazione dell’attribuzione di sesso, secondo la lettura della legge n.164, era da considerarsi consentita non più soltanto nel caso di evoluzione naturale di situazioni originariamente non ben definite (stato intersessuale), ma anche nel caso di transessualismo. In riferimento all’art.1 della legge, la Corte di Cassazione ne sottolineava la formulazione vaga e indeterminata ma allo stesso tempo affermava che tale incertezza doveva risolversi sul piano interpretativo. Essa, quindi, non censurava in modo assoluto e categorico i disposti di legge ma lo faceva nella parte in cui consentivano di rettificare l’attribuzione di sesso anche nelle ipotesi di transessualismo e non circoscrivendolo all’ipotesi di intersessualità. La Corte di Cassazione, in riferimento agli art. 29 e 30 affermava che la legge n.164 violava l’odine naturale della società familiare e del matrimonio, ed impediva alla persona transessuale di svolgere i suoi compiti “naturali” di genitore, determinando uno squilibrio nella diversità di figure genitoriali necessarie ad un normale svolgimento della vita familiare, consentendo alla persona transessuale di sottrarsi ai suoi fondamentali doveri nei confronti dei figli. Sotto il profilo, poi, della tutela della salute e dell’integrità psicofisica della persona transessuale, la Suprema Corte sosteneva che gli interventi medicochirurgici diretti ad eliminare la dissociazione tra soma e psiche finiscono per complicare l’anormalità del soggetto in quanto da un lato riescono ad attribuire un sesso diverso dall’originario solo in modo parziale e sostanzialmente apparente, e dall’altro privano irreversibilmente l’individuo della capacità procreativa. Con riguardo all’art.5 della l. n. 164, invece, la Corte assumeva che tale norma, precludendo in modo assoluto ai terzi di conoscere i dati anagrafici originali del transessuale, “pone in pericolo le irrinunciabili esigenze di certezza, che appaiono prevalenti su quelle di riservatezza”: queste ultime possono essere salvaguardate attraverso il sistema dell’autorizzazione giudiziale. La Corte costituzionale si trovò a vagliare la legittimità costituzionale egli artt.1 e 5 della legge n. 164. La Corte fece, innanzitutto, chiarezza sul significato di “transessuale”: un soggetto che vive il contrasto spesso drammatico tra sesso psichico e sesso biologico e che si sottopone a gravi interventi medico-chirurgici demolitori-ricostruttivi per adeguare il corpo alla psiche. In secondo luogo, la Consulta riconosceva come la legge n.164/1982 accogliesse un concetto di identità sessuale nuovo e diverso rispetto al passato. Presupposto della normativa impugnata era la concezione del sesso come dato complesso della personalità determinato da un insieme di fattori. Secondo la Corte, la l. n. 164/1982 “si colloca nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà, di dignità e di libertà, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie”. La Corte costituzionale andava a controbattere punto per punto le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione condannando sotto più aspetti l’atteggiamento della Corte di Cassazione che faceva riferimento a questioni astrattamente prospettabili, ma nella specie assolutamente irrilevanti. La Consulta osservava, poi, come tutte le questioni proposte partivano da un preciso postulato, che non trovava alcun fondamento nella Costituzione, ma era piuttosto espressione di un’ideologia per la quale l’identità sessuale era da considerarsi solo quella caratterizzata dagli organi genitali esterni, accertati al momento della nascita senza alcuna considerazione degli elementi psicologici e sociali. La decisione della Corte andava a confermare l’orientamento di fondo già manifestato in occasione della prima sentenza emessa in materia di transessualismo.

4. Il fenomeno del transessualismo: brevi cenni

Il transessualismo può essere definito come una sindrome caratterizzata dal fatto che un individuo, di sesso biologico non ambiguo, sentendo di non appartenere al genere assegnatogli dalla nascita, è mosso da un intenso e persistente senso di identificazione nel sesso (biologico) opposto e da un desiderio di vivere a tutti gli effetti come membro dell’altro sesso, con relativo riconoscimento giuridico del nuovo sesso. Il fenomeno del transessualismo non può essere considerato una condizione esclusivamente circoscritta all’attuale momento socioculturale, poiché le sue origini sono remote. Il termine transessuale fu coniato nel 1910 dal sessuologo tedesco M. Hirschfeld, noto come “l’Einstein del sesso”, e fu la prima persona a studiare in modo sistematico il transessualismo. Il termine fu poi ripreso nel 1949 dal medico D. Cauldwell. Tuttavia, fu l’endocrinologo americano Benjamin, nel 1953, a dare notorietà al “transessualismo”, cui fece seguito una trattazione interdisciplinare del fenomeno. Nella sua opera, Il fenomeno transessuale afferma che “i veri transessuali sentono di appartenere all’altro sesso, desiderano essere e operare come membri del sesso opposto, non solo di apparire come tali”. Benjamin dà una definizione restrittiva della nozione “transessuale”, circoscrivendolo alla sola ipotesi di persona che si è già sottoposta a trattamenti medico-chirurgici, non considerando che tutte le persone transessuali sono mosse da tale desiderio. L’inquadramento del fenomeno come una condizione clinica e in particolare come una patologia, periodo in cui la terminologia “disturbo dell’identità di genere” prese il posto del termine precedentemente utilizzato, per indicare la convinzione di appartenere ad un sesso diverso da quello biologico. Nel 1980, il transessualismo venne categorizzato come “disturbo dell’identità di genere” e definito come un “forte e persistente identificazione con il sesso opposto accompagnato dal persistente malessere riguardo al proprio sesso”.

4.1. Transessualismo e Transgenderismo

Poiché i termini transessualismo e transgenderismo vengono comunemente ed erroneamente utilizzati come sinonimi è necessaria un’ulteriore precisazione terminologica e concettuale al riguardo. La persona transessuale è colei che è affetta dal disturbo dell’identità di genere e rappresenta una sottocategoria del transgenderismo. Il transgender, infatti, è un termine onnicomprensivo di più sottocategorie: la persona transessuale operata ha raggiunto un ricongiungimento tra soma e psiche, in seguito ad interventi medico-chirurgici demolitivi-ricostruttivi; la persona transessuale non completamente operata si è sottoposta a parzialmente a interventi medico-chirurgici; la persona genderqueer è colei che, condannando lo stereotipo il genere imposta dalla società, non si riconosce nel binarismo di genere “maschio/femmina” ma si considera appartenere ad un terzo genere, identificandosi talvolta in entrambi i generi, con nessuno dei due o con la combinazione di entrambi. Il genderqueer, dunque, è colui che delinea possibilità espressive e sentimenti che si pongono come discordanti rispetto alle caratteristiche del sesso biologico e superano le categorie sancite a livello culturale in riferimento alle differenze di genere; la persona cross-dresser, erroneamente confusa con il “travestito”, è il soggetto che, in un contesto privato e/o pubblico, usa un abbigliamento convenzionalmente associato alla persona di sesso biologico opposto al proprio perché meglio riflette il proprio sentire interiore.

5. Il contesto internazionale

La rivendicazione a voce alta della propria dignità e, conseguentemente, la richiesta del riconoscimento del proprio diritto a essere sé stessi e non essere discriminati in forza della transizione de un genere all’altro, ha portato alla promozione della prospettiva di genere. Di recente la questione del riconoscimento del diritto all’identità di genere è stata oggetto di attenzione in sede internazionale e di regolamentazione in diversi Stati extraeuropei. L’alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite già negli anni ’90 si è espresso a favore del riconoscimento dell’identità di genere. L’Assemblea Generale degli Stati Americani ha ribadito l’inclusione dell’identità di genere tra le forme di protezione internazionale dei diritti umani fondamentali. Successivamente, alcuni Stati dell’America del Nord hanno previsto il mutamento di identità senza necessità di intervento chirurgico, altro hanno adottato una regolamentazione con riferimento solo a determinate categorie di soggetti. Inoltre, si interviene per proteggere l’identità sessuale sia nel settore pubblico sia in quello privato. Più attenti appaiono alcuni Paesi Sudamericani che, in un’ottica di apertura verso il riconoscimento del genere, hanno sostenuto: “Ogni persona ha il diritto di scegliere liberamente la propria personalità conforme alla propria identità di genere, indipendentemente dal suo sesso biologico, genetico”. Altri Paesi dell’America Latina dispongono che la persona venga giuridicamente trattata in sintonia con la sola propria identità di genere. Si afferma che ogni persona ha diritto al riconoscimento della propria identità, al libero sviluppo della sua persona, ad essere trattata in conformità al genere cui sente di appartenere. Altri operatori pratici, riconoscono l’identità transessuale come “terzo genere” e affermano che ogni essere umano ha il diritto di scegliere il proprio genere sessuale. Lo spirito è quello di assicurare a ogni cittadino le stesse opportunità di crescita e di realizzare il suo potenziale, a prescindere dal sesso. Si obbliga i governi nazionali e federali a garantire alle persone transgender l’accesso ai servizi. Anche a livello europeo, già dagli anni ’90 la teoria gender, anche se con connotati diversi da quelli che oggi assume, è presenti in alcuni documenti. In un primo momento, il Parlamento europeo non si occupa espressamente del genere ma, ponendo l’accento sull’esigenza di tutelare chi si sente attratto da soggetti dello stesso sesso. Successivamente il Parlamento ed il Consiglio d’Europa, in attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento di uomini e donne in materia di occupazione e di impiego, estendono la non discriminazione alle persone che hanno “rassegnato il genere”. Inoltre, occorre ricordare la recente Risoluzione sulla discriminazione nei confronti delle persone transgender in Europa, nella quale l’Assemblea invita gli Stati Membri a legiferare contro la discriminazione, coinvolgendo e consultando le persone transgender e le loro organizzazioni al momento della redazione e dell’applicazione di politiche e misure legali che li riguardano. L’aspetto di maggior rilievo attiene a riconoscimento giuridico del genere che si può realmente attuare adottando procedure rapide, trasparenti e accessibili, basate sull’autodeterminazione per il cambio di sesso anagrafico. Alcune sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte di Giustizia, richiamando l’interpretazione degli articoli 8 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo, sostengono il diritto all’identità di genere, con o senza intervento chirurgico. Di recente alcuni Stati dell’Unione hanno posto l’accento sull’autodeterminazione del soggetto nella scelta del sesso cui sentono di appartenere, sicché viene meno la necessità di interventi medici. In altri Paesi, la legge sull’identità di genere riconosce e difende i diritti umani delle persone transessuali, stabilisce meccanismi di protezione contro la discriminazione, elimina l’obbligo di operazione chirurgica di riassegnazione del genere e vieta qualunque procedimento chirurgico non necessario senza il consenso del paziente. Come emerge, negli ultimi anni si sta procedendo ad un recepimento della nozione di “identità di genere” che impone il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione del singolo in ordine al sesso sui sente di appartenere, ma lentamente e faticosamente. Il primato della scelta determina la rivisitazione e il superamento dei rigidi confini tra dimensione biologica e costruzione sociale e, in particolare, la presa d’atto che può esserci un’identità che non si sostanzia nel maschile e nel femminile.

6. Dignità umana e riconoscimento del terzo genere

Per rendere effettivo il diritto delle persone transgender alla tutela della propria autodeterminazione sessuale non è sufficiente riconoscerne legalmente lo status in un momento successivo a quello dell’avvenuta trasformazione anatomica. Si tratta di soggetti che aspirano a un’identità più “coerente e meno ambigua” nella consapevolezza di dover affrontare un percorso fisico e mentale di lungo periodo. Nel delicato settore delle politiche occupazionali, l’ordinamento comunitario ha emanato la direttiva 2006/54/CE riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego, ove si enuncia, per la prima volta, anche in favore delle persone che abbiamo subito un cambiamento di sesso, la parità tra uomini e donne come un principio fondamentale del diritto comunitario. La pronuncia dei giudici comunitari, se da un lato, ha dichiarato che la sfera applicativa della direttiva non può essere ridotta soltanto alle discriminazioni dovute all’appartenenza al sesso maschile o femminile; dall’altro, ha stabilito che “se una persona viene licenziata in quanto ha l’intenzione di subire o ha subito un cambiamento di sesso, riceve un trattamento sfavorevole rispetto alle persone del sesso al quale era considerata appartenere prima di tale operazione”. Per la Corte, dunque, “il tollerare una discriminazione del genere” equivarrebbe a trascurare il rispetto della dignità e della libertà al quale tale persona ha diritto”. Il punto n.3 della direttiva non lascia spazio a dubbi interpretativi e segna il momento a decorrere dal quale sarebbe possibile invocare – a favore della persona transessuale – la normativa antidiscriminatoria: a partire, cioè, dall’avvenuto mutamento del sesso. Solo un’ermeneutica teleologicamente orientata alla tutela del valore personalista e della dignità umana potrà rendere attuale ed effettivo il diritto di diventare ciò che si è.

7. Terzo sesso: la rivoluzione della Corte costituzionale tedesca

Con una sentenza, a dir poco rivoluzionaria nel pensiero giuridico occidentale, il Bundesverfassungsgericht, una delle corti costituzionali più autorevoli e influenti al mondo, decreta l’illegittimità della legge anagrafica tedesca nella parte in cui non consente, alle persone che lo richiedono, l’iscrizione nello stato civile come appartenenti ad un “terzo sesso”, distinto da quello maschile e femminile. Facilitati nel loro compito dalla previsione, secondo la recente riforma della legge sull’anagrafe del 2013, della possibilità di iscrizione nello stato civile senza indicazione del sesso, i giudici fanno un passo in avanti ritenendo che oltre all’indicazione della persona come “maschio” o “femmina” o come “non appartenente ad alcun sesso” debba considerarsi l’iscrizione come appartenente ad un “terzo sesso”, se tale “positiva indicazione” corrisponde all’effettiva percezione soggettiva del genere. I giudici rilevano, invero che il legislatore è libero di registrare o meno il sesso all’anagrafe, e di ascrivervi conseguenti effetti giuridici, ma che una volta scelto di iscrivere nello stato civile il sesso della persona, è discriminatorio non dare positiva annotazione dell’appartenenza ad un terzo sesso di coloro che sentono tale annotazione come corrispondente al proprio sesso effettivo. Secondo la Corte, infatti, “che il costituente, nel 1949, nel formulare l’articolo 3, comma 3 potesse avere a mala pena in vista persone di un ulteriore sesso, non impedisce l’interpretazione costituzionale che queste persone, alla luce delle conoscenze odierne su ulteriori identità sessuali, siano incluse nella tutela contro le discriminazioni”. La Corte costituzionale tedesca ha stabilito che prevedere, al momento della registrazione anagrafica, solo la scelta tra le voci “femminile” e “maschile”, offrendo come unica alternativa l’omissione dell’indicazione del sesso e non anche una terza esplicita denominazione, viola sia il diritto generale, sia il principio di non discriminazione. La ricorrente, affetta dalla sindrome di Turner, si era rivolta ai giudici chiedendo poter correggere l’iscrizione di “sesso femminile”, riportata nel registro delle nascite, sostituendo ad essa quella di “inter/diverso” o “diverso”. La Corte di primo grado aveva rigettato la richiesta, semplicemente affermando che tale possibilità non era prevista dalla legge. La ricorrente avrebbe al massimo potuto ottenere la cancellazione dal registro della dizione “femminile”. La decisione era stata confermata in secondo grado ed infine anche dalla Corte di Cassazione Federale, la quale occupandosi per la prima volta della questione di inserimento nel registro di stato civile di dati che si collocano al di fuori del sistema sessuale binario, aveva rigettato l’istanza. Il legislatore tedesco, accogliendo la soluzione binaria, da un lato avrebbe riconosciuto l’intersessualità, dall’altro avrebbe optato per una soluzione costituzionalmente legittima. Infatti, se è vero che l’identità sessuale di una persona è tutelata dal diritto generale della personalità, è anche vero che al legislatore spetta un margine di apprezzamento circa la scelta della miglior soluzione da adottare. L’esplicita previsione di un sesso ulteriore, rispetto a quello maschile e femminile costituirebbe certo una possibile opzione, che però avrebbe inciso in maniera eccessiva su interessi ordinamentali dello Stato, a fronte di un’incertezza ancora esistente circo il modo migliore per affrontare la tutela delle persone intersessuali. Data la chiusura della giurisprudenza ed il conseguente rigetto della domanda, la ricorrente si era avvalsa della possibilità, prevista dall’ordinamento tedesco, di adire la Corte costituzionale qualora reputi di aver subito una lesione di un diritto fondamentale. Innanzitutto, la Corte afferma che il diritto generale della personalità, diritto costituzionalmente garantito, tutela anche l’identità sessuale, che deve essere considerata uno degli aspetti più rilevanti. La possibilità di potersi ricollegare ad un genere determinato è un passaggio fondamentale nella costruzione della personalità, sia dal punto di vista personale, ma anche da quello sociale: le registrazioni anagrafiche hanno infatti come scopo quello di permettere alla persona di avere una propria collocazione all’interno dell’ordinamento.

Se poi però la legge stessa da un lato impone la registrazione del sesso, dall’altro non permette alcuna indicazione positiva che veramente corrisponda all’identità sessuale di tutti quei soggetti che non si riconoscono in un sistema binario, cosi impedendo di apparire all’esterno nella maniera corrispondente all’intimo sentire della persona, essa realizza un sistema che ha ripercussioni fortemente negative sullo sviluppo della personalità. La possibilità di omettere l’indicazione non tiene conto delle profonde esigenze delle persone intersessuali, che sentono di avere un’identità sessuale, semplicemente non riconducibile a “maschile” e “femminile”. La scelta del legislatore tedesco di informare il registro di stato civile al sistema binario non è imposta dalla Costituzione: questa, infatti, da un lato non prevede l’indicazione del sesso come dato necessario, dall’altro non esclude la possibilità di riconoscimento di un’ulteriore identità sessuale. La mancata previsione di una dizione esplicita non può quindi essere giustificata a livello costituzionale: sicuramente potrà comportare una qualche spesa aggiuntiva, un qualche aggravio procedurale, ma non vi sono interessi superiori preponderanti che impediscano di provvedere in tal senso. Muovendo da questa affermazione, la Corte afferma anche che sussiste una violazione del divieto di non discriminazione basata sul sesso. Scopo della disposizione è proprio quello di evitare che persone appartenenti a gruppi a rischio di discriminazione possano trovarsi svantaggiate, ma questo invece è proprio quello che realizza il combinato disposto delle disposizioni della legge sullo stato civile: le persone intersessuali, a differenza di uomini e donne, non possono essere registrate secondo il loro sesso. Si tratta di un trattamento differenziato non giustificabile. Sull’esempio tedesco, anche la Corte costituzionale austriaca ha acconsentito alla registrazione del terzo sesso sui documenti ed i certificati ufficiali. L’alta corte ha riconosciuto “il diritto all’identità di genere individuale”, in accordo con l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.


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Dott.ssa Luana Leo

La dottoressa Luana Leo è dottoranda di ricerca in "Teoria generale del processo" presso l'Università LUM Jean Monnet. È cultrice di Diritto pubblico generale e Diritto costituzionale nell'Università del Salento. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso il medesimo ateneo discutendo una tesi in Diritto Processuale Civile dal titolo ”Famiglie al collasso: nuovi approcci alla gestione della crisi coniugale”. È co-autrice dell'opera "Il Presidente di tutti". Ha compiuto un percorso di perfezionamento in Diritto costituzionale presso l´Università di Firenze. Ha preso parte al Congresso annuale DPCE con una relazione intitolata ”La scalata delle ordinanze sindacali ”. Ha presentato una relazione intitolata ”La crisi del costituzionalismo italiano. Verso il tramonto?” al Global Summit ”The International Forum on the Future of Constitutionalism”. È stata borsista del Corso di Alta Formazione in Diritto costituzionale 2020 (“Tutela dell’ambiente: diritti e politiche”) presso l´Università del Piemonte Orientale. È autore di molteplici pubblicazioni sulle più importanti riviste scientifiche in materia. Si occupa principalmente di tematiche legate alla sfera familiare, ai diritti fondamentali, alle dinamiche istituzionali, al meretricio, alla figura della donna e dello straniero.

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