Abolitio criminis: il recente contrasto giurisprudenziale in merito al destino delle statuizioni civili

Abolitio criminis: il recente contrasto giurisprudenziale in merito al destino delle statuizioni civili

La fattispecie dell’abolitio criminis, prevista e disciplinata dall’art. 2, comma 2 c.p., sussiste qualora un fatto costituente reato secondo la legge vigente al momento in cui esso fu commesso, cessa di esserlo in forza di una legge successiva, per abrogazione totale o parziale.

Ne consegue l’esclusione della punibilità di coloro che abbiano commesso fatti i quali, secondo le previsioni della nuova legge, non costituiscano più reato e, ove la pena sia già stata inflitta, ne cesserà l’esecuzione ed ogni altro effetto penale.

Il fenomeno in oggetto, inoltre, sottende un mutamento in ordine alla percezione del disvalore sociale di determinate condotte costituenti reato secondo la legge previgente, sicché sarebbe ingiusto punire o continuare a punire fatti che la coscienza sociale non consideri più pericolosi.

Gli effetti risultanti dall’applicazione di tale istituto sono oggetto di uno dei più controversi e recenti dibattiti sorti a seguito della pubblicazione in G.U. dei decreti legislativi nn. 7 e 8 del 15 gennaio 2016 con i quali veniva data esecuzione all’art. 2 della legge delega 28 aprile 2014 n. 67, volta a realizzare un intervento di depenalizzazione e di abrogazione di alcune fattispecie criminose.

Tale riforma ha il pregio di inserirsi all’interno di un iter inaugurato dalle leggi n. 689/1981 e n. 205/1999 e finalizzato all’attuazione di una vera e propria scelta politico-criminale che mira a deflazionare il contenzioso penalistico.

E pertanto, il d. lgs. n. 8/2016 prevede lo strumento della depenalizzazione, ovvero della trasformazione di alcuni reati in illeciti amministrativi con conseguente attribuzione all’autorità amministrativa dell’intervento punitivo in vista di condotte di ridotta gravità. Tale soluzione, in particolare, risponde ad una logica deflattiva del processo penale in quanto le ipotesi “bagatellari” interessate dal suddetto istituto saranno punite con la sola pena pecuniaria.

Accanto ai reati trasformati in illeciti amministrativi, ve ne sono altri che, a seguito di abrogazione, perdono il proprio carattere di illecito penale al fine di acquisire quello di illecito civile sanzionato, oltre che con la sanzione privatistica del risarcimento del danno, anche con una nuova e diversa tipologia di sanzione pecuniaria civile (la quale riprende lo schema dei cosiddetti punitive damages tipici dei sistemi di common law), irrogata dal giudice civile e destinata alla Cassa delle ammende.

E’ questa la grande novità introdotta dalla riforma, la quale impatta non solo sul contenzioso penale, in favore del rispetto dei principi di sussidiarietà, proporzionalità e pena come extrema ratio, ma incide anche sul contenzioso civile. Difatti, prima della riforma, l’azione civile di risarcimento del danno poteva essere esercitata alternativamente in sede penale o in sede civile: oggi, invece, la stessa dovrà essere esperita esclusivamente innanzi al giudice civile, senza che tuttavia occorra istruire ulteriormente la causa e senza che sia necessaria una espressa domanda volta alla applicazione della sanzione, sulla quale il giudice decide anche d’ufficio, qualora accolga la domanda di risarcimento del danno.

Ciò posto, la Seconda Sezione penale della Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la seguente questione: “se, in caso di condanna pronunciata per un reato successivamente abrogato e configurato quale illecito civile ai sensi dell’art. 4 D. Lgs. n. 7 del 2016, il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, possa decidere sull’impugnazione ai soli effetti civili ovvero debba revocare le statuizioni civili”.

La questione si pone sovente nella prassi, in relazione alle sentenze con le quali, nel giudizio di appello o davanti alla Corte di Cassazione, venga dichiarata l’abrogazione di reati che il d. lgs. n. 7 del 2016 ha trasformato in illeciti civili (tra questi l’ingiuria, il danneggiamento semplice e la falsità in scrittura privata) sottoposti, oltre che alle restituzioni e al risarcimento del danno, alle nuove sanzioni pecuniarie civili.

Risulta ormai pacifico, innanzitutto, che in caso di condanna definitiva per uno dei predetti reati, la revoca della sentenza ex art. 673 c.p.p. non interessa i capi civili, rispetto ai quali l’abolitio criminis non produce effetto, limitandosi ad interessare, per espressa previsione dell’art. 2 comma 2 c.p. i soli effetti penali (v. Cass. Sez. V, nn. 7124 e 7125 del 2016).

D’altro canto, ciò è confermato dallo stesso D. Lgs. n. 7 del 2016 (art. 12, comma 1), il quale esclude espressamente l’applicazione retroattiva delle nuove sanzioni pecuniarie civili in relazione ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge medesima, qualora il procedimento penale sia stato definito con sentenza o decreto irrevocabili.

Tuttavia, il problema sorge in caso di condanna non definitiva: difatti, il quesito posto all’esame del Supremo Collegio riguarda la possibilità per il giudice del gravame di pronunciare sentenza di assoluzione per intervenuta abolitio criminis, disponendo anche delle statuizioni civili, con applicazione analogica dell’art. 578 c.p.p., ai sensi del quale “il giudice di appello e la Corte di Cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidono sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili”.

Difatti, a differenza delle ipotesi depenalizzate in forza del D. lgs. n. 8/2016, per le quali è stato espressamente stabilito dall’art. 9 che il giudice dell’impugnazione decida sulle statuizioni civili, alcuna disposizione analoga è stata dettata nel citato D. lgs. n. 7.

Tale lacuna normativa ha favorito la nascita di due orientamenti contrapposti in materia.

Secondo una prima soluzione (avallata da numerose pronunce: Sez. II n. 21598 dell’ 08.03.2016; Sez. II n. 14529 del 23.03.2016; Sez. II n. 24299 del 27.05.2016; Sez. V n. 24029 del 03.03.2016), il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, decide sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili.

Diverse sono le ragioni poste a sostegno della predetta tesi: innanzitutto si osserva come in base all’art. 2 comma 2 c.p. l’abolitio criminis determini la cessazione degli effetti penali della condanna nonostante le obbligazioni civili nascenti da reato permangano. Si sottolinea, quindi, che ai diritti del danneggiato dal reato in ordine alle statuizioni civili non si applicano i principi della successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 c.p., ma al contrario, il principio dettato dall’art. 11 delle preleggi al cod. civ. secondo il quale “la legge non dispone che per l’avvenire” con la conseguenza che, anche a seguito di abolitio criminis, le modifiche legislative non possono incidere sui diritti del danneggiato ed ove il procedimento risulti tutt’ora pendente il giudice sia comunque tenuto a pronunciarsi sugli effetti civili.

In secondo luogo, alla luce dell’interpretazione giurisprudenziale concessa in situazioni analoghe, la stessa Cassazione ha affermato che “in presenza di un fatto ingiusto che ha cagionato un danno, il diritto del danneggiato al risarcimento permane, a nulla rilevando le successive modifiche legislative”, ribadendo che tale principio si applica “nei casi in cui la modifica legislativa trasforma in condotte lecite fatti che erano penalmente rilevanti” (Cass. pen., sez VI, n. 31957 del 25.01.2013).

Infine, ove dovesse ritenersi obbligata la trasmissione al giudice civile competente per l’irrogazione delle sanzioni pecuniarie a seguito della declaratoria di assoluzione dell’imputato perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, dovrebbe imporsi alla parte civile costituita la prosecuzione del giudizio in sede civile, sebbene lo stesso abbia già trovato definizione pur non irrevocabile in sede penale, ove veniva proposta la domanda risarcitoria. Tale interpretazione viola chiaramente il fondamentale principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., poiché obbliga la parte civile alla prosecuzione del giudizio in altra sede, benché il fatto sia già stato acclarato nel procedimento penale, determinando un eccessivo sacrificio dei diritti del danneggiato, costretto a riprendere la sequenza procedimentale dinanzi al giudice civile.

Inoltre, tale soluzione appare foriera di possibili contrasti tra giudicati poiché, a fronte dell’accertamento della sostanziale sussistenza del fatto illecito da parte del giudice penale, il giudice civile chiamato ad irrogare la sanzione sarebbe chiamato ad una completa rivalutazione del medesimo fatto, al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per l’irrogazione della sanzione.

Ne conseguirebbe, infine, una irragionevole ed inaccettabile disparità di trattamento tra il danneggiato che abbia ottenuto una condanna al risarcimento in un processo penale che si concluda nella fase dell’impugnazione con una declaratoria di abolitio criminis e il danneggiato che, al contrario, abbia ottenuto la stessa condanna con sentenza irrevocabile.

Secondo diverso ed opposto orientamento, sostenuto da altrettante numerose sentenze della Cassazione (Sez. V n. 18910, del 15.03.2016; Sez. V n. 19516 del 15.04.2016; Sez. V n. 21721 del 23.03.2016; Sez. II n. 1670 del 10.06.2016), deve essere escluso che nelle ipotesi di abolitio criminis previste da D. lgs. n. 7 il giudice dell’impugnazione possa pronunciarsi sulle statuizioni civili.

Difatti, la disposizione prevista dal D. lgs. n. 8/2016, la quale ammette la possibilità che il giudice dell’impugnazione si pronunci sulle statuizioni civili, è di univoca interpretazione ed indice della specifica volontà del legislatore di ammettere tale potere limitatamente alle ipotesi di reato trasformate in illeciti amministrativi e non anche per quelle abrogate ex D. lgs. n. 7/2016.

Si aggiunge, inoltre, che l’art. 578 c.p.p. è norma eccezionale di stretta interpretazione, non suscettibile di interpretazione analogica anche secondo recente orientamento della Corte Costituzionale, la quale, nella pronuncia n. 12/2016, ha affermato che l’art. 538 comma 1 c.p.p. collega in via esclusiva la decisione sulla domanda della parte civile alla condanna dell’imputato, con l’unica eccezione stabilita dall’art. 578 c.p.p. riguardante il giudizio di impugnazione.

Il collegamento istituito dall’art. 538 c.p.p. “tra decisione sulle questioni civili e condanna dell’imputato riflette il carattere accessorio e subordinato dell’azione civile proposta nel processo penale rispetto agli obiettivi propri dell’azione penale: obiettivi che si focalizzano nell’accertamento della responsabilità penale dell’imputato”.

Infine, ponendo a confronto le due discipline dettate dai diversi decreti non si rinviene il presupposto dell’eadem ratio poiché, mentre nel caso di depenalizzazione a norma del D. lgs. n. 8, la sanzione prevista sarà irrogata dall’autorità amministrativa, sicché il legislatore ha attribuito al giudice dell’impugnazione penale il compito di provvedere sulle statuizioni civili, nel caso di abrogazione a norma del D. lgs. n. 7 la sanzione pecuniaria civile è irrogata dal giudice competente a conoscere dell’azione di risarcimento del danno. Appare, cioè, ragionevole rimettere al giudice civile la decisione sulla sorte degli effetti civili conseguenti alla commissione dell’illecito, unitamente a quella relativa all’applicazione delle nuove sanzioni pecuniarie civili, le quali presuppongono una condanna al risarcimento del danno, naturalmente preceduta da una relativa domanda che instauri il giudizio civile.

Si auspica un immediato intervento delle Sezioni Unite al fine di concedere soluzione definitiva al contrasto esaminato.

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