Anche lo zio condannato all’ergastolo può pregare sulla tomba del nipote
a cura di Giuseppe Di Micco
Alquanto singolare si presenta la pronuncia della prima sezione penale della Corte di Cassazione, del 17 dicembre 2015, che ha ritenuto legittimo il permesso concesso ad un detenuto condannato all’ergastolo di potersi recare a pregare sulla tomba del nipote prematuramente scomparso.
La Suprema Corte ribalta sia la decisione del Magistrato di sorveglianza, che aveva rigettato l’istanza con la quale il detenuto, chiedeva la concessione di un permesso di necessità ai sensi dell’art. 30 O.P., sostenendo che il nipote deceduto, figlio del fratello, non può farsi rientrare nella nozione di membro di famiglia in senso stretto tale da giustificare la concessione del permesso di necessità.
L’interessato impugnava tale decisione con reclamo al Tribunale di Sorveglianza, che con ordinanza ne rigettava il reclamo, in quanto la fruizione del permesso di necessità ex art. 30 O.P. può essere eccezionalmente concessa per un evento familiare di particolare gravità, ed anche perché la nozione di familiare rilevante ai sensi della norma in questione, va interpretata restrittivamente e riferita soltanto ai genitori, figli, fratelli e coniuge. Per di più, la richiesta di pregare sulla tomba del nipote, richiesta pervenuta ad esequie già celebrate, non rientra tra i presupposti di “eccezionale rilevanza”, dal momento che la preghiera è un atto eminentemente intimo, validamente attuabile in ogni luogo.
I giudici di legittimità accolgono la domanda. Non può negarsi che ai fini dell’umanizzazione della pena e della sua funzione rieducativa (art. 27, comma 3, Cost.), il contatto con la famiglia ha un’incidenza decisiva. I requisiti per la concessione del permesso di necessità si individuano in tre elementi: eccezionalità della concessione, particolare gravità dell’evento giustificativo, la correlazione dell’evento con la vita familiare. La vicenda del caso in esame è del tutto eccezionale e non usuale, particolarmente grave, poiché incide profondamente sulla vicenda umana dell’interessato e sul grado di umanità della detenzione, rilevante per il suo percorso di recupero. Viceversa, ove si negasse una tale opportunità, il detenuto si vedrebbe privato di un momento di profonda umanità, quale il sostare davanti alla tomba di un caro, se in preghiera o meno poco importa, importante per la sua rieducazione e risocializzazione, giacché fatto idoneo ad umanizzare l’espiazione della pena.
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Giuseppe Di Micco
Laureato in Giurisprudenza con votazione di 110 e lode, tesi in diritto canonico, relatore prof. Mario Tedeschi. Ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, mediante una diretta attività di partecipazione alle udienze in tribunale, nonché nello studio dei casi pratici per la redazione di atti giudiziari e pareri. Praticante abilitato, collabora presso studi legali in materia di diritto civile e diritto del lavoro. Dottore di ricerca in diritto canonico ed ecclesiastico presso l’Università degli Studi di Milano, ha approfondito come tema di ricerca il problema della consumazione del matrimonio nei diritti religiosi (diritto ebraico, canonico, ed islamico). Collaboratore alle cattedre di diritto ecclesiastico, diritto canonico, diritti confessionali e storia e sistemi dei rapporti tra Stato e Chiesa, del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli. Collabora attivamente anche presso le strutture ecclesiali, in particolare negli ambiti liturgici e della formazione giovanile.
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