ANNULLAMENTO D’UFFICIO: tra interesse pubblico e legittimo affidamento
Consiglio di Stato, sez. VI, 31 agosto 2016, n. 3762
“Se non viene provato l’interesse pubblico, l’intervento della P.A. non può superare i termini previsti dall’art. 21 nonies della legge 241/1990″
a cura di Maria Laura Tirozzi
Nel bilanciamento di interessi, la tutela del legittimo affidamento si riconferma un limite espresso all’esercizio dell’annullamento d’ufficio.
Con la sentenza n. 3762, pubblicata il 31/08/2016, la VI Sezione del Consiglio di Stato ritorna sui presupposti per l’esercizio dell’annullamento d’ufficio (art. 21 nonies L. 241/90), l’illegittimità del provvedimento amministrativo, e legittimo affidamento dei destinatari dell’atto, alla luce della recente riforma normativa operata con il decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164.
Oggetto della pronuncia è l’impugnazione di due sentenze rese dal Tar Milano, con le quali si disponeva l’annullamento dell’ordinanza di annullamento di una dia illegittima, nonché, del conseguente ordine di demolizione. Già i giudici di prime cure avevano rilevato che la dia, in esame, fosse affetta da illegittimità, in quanto viziata da errore nella valutazione tecnica; tuttavia, accertata l’illegittimità della stessa per violazione di legge, venivano rigettati i suesposti appelli per i motivi che di seguito si precisano.
In presenza di vizio inficiante la validità del provvedimento amministrativo, in questo caso di una dichiarazione di inizio dell’attività, la legge consente alla pubblica amministrazione di intervenire, ai sensi dell’art. 23 co. 6 del T.U. 380/2001, adottando un provvedimento inibitorio – ripristinatorio, entro il termine decadenziale di 30 gg di cui al co. 1 del predetto articolo; oppure, in mancanza, di intervenire con il riesame con esito demolitorio (c.d. annullamento d’ufficio) di cui all’art. 21 nonies L.241/90. Nel caso di specie, i giudici di Palazzo Spada si soffermano sulle problematiche connesse all’esercizio del potere di autotutela, rilevata l’adozione di un provvedimento repressivo d’ufficio, conseguente al decorso infruttuoso del termine di cui all’art. 23, co.6, d.p.r. 380/01.
Si precisa, brevemente, che l’art. 21 nonies L. 241/90, stabilisce che il provvedimento amministrativo, viziato da illegittimità, di cui all’art.21 octies (ovvero adottato in violazione di legge, viziato da eccesso di potere o incompetenza) può essere oggetto di annullamento d’ufficio, allorquando ricorrano i seguenti requisiti: sussistenza di ragioni di interesse pubblico, esercizio del potere entro un termine ragionevole, e comparazione con gli interessi dei destinatari del provvedimento e degli eventuali controinteressati. Sulla scorta della elaborazione pretoria è stato evidenziato che non basta la semplice illegittimità del provvedimento a giustificare la decisione di rimuovere lo stesso, al contrario, questa, pur costituendo un presupposto necessario ai fini dell’operatività dell’annullamento d’ufficio, necessita, altresì, della sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale.
Per consolidata giurisprudenza, infatti, ai fini dell’annullamento d’ufficio di un provvedimento amministrativo, l’esigenza di ripristino della legalità violata deve necessariamente essere raffrontata con la sussistenza dell’interesse pubblico alla caducazione dell’atto, di cui la P.A. deve fornire adeguata motivazione. In particolare, si fa notare che, laddove l’annullamento intervenga a distanza di tempo dalla emanazione dell’atto originario, la sussistenza di un interesse pubblico, concreto, ed attuale assurge un rilievo ancor più pregnante, diversamente dalla semplice esigenza di ripristino della mera legalità violata.
In altre parole, se il provvedimento è oggetto di riesame subito dopo la sua emanazione, non rileva il decorso del tempo, in quanto, appare evidente come debba essere dato rilievo esclusivamente al vizio inficiante l’atto; non può dirsi lo stesso, laddove sia trascorso un notevole arco temporale dal momento in cui è stato emanato il provvedimento.
Si dice, in questi casi, che il decorso del tempo ha permesso all’amministrazione di valutare diversamente i vizi stessi che inficiavano il provvedimento impugnato. Potrebbe accadere, infatti, di considerare superflui i difetti sostanziali dell’atto, alla luce delle circostanze concrete verificatesi successivamente, tale per cui, analizzato il provvedimento ai fini di un suo possibile annullamento, lo si possa giudicare idoneo alla soddisfazione del pubblico interesse.
E’, dunque, di primaria importanza la quantificazione del tempo ai fini della valutazione da parte della pubblica amministrazione, alla luce di quella che ordinariamente si definisce la tutela dell’affidamento o legittima aspettativa dei privati.
Nella citata pronuncia, rilevato l’annullamento d’ufficio del provvedimento impugnato, il Collegio fa notare l’illegittimità dello stesso, in mancanza dei presupposti suindicati: “Nella specie, manca sia l’esternazione delle ragioni di interesse pubblico (al di là del mero ripristino della legalità violata) sia la valutazione motivata della posizione dei soggetti destinatari del titolo edilizio. Nel caso in esame tale affidamento era, peraltro, particolarmente qualificato in ragione del lungo tempo trascorso dall’adozione della d.i.a. annullata, risultando trascorsi ben quattro anni dal suo consolidamento”.
Oltre ad evidenziare la carenza delle ragioni di interesse pubblico, diverse dal semplice ripristino della mera legalità violata, ma strettamente connesse alla realizzazione degli obiettivi pubblicistici attribuiti all’attività amministrativa, il Collegio si sofferma anche sulla mancata valutazione motivata della posizione dei soggetti destinatari del titolo edilizio, introducendo così la delicata tematica della tutela dell’affidamento dei privati.
Di matrice comunitaria, il legittimo affidamento o tutela dell’affidamento legittimo, è un principio non scritto del diritto italiano che si realizza in stretta connessione con l’aspetto temporale, ingenerando, in capo al privato, una situazione di fiducia sulla permanenza dell’assetto di interessi posto in essere da un determinato provvedimento e maturata in capo al destinatario dello stesso; da un punto di vista oggettivo, invece, consiste nell’aspettativa del privato a che l’amministrazione si comporti, in ogni caso, secondo regole di correttezza che impongono di tenere conto delle situazioni altrui, nel momento in cui voglia ritornare sulle proprie decisioni. E’, altresì, definibile come quell’interesse teso alla tutela di una situazione giuridica realizzatasi conseguentemente ad un comportamento della P.A., suscitando nel terzo un ragionevole affidamento in ordine ad un determinato risultato.
Dall’affidamento è bene distinguere il c.d. consolidamento, un concetto in cui il parametro temporale assume un ruolo primario. Tale principio assume un rilievo fondamentale nell’esercizio dell’annullamento in via di autotutela, allorquando, si chiede di fondare la scelta di rimuovere il provvedimento illegittimo, non tanto sul mero ripristino della legalità violata, quanto sulla motivazione della sussistenza di uno specifico interesse pubblico, concreto, ed attuale. Si ricorda, infatti, che l’esercizio del c.d. ius poenitendi, da parte della p.a., incontra un limite insuperabile nella salvaguardia delle situazioni dei soggetti privati, i quali, confidando nella legittimità dell’atto rimosso, consolidano le posizioni di vantaggio loro attribuite. Si sostiene, di conseguenza, che il vero e proprio limite all’esercizio del potere di autotutela sia il decorso del tempo connesso al consolidamento della situazione di fatto, più che il mero affidamento legittimo ex se.
Prendendo atto delle seguenti considerazioni il Consiglio di Stato ricorda che la L. 164/2014 è intervenuta proprio sulla disciplina dell’art. 21 nonies L.241/90, introducendo, in sostituzione della formulazione elastica ed indeterminata del “termine ragionevole” all’esercizio dello stesso, la fissazione di un arco temporale espresso e rigido circoscritto in un termine di “diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”. In conseguenza di ciò, l’eventuale annullamento d’ufficio, intervenuto successivamente alla scadenza del termine medesimo, determina la censurabilità del provvedimento caducatorio, in sede giurisdizionale, innanzi al G.A., per violazione di legge.
Ad ogni buon conto, la novella normativa, che nel caso di specie non può trovare applicazione retroattiva come conferma implicitamente la Corte, in conformità con un suo precedente indirizzo (Cons. Stato, Sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5625), va ricordata per la sua portata innovativa che trascende dal mero significato letterale: “Pur se tale norma non è applicabile ratione temporis, in ogni caso, come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di evidenziare, rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti “.
Ciò vuol dire che il legislatore nel circoscrivere l’arco temporale per l’esercizio dell’annullamento di ufficio in 18 mesi, decorrenti dalla data di emanazione del provvedimento, ha voluto individuare, in quel preciso arco temporale, il limite oltre il quale l’affidamento alla stabilità degli effetti dell’atto e alla certezza della situazione giuridica diventa legittima, determinandone il definitivo consolidamento. In un caso come quello sottoposto al vaglio del Collegio, risulta evidente il preminente rilievo da doversi riconoscere alla tutela dell’affidamento legittimo e al consolidamento della situazione connessa con il provvedimento emanato, in quanto erano trascorsi 4 anni alla data dell’intervenuto annullamento.
Sulla scorta delle suesposte considerazioni, pur confermando la sostanziale illegittimità dell’ordinanza di annullamento della d.i.a., il Consiglio di Stato rigetta gli appelli proposti e riconferma la stretta correlazione tra l’esercizio del potere di autotutela ed il decorso del tempo, sostenendo che il riesame con esito demolitorio non possa trovare applicazione al di fuori dei limiti di legge di cui al novellato art. 21 nonies L.241/90.
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