Cassazione: ammissibile la trascrizione dell’atto di nascita del figlio di coppia omosessuale

Cassazione: ammissibile la trascrizione dell’atto di nascita del figlio di coppia omosessuale

Cassazione civile, sez. I, sentenza 30 settembre 2016, n. 19599

La Corte di Cassazione, con una sentenza di straordinaria rilevanza, ha ammesso la trascrizione dell’atto di nascita di un bambino nato all’estero e dichiarato figlio di due genitori dello stesso sesso, enunciando, inoltre, ben sei principi di diritto destinati a fare la storia del diritto internazionale privato della famiglia; la Corte Suprema, infatti, ha negato la sussistenza di una contrarietà dell’atto in questione con il concetto di ordine pubblico internazionale, e, pertanto, sulla scia di quanto già sancito con la recente pronuncia n. 12962 del 30 giugno 2016, che ha dato il primo via libera alla stepchild adoption per coppie omosessuali, ha continuato nel suo percorso di attuazione e garanzia di pari dignità per le famiglie omogenitoriali.

Il caso preso in considerazione dalla sentenza in commento, ha riguardato due donne, una di cittadinanza italiana, l’altra spagnola, che dopo essersi sposate in Spagna (dove il matrimonio tra persone delle stesso sesso è consentito ormai da più di un decennio cfr Ley 13/2015), avevano deciso di allargare la famiglia, ricorrendo a tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA), consentita nell’ordinamento spagnolo per le coppie dello stesso sesso (cfr Ley 14/2006); la donna italiana aveva, quindi, provveduto a donare il proprio materiale genetico, mentre la donna spagnola aveva partorito il bambino, nato poi nel 2011.

Le due donne avevano chiesto la trascrizione dell’atto di nascita del figlio al Comune di Torino, ma sia l’ufficiale di stato civile, che il Tribunale adito successivamente, avevano negato il riconoscimento, per contrasto con l’ordine pubblico. Proposto reclamo, la Corte di Appello di Torino autorizzava la trascrizione dell’atto, rilevando che non sussistesse alcun tipo di contrasto con il concetto di ordine pubblico, e ritenendo che il preminente interesse del minore imponesse il riconoscimento della genitorialità in capo alle due donne.

La questione veniva, quindi, sottoposta alla Corte di Cassazione, la quale con sentenza n. 19599/2016 ha confermato la pronuncia dei giudici di merito, enunciando, in ossequio alla sua funzione nomofilattica, principi di diritto destinati ad avere ampie ricadute applicative nella regolamentazione, in futuro, di fattispecie simili.

La Corte Suprema, in primis, ha ripercorso l’evoluzione giurisprudenziale del concetto di ordine pubblico, sottolineando il riferimento, ormai prevalente, da parte della giurisprudenza di legittimità, alla nozione di ordine pubblico internazionale “da intendersi come complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno (…) ispirati ad esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti e collocati a un livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria”. Gli ermellini, pertanto, sono giunti alla conclusione che il contrasto con l’ordine pubblico internazionale non sia ravvisabile per il solo fatto che la norma straniera sia difforme, a livello contenutistico, da quella italiana; il parametro di riferimento, infatti, è rappresentato esclusivamente dai principi fondamentali che vincolano il legislatore italiano, e non semplicemente dalle norme con cui lo stesso ha esercitato la propria discrezionalità in una determinata materia.

Pertanto, ha affermato la Corte, nel primo principio di diritto enunciato nella sentenza, che il giudice italiano, chiamato a verificare la contrarietà di un atto formato all’estero con l’ordine pubblico, non dovrà semplicemente valutare se tale atto applichi una disciplina più o meno difforme rispetto a quella prevista da una o più norme interne (seppure imperative o inderogabili), ma piuttosto dovrà valutare ”se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.”

Nel proseguire il ragionamento, la Corte Suprema ha evidenziato come, nel caso in esame, vengano in gioco valori quali in primis la tutela del preminente interesse del minore, inteso anche sotto il profilo della sua identità personale e sociale, nonché il diritto delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia, tutti valori di rango costituzionale, tutelati ampiamente, anche a livello internazionale.

Gli ermellini, poi, a seguito di un’accurata analisi delle fonti internazionali in materia, hanno affermato che il preminente interesse del minore, articolato in diverse situazioni giuridiche, consiste anche nel diritto a conservare lo status di figlio legittimamente acquisito sulla base di un atto validamente formato in un altro paese dell’Unione Europea.

In effetti, «il mancato riconoscimento in Italia del rapporto di filiazione, legalmente e pacificamente esistente in Spagna tra [il bambino] e uno dei genitori determinerebbe una ‘incertezza giuridica’, già stigmatizzata dalla Corte EDU (…) che influirebbe negativamente sulla definizione dell’identità personale del minore».

Dopo aver affermato, quindi, il diritto del minore alla continuità transfrontaliera del proprio status, i giudici di legittimità hanno evidenziato come non possa ricadere sullo stesso la scelta, da parte dei genitori, del ricorso ad una tecnica di PMA consentita all’estero, ma attualmente vietata in Italia, in quanto ciò comporterebbe una palese violazione del principio di uguaglianza.

La Corte Suprema, poi, pur riconoscendo che il “best interest of child” sia preminente, ha aderito a quelle posizioni dottrinali che hanno sottolineato come tale interesse debba essere comunque bilanciato anche con altri diritti e/o valori di rango costituzionale, rischiando altrimenti, in caso contrario, di divenire “diritto tiranno” nei confronti di altre situazione giuridiche, costituzionalmente garantite, della persona.

Tuttavia, contrariamente a quanto asserito dai ricorrenti, gli ermellini hanno ritenuto che né la legge 40/2004 in materia di PMA, né l’art. 269, 3° comma c.c., in virtù del quale potrebbe essere madre solo colei che partorisce, contengano principi fondamentali e costituzionalmente vincolanti per il legislatore.

Questa evenienza è del tutto da escludere, anche alla luce della recente sentenza della Corte Costituzionale n. 162/2014 (che ha sancito l’illegittimità costituzionale del divieto di fecondazione eterologa) dalla quale, invece, i giudici di legittimità hanno dedotto che tali fattispecie involgano temi eticamente sensibili, in cui ampia è la discrezionalità del legislatore; pertanto, la Corte ha desunto che non sussista alcun vincolo di tipo costituzionale nei contenuti di tali norme e, che, conseguentemente, non possa essere opposto il concetto di ordine pubblico, ai fini del non riconoscimento dell’atto.

La Corte, quindi, ha escluso categoricamente che lo status filiationis possa dipendere dal ricorso a tecniche di PMA vietate in Italia.

In merito, poi, alla tecnica di procreazione posta in essere dalle due donne, la Corte Suprema ha precisato che la stessa non potesse essere ricondotta né ad una maternità surrogata, né ad una fecondazione eterologa tout court, di cui all’art. 9,comma 3 l.40/2004, che esclude il rapporto di filiazione tra il donatore e il nato. Nel caso in oggetto, infatti, la compagna della donna che ha partorito il bambino ha donato l’ovulo, e quindi, ha contribuito geneticamente alla realizzazione di un progetto genitoriale comune con la donna partoriente, dando luogo a quella che potrebbe essere definita come una fecondazione eterologa parziale, ossia “un’ipotesi di genitorialità realizzata all’interno della coppia, assimilabile alla fecondazione eterologa, dalla quale si distingue per essere il feto legato biologicamente ad entrambe le donne registrate come madri in Spagna (per averlo l’una partorito e per avere l’altra trasmesso il patrimonio genetico)”.

La Corte ha, altresì, ribadito come l’apparato sanzionatorio previsto dalla l. n. 40/2004 non esprima un valore costituzionale superiore e inderogabile, idoneo ad assurgere a principio di ordine pubblico.

Nella prosecuzione del ragionamento, tutto imperniato sulla logica del best interest of child, si è precisato come a tale superiore interesse non possa opporsi il principio enunciato all’art. 269 comma 3 c.c. (mater semper certa est) per il quale, conseguentemente, non può essere considerata madre la donna che abbia contribuito alla nascita del figlio donando il proprio materiale genetico.

I giudici di legittimità hanno ritenuto che tale concezione debba essere rimeditata, anche alla luce delle più recenti evoluzioni tecnico scientifiche, che hanno reso possibile scindere la figura della donna che ha partorito, da colei che ha trasmetto il patrimonio genetico. Applicare rigidamente tale principio significherebbe, infatti, negare in toto la rilevanza del legame genetico, che, invece, è essenziale per l’identità personale del bambino e, sotto il profilo giuridico, per il suo diritto a conoscere le proprie origini (di cui un esempio è l’imprescrittibilità del diritto del figlio nelle azioni di stato).

La Corte non ha condiviso l’impostazione fornita dai ricorrenti, per la quale l’art. 31 della Cost. tutela esclusivamente la maternità che si manifesti con il parto, relegando nel mondo dell’irrilevanza giuridica il contributo della donna che ha trasmesso il proprio patrimonio genetico, tanto più laddove ciò sia avvenuto nell’ambito di un progetto di vita comune, volto a realizzare la bigenitorialità materna. Alla luce anche di quanto espresso dalla giurisprudenza europea (v. Corte EDU Mennesson), sempre più volta a garantire il riconoscimento di atti di nascita formati all’estero, in conformità alla lex loci, laddove vi sia un legame genetico tra l’aspirante genitore e il nato,  la Corte ha ritenuto che l’art. 269 comma 3 c.c. non contenga un principio di rango costituzionale, e che, pertanto, non sia opponibile un principio di ordine pubblico da tale regola, che possa negare il riconoscimento dell’atto di nascita validamente formato all’estero.

Al last, but non least la Corte  ha formulato una considerazione di ampio rilievo.

Contestando l’ottica preminente, in virtù della quale la relazione tra persone dello stesso sesso debba essere considerata esclusivamente su un piano orizzontale, e quindi, non come luogo di accoglienza di figli, sia adottivi che naturali, i giudici di legittimità hanno affermato, seppur non espressamente, un principio di diritto di rilevanza fondamentale .

Orbene, se l’unione tra persone dello stesso sesso deve essere considerata come formazione sociale tutelata ex art. 2 Cost, in cui l’individuo esplica la sua personalità, la Corte ha ritenuto che debba escludersi categoricamente che possa esistere, a livello costituzionale, un divieto per le coppie same sex di accogliere e generare figli; il desiderio di divenire genitori, e di formare una famiglia, infatti, costituisce esplicazione della libertà di autodeterminarsi, ricondotta agli artt. 2, 3, 31 Cost (e si badi, non all’art. 29 Cost.), come da ultimo affermato dalla Corte Cost. nella sentenza n. 162/2014; pertanto, è necessario che tale libertà venga in rilievo a condizioni non discriminatorie rispetto a quelle consentite dalla legge a persone dello stesso sesso.

Conseguentemente, si è ritenuto, che i figli non possano essere discriminati e subire, quindi, una condizione deteriore, che vada eventualmente ad incidere sul loro status, in ragione della diversità di sesso dei genitori.

Richiamando, quindi, il recente orientamento[1] col quale si è dato il via libera alla stepchild adoption per le coppie omosessuali, la Corte ha affermato come ormai “la famiglia debba essere sempre di più intesa come comunità di affetti incentrata sui rapporti concreti che si instaurano tra i suoi componenti”, e che al diritto spetti unicamente il compito di contemperare gli interessi in conflitto, avendo sempre come obiettivo quello del preminte interesse del minore.

Pertanto, alla stregua dell’ampio ragionamento esposto, si è ritenuto non opponibile alcun principio di ordine pubblico al riconoscimento di un atto di nascita, regolarmente formato all’estero, di un bambino nato da due donne (avendolo una partorito e l’altra contribuito con donazione del proprio materiale genetico); i giudici di legittimità, quindi, con una sentenza a dir poco storica, hanno confermato quanto statuito dalla Corte di Appello di Torino, ritenendo che il legame di filiazione debba essere riconosciuto nei confronti di entrambe le donne, e conseguentemente, hanno autorizzato la trascrizione dell’atto.


[1] Corte di Cassazione, I sez. civ. sent. n.12962/2016

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