Cassazione: nuove coordinate sul diritto a conoscere le proprie origini
Con la recente sentenza n.15024/2016 la Corte di Cassazione è tornata ad affrontare la delicata questione attinente alla portata del diritto del figlio a conoscere le proprie origini.
Il caso in esame concerneva la richiesta effettuata da una donna e indirizzata al Tribunale per i minorenni, volta ad ottenere i dati relativi alla madre biologica. Il Tribunale respingeva la richiesta in parola, sostenendo che il decesso della madre non poteva valere come revoca della volontà della stessa a restare anonima. L’orientamento veniva poi confermato in Corte d’Appello a seguito di reclamo della istante.
Tuttavia la Suprema Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul punto, ha cambiato impostazione, sottolineando la rilevanza oggi attribuita, soprattutto a livello internazionale, al diritto del figlio a conoscere le proprie origini.
Il tema non è privo di insidie, in quanto si pone un delicato bilanciamento tra opposti valori e interessi. In particolare infatti, vengono in gioco il diritto dell’adottato ad accedere ai dati inerenti la propria storia familiare e il diritto della madre all’anonimato, che si inserisce nel più ampio diritto all’autodeterminazione.
Tale conflitto è stato più volte affrontato dalla Corte Europea che già nel 1989 con la sentenza Gaskin c. Regno Unito, ha affermato che la conoscenza delle informazioni relative alla nascita e all’infanzia è necessaria per la formazione della personalità ed è espressione del diritto al rispetto della vita privata e familiare sancito dall’art 8 CEDU.
La Corte ha pertanto imposto agli Stati membri l’adozione di adeguati mezzi volti a garantire un effettivo contemperamento degli opposti interessi e, con la sentenza Odièvre (del 2003) ha elogiato il sistema francese che, da un lato, riconosce il fondamentale diritto della donna all’anonimato, dall’altro, istituisce un apposito organismo (il Consiglio nazionale per l’accesso alle origini personali) con il compito di gestire la revoca del segreto.
Di un simile meccanismo è stato ritenuto privo l’ordinamento italiano, che nel 2012, è stato condannato dai giudici europei.
Sulla scia di tali pronunce, si colloca la sentenza della Corte Cost. n. 278/2013, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 28 comma 7 della legge 184/1983 (Diritto del minore ad una famiglia), (come sostituito dell’art 177 co 2, d.lgs.196/2003), nella parte in cui non prevedeva la possibilità per il giudice di interpellare la madre che avesse dichiarato di non voler essere nominata. La norma infatti finiva per rendere irreversibile la dichiarazione della donna di mantenere segreta la propria identità e non garantiva il diritto del figlio a conoscere le proprie origini, violando così gli artt 2 e 3 Cost.
Prendendo atto della pronuncia da ultimo citata, la Suprema Corte ha ribaltato l’interpretazione fornita dal giudice di prime cure, affermando che negare al figlio la possibilità di accedere alle informazioni relative alla propria storia biologica e familiare, a seguito del decesso della madre, comporta di fatto la “cristallizzazione” della scelta di anonimato, ritenuta costituzionalmente illegittima dalla Consulta.
In particolare la Corte evidenzia come la decisione di riservatezza operata dalla donna risponda a particolari esigenze personali, ambientali e culturali, esistenti al momento del parto. Pertanto, accogliendo la tesi della irreversibilità della segretezza, si giungerebbe ad un paradossale “affievolimento, se non alla definitiva scomparsa, di quelle ragioni di protezione, risalenti alla scelta di partorire in anonimo” ed inoltre si comprometterebbe definitivamente il diritto fondamentale del figlio a conoscere le proprie origini.
La Cassazione conclude quindi ritenendo che a seguito della morte della madre biologica che scelse l’anonimato, l’interesse alla riservatezza diventi recessivo nei confronti del diritto del figlio adottivo ad accedere ai dati concernenti le proprie origini. Si tratta invero di un diritto particolarmente tutelato che trova il proprio fondamento non solo nella Costituzione Italiana, ma anche nell’art. 7 della Convenzione di New York del 1989, nell’art 30 della Convenzione dell’Aja del 1993 e, come già chiarito, nell’art 8 CEDU.
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