Cassazione: punito per estorsione chi ricatta l’amante
Cass. Pen., sez. II, sentenza n. 49315/2016
Il fatto
Una donna minaccia un uomo, suo amante, di rivelare alla di lui coniuge la loro relazione e, di conseguenza, il tradimento perpetrato dall’uomo se questi non le avesse corrisposto una somma di denaro pari a tremila Euro. Il giudice di secondo grado aveva ritenuto integrato nel caso di specie non più il reato di estorsione (art. 629 c.p.), bensì quello di violenza privata (art. 610 c.p.).
A ciò era seguita l’impugnazione proposta dal Procuratore Generale della Corte d’Appello di Napoli, avente ad oggetto proprio la pronuncia con la quale la Corte d’Appello partenopea aveva disposto la riqualificazione giuridica del fatto oggetto di contestazione, per la circostanza che la donna aveva lavorato proprio alle dipendenze del proprio amante, con la possibilità di configurare la riferibilità della somma ottenuta ad un qualche credito di lavoro. Tale versione, per la pubblica accusa, sarebbe però esclusa dalla sussistenza di altri dati, quali, tra gli altri, la confessione dell’imputata medesima, nella quale si ammetteva di aver minacciato l’uomo per ottenere i soldi di cui aveva bisogno, nonchè il fatto di aver lavorato per la vittima per sole due settimane, periodo non tale da non poter giustificare la corresponsione della somma considerata.
La decisione
La Seconda Sezione Penale della Cassazione accoglie la ricostruzione del ricorrente.
Secondo gli Ermellini, infatti, la conferma di tale ricostruzione si fonderebbe, essenzialmente, sulla verifica della sussistenza o meno di un elemento costitutivo del delitto di estorsione quale, specificamente, l’ingiustizia del danno. Proprio sulla base delle risultanze probatorie evidenziate nel ricorso quali, appunto, la confessione della donna e la brevità del periodo di lavoro considerato emergerebbe indiscutibilmente la ricorrenza di tale elemento, erroneamente escluso invece dalla Corte d’Appello in virtù del rapporto di lavoro intercorrente tra i due. Il collegio, in materia di diagnosi differenziale tra il delitto di violenza privata e quello di estorsione, ribadisce che quest’ultimo è configurabile, differentemente dal primo, laddove l’agente, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, faccia uso della violenza o della minaccia per costringere il soggetto passivo a fare od omettere qualcosa che gli procuri un danno economico. Pur non escludendosi, tuttavia “l’efficacia coercitiva dell’azione minatoria posta in essere dall’imputata”, essa è però stata ritenuta insufficiente a giustificare la riqualificazione del fatto in termini di violenza privata.
La sentenza impugnata deve dunque essere annullata con rinvio per un nuovo giudizio.
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