Clima velenoso, sanzione disciplinare: no alla malattia professionale
Respinta ogni pretesa di un vigile urbano nei confronti del Comune. Generico e non sufficiente il richiamo a un presunto clima velenoso in ufficio. Impossibile collegare la malattia lamentata dall’uomo con i problemi in ambito lavorativo.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, sez. Lavoro, con la sentenza n. 6495 depositata il 4 aprile 2016.
Un vigile urbano lamentava l’insorgere di una “sindrome psicotica-neurotica”, con annessa insonnia, a suo dire causata da un ambiente di lavoro ostico. Sicché, pretendeva il riconoscimento della «causa di servizio».
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello, però, rigettavano le richieste dell’uomo rilevando che non era stata fornita una «descrizione puntuale dei fatti che avrebbero generato la patologia» e mancava la prova del «nesso di casualità tra gli episodi verificatisi sul luogo di lavoro e le patologie riscontrate».
Troppo generico, e quindi inutile, il «semplice richiamo», fatto dal vigile, ad un «ambiente ostico».
Anche gli Ermellini hanno avallato le sentenze di merito affermando che non basta il riferimento ad un «ambiente di lavoro ostico» né appare rilevante il presunto «clima» velenoso, asseritamente provocato dalla «sottoposizione a un ingiusto procedimento disciplinare» ad opera del Comandante del Corpo di Polizia municipale.
Nessun collegamento, quindi, tra i fatti. In altri termini, manca la dimostrazione del «nesso» tra la «patologia» e la «prestazione lavorativa».
Respinta, quindi, l’ipotesi della “malattia professionale” e della “causa di servizio”. Impossibile, di conseguenza, pensare a un risarcimento da parte dell’ente pubblico.
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