Coltivazione di sostanza stupefacente e offensività (in concreto): il tramonto del principio di tassatività
Cass. pen., sez. VI, 15 settembre 2016 – 26 settembre 2016, n. 40030.
Il Gup del Tribunale di Siracusa dichiarava il non luogo a procedere nei confronti di D.S.C. in ordine al reato di coltivazione di sostanze stupefacenti, in concorso con altri, al medesimo ascritto (art. 110, art. 75, comma 5, in relazione al d.P.R. n. 309/90, art. 73, comma 4) per aver coltivato un’unica piantina di marijuana in terrazzo con principio attivo di THC pari al 1,8%.
Secondo il giudice, la percentuale di principio attivo ricavabile dalla pianta, tale da garantire dodici dosi, ciascuna determinata secondo la dose media singola indicata dal D.M. 11 aprile 2006, consentiva ragionevolmente di apprezzare un uso personale della sostanza e, nell’esclusione di una possibile diffusione o ampliamento della coltivazione della stessa, escludeva nel contempo la lesione al bene giuridico che la norma di previsione della contestata fattispecie tutela.
Avverso la decisione, proponeva ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Siracusa denunciando violazione di legge penale, in relazione agli artt. 425, 428 c.p.p..
Nello specifico, il ricorrente deduceva l’irrilevanza della quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza dalla pianta oggetto di coltivazione, rinvenendosi invece nella conformità di quest’ultima al tipo botanico previsto e nella sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione ed a produrre sostanza stupefacente, un riscontro in concreto della offensività della condotta.
La S.C. rigettava il ricorso.
Per giurisprudenza costante, la punibilità per la coltivazione non autorizzata di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti va esclusa soltanto se il giudice ne accerti l’inoffensività “in concreto”.
Ciò si determina nel momento in cui la condotta sia così trascurabile da rendere sostanzialmente irrilevante l’aumento di disponibilità della droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione di essa, restando in tal senso non sufficiente l’accertamento della conformità al tipo botanico vietato (Cass. pen., sez. IV, 19 gennaio 2016, n. 3787; Cass. pen., sez. VI, 17 febbraio 2016, n. 8058).
Ne discende che il mero dato quantitativo non sia sufficiente a costituire il fondamento della condanna per il reato ex art. 73 d.P.R. n. 309/90, poiché il giudicante è altresì chiamato a valutare l’estensione e il livello di strutturazione della coltivazione, al fine di verificare se da essa possa derivare o meno una produzione potenzialmente idonea ad incrementare il mercato.
Conclude la Cassazione affermando che “nella fattispecie, oggetto dell’impugnata sentenza di non luogo a procedere è la coltivazione di una unica pianta di canapa indiana, curata in vaso e posizionata su un terrazzo di abitazione collocata in contesto urbano, evidenze che obiettivamente escludono che da detta coltivazione possa derivare quell’aumento nella disponibilità della sostanza stupefacente e quel pericolo di ulteriore diffusione che sono gli estremi integrativi della offensività e punibilità della condotta ascritta“
Non è questa la sede per richiamare alla memoria l’annoso – e oramai ampiamente illustrato – dibattito scaturito in merito alla responsabilità per il reato di coltivazione non autorizzata di sostanza stupefacente tenuto conto dell’immanente principio di offensività che informa l’ordinamento penale.
Per completezza e pronto riscontro dell’attuale assetto al riguardo, si segnala la recente Cass. pen., sez. VI, 10 novembre 2015 (ud.), n. 5254/2016.
Si può allora affermare che vi sia un disomogeneo approccio al reato di coltivazione illegittima: nel caso della pronuncia dianzi citata, nel contenuto della sentenza la Corte, dando luogo alla motivazione di diritto, ricorda come “pur se i giudici di merito non si sono pronunciati espressamente sulla destinazione della sostanza ad uso personale o meno, ritenendo che fosse determinante il dato che si trattasse di coltivazione, la quantità assai modesta della droga resa disponibile dalla limitata fonte di produzione (solo due piante), in relazione al valore di mercato “nero” della sostanza stessa conferma che si trattava di droga destinata all’uso personale degli imputati. La decisione di condanna non prende esplicita posizione sul punto poiché è sostanzialmente fondata sull’affermazione che la condotta di coltivazione è sempre punita indipendentemente dalla destinazione dello stupefacente prodotto”.
Cristallizzato, in breve, il fondamento della statuizione del giudice di merito, la S.C. nel prosieguo illustra il principio di offensività, nella duplice accezione “in astratto” e “in concreto“, applicando le coordinate interpretative acquisite al settore degli stupefacenti e, in particolare, al reato di coltivazione.
Dopo un’argomentata motivazione, conclude asserendo che “risulta quindi corretto affermare che l’avere coltivato due piantine, senza alcuna ragione di ritenere che i ricorrenti avessero altre piante non individuate e, quindi, essendo certo che quanto individuato esauriva la loro disponibilità senza alcuna prospettiva di utile distribuzione in favore di terzi consumatori, non è in concreto una condotta offensiva per le ragioni anzidette. Non necessitando ulteriori apprezzamenti di fatto, poiché è sufficiente quanto accertato e valutato dalla sentenza impugnata per decidere nel senso dell’accoglimento del ricorso con assoluzione degli imputati ritenendo che il fatto non sussiste (non è stato realizzato il fatto con le sue caratteristiche di aggressività del bene giuridico) l’annullamento deve essere pronunciato senza rinvio“.
I termini del contrasto che si rinvengono sono sostanzialmente così riassumibili: da un lato, non vi è necessità di osservare il quantitativo di principio attivo ricavabile da una pianta, giacché la legge punisce la mera condotta di coltivazione.
Per altra impostazione, avallata dalla giurisprudenza di legittimità, detto reato deve comunque essere sottoposto al vaglio del principio di offensività.
Siffatta premessa rende agevole la comprensione della critica che segue.
Nella sentenza che si annota, ciò che – nuovamente – colpisce è la direzione univoca della giurisprudenza di legittimità in relazione a tale reato, che si scontra con l’intenzione di “non arrendersi” dei magistrati inquirenti: invero, non di rado, una volta accertato il reato per il tramite della polizia giudiziaria e concluse le indagini preliminari con volontà di esercitare l’azione penale, si riscontra come la “pubblica accusa” non voglia accettare che il proprio operato sia vanificato da un principio di offensività dilatato al punto tale da consentire il superamento dell’evidente materialità – e riconducibilità a una specifica fattispecie – delle illecite condotte riscontrate.
A prescindere dalla posizione che si voglia assumere, a parere di chi scrive il principio di offensività è senza dubbio un faro di legalità diretto nei confronti del legislatore e dell’interprete, ma non può celatamente costituire uno strumento per eludere una norma giuridica.
Appare quindi assurdo che un fatto di coltivazione, chiaro e accertato senza dubbi nella sua materialità, venga derubricato [rectius-depenalizzato] in una inesistente “coltivazione per uso personale“, illecito che – tra l’altro – non trova alcun riferimento nell’art. 75 d.P.R. n. 309/90, a mente del quale “chiunque illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope fuori dalle ipotesi di cui all’articolo 73, comma 1-bis, o medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope…”.
Si è certi che la tesi ora esposta non avrà altro destino che unirsi alla corrente di pensiero che veleggia contro corrente rispetto al vento costituito dai principi maggioritari che, sul tema, sono stanti sanciti dalla Suprema Corte.
Eppure, lungi dall’essere una scienza esatta, il diritto deve garantire che le interpretazioni minoritarie mantengano comunque una dignità, poiché anche il confrontarsi con idee differenti può essere di ausilio per vagliare la fondatezza degli orientamenti maggioritari.
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Filippo Marco Maria Bisanti
Dottore magistrale in Giurisprudenza - Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano;
Dottore in Operatori della Sicurezza Sociale - Facoltà di Scienze Politiche - Università degli studi Cesare Alfieri di Firenze;
Diplomato alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali - Università Guglielmo Marconi di Roma;
Esito positivo del tirocinio formativo ex art. 73 d.l. 69/2013, conv. in l. 98/2013, svolto presso la Sezione Penale del Tribunale Ordinario di Trento (dicembre 2014-giugno 2016);
Cultore della materia presso la cattedra di Diritto civile dell’Università degli Studi di Trento,
Cultore della materia presso la cattedra di Istituzioni di diritto privato dell’Università di Trento
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