Dare del “gay” è diffamazione?
Con sentenza n. 50659 del 2016 la V sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che dare dell’ “omosessuale” a qualcuno non è denigratorio.
Nel caso in esame, il Giudice di Pace di Trieste aveva configurato come reato di diffamazione l’aver pronunciato la parola “omossessuale” nei confronti di un soggetto, condannando l’imputato alla pena pecuniaria prevista all’art. 595 c.p, che disciplina il reato di diffamazione.
Avverso tale decisione veniva proposto appello dall’imputato, deducendo errata applicazione della legge penale, nonché vizi di motivazione in merito alla configurabilità in concreto e in astratto del reato contestato. Veniva, inoltre, contestata la stessa natura offensiva del termine “omosessuale”, avendo perso tale termine nell’evoluzione linguistica il carattere lesivo, ed infine, veniva eccepito il difetto dell’elemento soggettivo del reato.
I Giudici di Piazza Cavour nell’accogliere il ricorso, prendono le mosse dall’oggetto della tutela nel reato di diffamazione che, secondo la tradizionale elaborazione di dottrina e giurisprudenza, è l’onore in senso oggettivo o esterno, ossia la reputazione del soggetto passivo del reato, inteso come dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale. In definitiva, ciò che viene tutelato è l’opinione sociale del “valore” della persona offesa dal reato. Tuttavia, soprattutto in dottrina, è emersa nel tempo un’ulteriore e diversa concezione di onore, da intendersi come attributo originario dell’individuo, essendo questo un valore intrinseco della persona umana, e che supera la dicotomia tra onore in senso oggettivo e soggettivo.
Le due concezioni, continua la Corte, trovano un punto di contatto nel distinguere la lesione della reputazione da quella dell’identità personale che, secondo la definizione di autorevole dottrina, corrisponde al diritto dell’individuo alla rappresentazione della propria personalità agli altri senza alterazioni e travisamenti. Tale diritto può essere violato anche attraverso rappresentazioni offensive dell’onore, ma al di fuori di tale ultimo caso, non ha autonoma rilevanza penale, integrando la sua lesione esclusivamente un illecito civile.
Dunque, la tipicità della condotta del reato di diffamazione consiste nell’offesa della reputazione e, ai fini della sua configurabilità, è, altresì, necessario che i termini utilizzati o il concetto veicolato attraverso di essi siano idonei a ledere la reputazione del soggetto passivo.
Nel caso di specie, secondo la Corte, è da escludere che il termine “omosessuale” utilizzato dall’imputato abbia conservato nell’odierno contesto storico un significato offensivo, come invece poteva accadere in passato.
Infatti, “il termine in questione assume un carattere di per sé neutro, limitandosi ad attribuire una qualità personale al soggetto evocato ed è in tal senso entrato nell’uso comune”.
In particolare, “è da escludersi che la mera attribuzione della suddetta qualità – attinente alle preferenze sessuali dell’individuo – abbia di per sé un carattere lesivo della reputazione del soggetto passivo e ciò tenendo conto dell’evoluzione della percezione della circostanza da parte della collettività, quale che sia la concezione dell’interesse tutelato che si ritenga da accogliere”.
Conseguentemente, la Corte annullava la sentenza senza rinvio perché il fatto non sussiste.
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Alessandra Giannone
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