Detenzione immorale e diritto al risarcimento. Italia condannata
Note a margine della sent. Richmond Yaw e altri c. Italia
Nella causa Richmond Yaw e altri c. Italia, la Corte europea dei diritti dell’uomo (prima sezione), ha condannato lo Stato italiano a risarcire i ricorrenti del danno morale patito (quantificato in 6.500 EUR a ciascun ricorrente, più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta) a seguito di un’ingiusta detenzione da loro subita ai fini dell’esecuzione di una misura di accompagnamento alla frontiera. Tra le politiche di controllo rivolte ai migranti irregolari rientrano le misure privative della libertà personale, che permettono agli Stati di trattenere queste persone in un luogo sul territorio al fine di facilitare il loro ritorno. Si tratta di una particolare forma di detenzione che è solitamente legata alla mancanza delle condizioni che autorizzano l’ingresso o il soggiorno del cittadino straniero sul territorio dello Stato, senza ricorrere necessariamente al diritto penale. L’aumento dei flussi migratori e la crescente tendenza alla criminalizzazione dell’immigrazione hanno condotto ad un generale recupero della sovranità statale, concepita come necessità di garantire l’integrità territoriale. Il controllo delle frontiere è diventato un aspetto essenziale della statualità moderna. In ogni caso, lo sviluppo di strumenti di tutela dei diritti umani, pur non espropriando lo Stato del potere di decidere le condizioni di ammissione dello straniero sul proprio territorio, permette di individuare i limiti di legittimità del ricorso ad una misura detentiva strumentale all’attuazione delle politiche statali in materia di immigrazione, definendo i limiti e i criteri di compressione dei diritti e delle libertà fondamentali.
La vicenda muove da quattro ricorsi (nn. 3342/11, 3391/11, 3408/11 e 3447/11) proposti contro la Repubblica italiana con cui quattro cittadini ghanesi, hanno adito la Corte il 26 novembre 2010 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. I ricorrenti sono quattro cittadini ghanesi fuggiti dal loro paese in seguito agli scontri interreligiosi e arrivati in Italia nel giugno 2008. Il 20 novembre 2008 il Prefetto di Caserta notificò ai ricorrenti i rispettivi decreti di espulsione, prevedendo che i questi dovessero essere ricondotti alla frontiera dopo la convalida del giudice di pace. Lo stesso giorno, la prefettura dispose che i ricorrenti fossero trattenuti presso il centro di identificazione e di espulsione («il CIE») di Ponte Galeria, a Roma, per procedere alla loro identificazione. Il 17 dicembre 2008, senza avvisare i ricorrenti né il loro avvocato, il giudice di pace di Roma prorogò la misura del trattenimento fino al 23 gennaio 2009 in quanto la procedura di identificazione degli interessati non era stata completata. Con sentenza dell’8 giugno 2010, la Corte di Cassazione accogliendo il ricorso dei ricorrenti, annullò la decisione del giudice di pace di Roma e dichiarò nullo il provvedimento che disponeva il trattenimento in quanto era stato adottato de plano, senza udienza e senza la partecipazione dei ricorrenti e del loro avvocato. Nella sua decisione, l’alta giurisdizione rammentava che nel 2010 aveva già dichiarato che i principi di cui all’articolo 14, commi 5 e 6, del decreto legislativo n. 286/98[1] si applicavano anche alla proroga della misura che disponeva il trattenimento e che pertanto la decisione del giudice di pace adottata de plano, senza rispetto del principio del contraddittorio, era nulla. In seguito, la Corte di cassazione rammentava che la Corte costituzionale, che si era pronunciata sulla legittimità costituzionale dell’articolo 13, comma 5 bis del decreto legislativo n. 286/98, aveva dichiarato, nella sentenza n. 222 del 2004[2], che tale disposizione era incostituzionale nella parte in cui non prevedeva che la convalida della decisione di trattenimento doveva svolgersi nel rispetto dei principi del contraddittorio e dei diritti della difesa e che, inoltre, tali principi dovevano applicarsi anche in caso di proroga della misura. Il 3 febbraio 2011 i ricorrenti intentarono quattro azioni civili dinanzi al tribunale di Roma contro lo Stato, dirette contro il Ministero dell’Interno e il Ministero della Giustizia, in riparazione del danno che ritenevano di aver subito in ragione della loro detenzione dal 24 novembre 2008 al 14 gennaio 2009.
La Corte, nella sua motivazione, ricorda che l’articolo 5 della Convenzione sancisce un diritto fondamentale, la protezione dell’individuo da qualsiasi attacco arbitrario dello Stato al suo diritto alla libertà. I commi da a) a f) dell’articolo 5 § 1 della Convenzione contengono una lista esaustiva dei motivi per i quali una persona può essere privata della sua libertà; ne deriva che tale misura non è regolare se non riconducibile a uno di tali motivi. Inoltre, solo una interpretazione riduttiva risulta conforme allo scopo di questa disposizione: assicurare che nessuno venga arbitrariamente privato della sua libertà[3]. La privazione della libertà deve pertanto in chiave convenzionale essere connotata dal predicato della «regolarità». In materia di «regolarità» di una detenzione, compreso il rispetto delle «vie legali», la Convenzione rinvia in sostanza alla legislazione nazionale[4] e sancisce l’obbligo di osservarne le norme di merito e di procedura, e per di più esige che qualsiasi privazione della libertà sia conforme allo scopo dell’articolo 5 della Convenzione: proteggere l’individuo dall’arbitrarietà[5]. Esigendo che qualsiasi privazione della libertà sia effettuata «secondo le vie legali», l’articolo 5 § 1 della Convenzione impone, in primo luogo, che qualsiasi arresto o detenzione abbia una base legale nel diritto interno. Tuttavia, questi termini non si limitano a rinviare al diritto interno, ma riguardano anche la qualità della legge, che deve essere compatibile con la preminenza del diritto transnazionale, nozione inerente a tutti gli articoli della Convenzione. Su quest’ultimo punto, la Corte sottolinea che, quando si tratta di una privazione della libertà, è particolarmente importante soddisfare il principio generale della certezza del diritto. Di conseguenza, è essenziale che le condizioni di privazione della libertà in virtù del diritto interno siano definite chiaramente e che la legge stessa sia prevedibile nella sua applicazione, in modo da soddisfare il criterio di «legalità» stabilito dalla Convenzione, che esige che ogni legge sia sufficientemente precisa per permettere al cittadino – che eventualmente potrà avvalersi di consulenti illuminati – di prevedere, ad un livello ragionevole nelle circostanze della causa, le conseguenze che possono derivare da un determinato atto[6].
Nella fattispecie in fatto, la Corte rileva anzitutto i seguenti elementi. Il 20 novembre 2008 i ricorrenti sono stati assegnati al centro di identificazione e di espulsione per una durata di trenta giorni, e la misura con cui erano stati sottoposti a detenzione è stata convalidata dal giudice competente. L’11 dicembre 2008 il capo della polizia ha chiesto al giudice di pace di Roma di prorogare di trenta giorni la detenzione dei ricorrenti. Il 17 dicembre 2008 il giudice di pace ha prorogato la detenzione fino al 23 gennaio 2009 in quanto la procedura di identificazione dei ricorrenti non si era conclusa, ma senza informarne né gli interessati né il loro avvocato, senza tenere udienze e senza rispettare i principi già stabiliti dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione nel 2002 e nel 2004. La Corte rileva, ancora, che la giurisprudenza interna era già chiara nel 2002 circa la necessità di rispettare il principio del contraddittorio, anche in caso di proroga di una misura di detenzione, e ritiene che l’omessa convocazione degli interessati e del loro avvocato e l’omessa fissazione di una udienza costituiscano una «irregolarità grave e manifesta», ai sensi della sua giurisprudenza[7], e che tale situazione abbia comportato la nullità di questa parte della detenzione. In queste circostanze, la Corte conclude che la proroga della detenzione dei ricorrenti dal 17 dicembre 2008 al 14 gennaio 2009 ai fini della loro espulsione non fosse conforme alle vie legali. Pertanto, vi è stata la violazione dell’articolo 5 § 1 f) della Convenzione.
Accertata la violazione della Convenzione, i ricorrenti, in qualità di vittime, hanno affermato di non disporre, nel diritto italiano, di alcun mezzo per ottenere riparazione per le violazioni da loro denunciate. Esiste, infatti, un principio internazionale generale che sancisce l’obbligo per gli Stati di approntare, per le vittime di gravi violazioni dei diritti umani, riparazioni consone, effettive e prontamente disponibili. In conformità a tale principio generale, i soggetti che, secondo il giudizio di una Corte, sia essa interna o internazionale, o di ogni altra autorità competente, siano stati detenuti in seguito ad un provvedimento erroneo, possono richiedere un risarcimento alle autorità nazionali, per l’illegittima violazione della libertà personale. Questo diritto può essere fatto valere nei casi di privazione della libertà contraria al diritto nazionale o che rispetta tale normativa, ma è in contrasto con le garanzie previste dalla Convenzione[8]. Invocavano, pertanto, l’articolo 5 § 5 della Convenzione, segnalando che la Corte e la CGUE rispettivamente nelle cause Zeciri e Seferovic c. Italia (n. 12921/04, 8 febbraio 2011) e nella causa C-173/03 Traghetti del Mediterraneo S.p.A. c. Italia (sentenza del 13 giugno 2006), hanno dichiarato che né il ricorso previsto dall’articolo 314 del CPP né l’azione di responsabilità civile dei magistrati costituivano dei rimedi effettivi[9].
La Corte sul punto considera che il paragrafo 5 dell’articolo 5 della Convenzione è rispettato quando è possibile chiedere riparazione per una privazione della libertà operata in condizioni contrarie ai paragrafi 1, 2, 3 o 4 dello stesso articolo (Wassink c. Paesi Bassi, 27 settembre 1990, § 38, serie A n. 185 A). Nel caso di specie la Corte ha constatato che la proroga della detenzione dei ricorrenti è stata irregolare e che la Corte di Cassazione aveva riconosciuto la nullità di detta proroga. Di conseguenza, deve essere esaminata la questione di stabilire se i ricorrenti disponessero nel diritto italiano di un diritto a ottenere riparazione, ai sensi dell’articolo 5 § 5 della Convenzione. La riparazione per l’ingiusta detenzione ha un fondamento squisitamente solidaristico, ed in presenza di una lesione della libertà personale, rivelatasi comunque ingiusta con accertamento ex post, si deve avere riguardo unicamente alla oggettività della lesione stessa. L’assenza di una misura di tal guisa contrasterebbe con l’articolo 24, quarto comma, Costituzione, che demanda alla legge di determinare le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari, senza delimitare in alcun modo la tipologia degli stessi, dal momento che tale principio ha trovato «il suo logico sviluppo e la conferma», a livello internazionale, nell’articolo 5, paragrafo 5, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che prevede, appunto, che ogni persona vittima di detenzione ingiusta ha diritto a un indennizzo, e a livello nazionale nel preambolo dell’articolo 2 della legge delega per l’emanazione del nuovo Cpp (legge 81/1987), che prescrive l’adeguamento alle norme delle convenzioni internazionali, e nell’articolo 2, n. 100, della medesima legge, che impone al Governo di introdurre la riparazione per l’ingiusta detenzione, senza operare distinzioni di sorta. La Corte osserva, però, che l’articolo 314 del CPP, che si presume fornisca un rimedio in caso di «ingiusta» detenzione, non è applicabile nel caso dei ricorrenti. Per quanto concerne il diritto alla riparazione per «l’ingiusta» detenzione, l’articolo 314 del CPP prevede il diritto alla riparazione in due casi distinti: quando, all’esito di un giudizio di merito, l’accusato è prosciolto (riparazione per ingiustizia detta «sostanziale», prevista dal comma 1) ovvero quando è stato accertato che l’indagato è stato sottoposto a custodia cautelare in carcere senza che sussistessero le condizioni previste dagli articoli 273 e 280 del CPP (riparazione per ingiustizia detta «formale», prevista dal comma 2). Nulla è previsto nel caso di accertata violazione delle norme convenzionali, ponendo sul tema un forte dubbio di legittimità costituzionale ex att. 3, 24 e 117 Cost.. Quindi, in assenza di un diritto alla riparazione nel diritto nazionale per violazione dell’art. 5, il paragrafo 5 di tale disposizione risulta violato, anche se la detenzione è legittima per il diritto interno. Per suddette ragioni la Corte si è vista costretta a concludere che vi è stata inosservanza del paragrafo 5 dell’articolo 5 della Convenzione, stabilendo che i ricorrenti dovessero considerarsi ‘vittima’ di una violazione dei propri diritti ai sensi dell’art. 34 della CEDU. Va risarcito qualsiasi tipo di pregiudizio, materiale o morale, derivante dalla violazione; tuttavia, si noti che l’articolo 5, n. 5, non vieta agli Stati nazionali di far dipendere la concessione del risarcimento dalla capacità della persona interessata di dimostrare l’entità dei danni derivanti dalla violazione.. In considerazione di quanto sopra esposto, la Corte ha ritenuto che i ricorrenti non disponessero di alcun mezzo per ottenere, con un sufficiente grado di certezza, la riparazione per la violazione dell’articolo 5 § 1 f) della Convenzione. Ai sensi dell’articolo 41[10] della Convenzione, è stato pertanto riconosciuto loro un congruo indennizzo.
[1] Sul punto si consideri altresì il co 4 dell’art.14 che recita ‹‹L’udienza per la convalida si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria di un difensore tempestivamente avvertito. L’interessato è anch’esso tempestivamente informato e condotto nel luogo in cui il giudice tiene l’udienza››.
[2] Il percorso della presente decisione è interamente segnato dalla sentenza n. 105 del 2001. La Corte si occupò, in quella circostanza, del trattenimento presso i centri di permanenza temporanea ed assistenza, misura che, ai sensi dell’art. 14, comma 4, del d.lgs. n. 286 del 1998, viene disposta dal questore ed è soggetta a convalida da parte del giudice sentito l’interessato, con cessazione di ogni effetto in caso di diniego di convalida o di mancata convalida entro il termine di quarantotto ore. Si dolevano allora i remittenti che l’accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica, al quale era finalizzato il trattenimento, sfuggisse al controllo dell’autorità giudiziaria, con conseguente violazione dell’art. 13 Cost. Il procedimento regolato dall’art. 13, comma 5-bis, contravviene ai principî affermati da questa Corte nella sentenza sopra ricordata: il provvedimento di accompagnamento alla frontiera è eseguito prima della convalida da parte dell’autorità giudiziaria. Lo straniero viene allontanato coattivamente dal territorio nazionale senza che il giudice abbia potuto pronunciarsi sul provvedimento restrittivo della sua libertà personale. È’, quindi, vanificata la garanzia contenuta nel terzo comma dell’art. 13 Cost., e cioè la perdita di effetti del provvedimento nel caso di diniego o di mancata convalida ad opera dell’autorità giudiziaria nelle successive quarantotto ore. E insieme alla libertà personale è violato il diritto di difesa dello straniero nel suo nucleo incomprimibile. La disposizione censurata non prevede, infatti, che questi debba essere ascoltato dal giudice, con l’assistenza di un difensore. Non è certo in discussione la discrezionalità del legislatore nel configurare uno schema procedimentale caratterizzato da celerità e articolato sulla sequenza provvedimento di polizia-convalida del giudice; tuttavia quale che sia lo schema prescelto, in esso devono realizzarsi i principi della tutela giurisdizionale; non può, quindi, essere eliminato l’effettivo controllo sul provvedimento de libertate, né può essere privato l’interessato di ogni garanzia difensiva.
[3] Si vedano, tra molte altre, Giulia Manzoni c. Italia, 1° luglio 1997, § 25, Recueil 1997-IV, e Velinov c. l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia, n. 16880/08, § 49, 19 settembre 2013
[4] L’articolo 314 del codice di procedura penale (CPP) prevede un diritto alla riparazione in due casi distinti: se l’imputato è prosciolto all’esito del procedimento penale nel merito (riparazione per ingiustizia cosiddetta «sostanziale», prevista dal comma 1) o qualora sia accertato che la persona sospettata è stata sottoposta o mantenuta in custodia cautelare in violazione degli articoli 273 e 280 del CPP (riparazione per ingiustizia detta «formale» (comma 2). Con sentenza n. 310 del 1996 la Corte costituzionale ha stabilito che, al di là dei casi previsti dall’articolo 314 del CPP, i singoli hanno diritto a un risarcimento anche nel caso in cui la detenzione «ingiusta» derivi dall’illegittimità di un ordine di esecuzione della pena. Successivamente, nella sentenza n. 284 del 2003 la Corte costituzionale ha precisato che il diritto alla riparazione per «ingiusta» detenzione non è escluso per la sola ragione che l’ordine di esecuzione è legittimo o che la detenzione è la conseguenza di un comportamento legittimo delle autorità interne. Essa ha quindi sottolineato che, ciò che conta è l’obiettiva ingiustizia della privazione della libertà.
[5] Si vedano Herczegfalvy c. Austria, 24 settembre 1992, § 63, serie A n. 244, e L.M. c. Slovenia, n. 32863/05, § 121, 12 giugno 2014
[6] Si vedano Baranowski c. Polonia, n. 28358/95, §§ 50-52, CEDU 2000-III, Ječius c. Lituania, n. 34578/97, § 56, CEDU 2000-IX, e Mooren c. Germania [GC], n. 11364/03, § 76, 9 luglio 2009
[7] Si veda, a contrario, Hokic e Hrustic c. Italia, n. 3449/05, §§ 23-24, 1° dicembre 2009
[8] Si veda in tema la sentenza del 28 novembre 2000, Rehbock c. Slovenia.
[9] La Corte di giustizia si spinge sino a dichiarare la manifesta violazione del diritto comunitario affermando che quest’ultimo «osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale» e che «il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente» (paragrafo 46 della sentenza in esame).
[10] Così recita «Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»
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Fabio Squillaci
Fabio Squillaci è dottore in giurisprudenza, specializzato in Professioni Legali ed allievo del Corso Galli in Napoli. Ha svolto con profitto lo stage ex art. 73 D.L. 69/2013 affiancando un giudice penale presso il Tribunale di Cosenza.
Da sempre amante delle interazioni tra il diritto e le altre scienze, ha collaborato in diverse attività di ricerca.In qualità di cultore della materia collabora con i docenti per lo svolgimento di attività seminariali e di esercitazione, nonché per lo svolgimento degli esami di profitto.
Autore di varie pubblicazioni su Persona e danno,diritto.it e Salvis Juribus, ha di recente pubblicato la monografia “Il diritto storto”.
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