Disciplina sanzionatoria degli stupefacenti e principi costituzionali
Il quadro di riferimento
Nella travagliata storia della disciplina sanzionatoria degli stupefacenti, due sono gli aspetti che hanno orientato le varie riforme: il primo concerne la linea di demarcazione tra illecito penale ed amministrativo, il secondo investe il quantum sanzionatorio e si frastaglia in fatti illeciti di lieve o non lieve entità e nella contrapposizione tra droghe leggere e pesanti.
In relazione al primo profilo, prima del referendum abrogativo del 1990, si utilizzava il criterio oggettivo-quantitativo della “dose media giornaliera” per discernere tra condotte di ricezione, acquisto e detenzione penalmente o solo amministrativamente rilevanti: il limite della dose media giornaliera operava, pertanto, quale limite negativo della fattispecie, incriminando penalmente solo la detenzione di sostanze contenenti un quantitativo di principio superiore a quello consentito.
L’esito del referendum ha comportato l’abrogazione sia delle norme che sanzionavano penalmente la detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti che dell’inciso che escludeva la rilevanza penale delle condotte aventi ad oggetto la detenzione in dose non superiore a quella media giornaliera.
Ne è derivato che attualmente, ai sensi dell’art. 75 del D.P.R., il discrimen tra illecito amministrativo e penale non è più ancorato ad un limite quantitativo fisso (dose media giornaliera), bensì al criterio teleologico del consumo personale.
Sotto il secondo profilo relativo al quantum sanzionatorio, la disciplina va oggi ricostruita avendo riguardo, da un lato, agli esiti della sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per eccesso di delega, degli articoli 4-bis e 4-vicies ter del d.l. n. 272/2005, così rimuovendo le modifiche che tali articoli apportavano all’originaria versione del D.P.R. del ‘90); dall’altro, all’intervento correttivo e integrativo del legislatore, principalmente realizzato con il d.l. 146/2013 (che ha apportato modifiche al fatto di lieve entità di cui all’articolo 73, comma 5, trasformandolo in reato autonomo e riducendone le pene edittali) e, poi, con il d.l. 36/2014 (che ha ulteriormente ridotto le pene per il fatto di lieve entità e confermato, dopo l’intervento della Corte costituzionale, la scelta di distinguere dal punto di vista sanzionatorio le droghe «pesanti» dalle droghe «leggere»).
È opportuno, quindi, distinguere tra i fatti illeciti “non lievi” e i fatti illeciti “lievi”.
Per i fatti “non lievi”, norma cardine del sistema sanzionatorio penale è l’articolo 73 del D.P.R del ‘90, il cui testo vigente è, ora, quello derivante dalla declaratoria di incostituzionalità: si torna a dover applicare le fattispecie incriminatrici – contenute nei commi 1 e 4, nella loro versione originaria – concernenti i fatti riguardanti, rispettivamente, le droghe “pesanti” e le droghe “leggere”[1].
Il nuovo regime sanzionatorio pone ovviamente un problema di sanzioni applicabili ai fatti commessi sotto la vigenza della legge Fini-Giovanardi, risolvibile secondo le regole dettate dall’articolo 2, comma 4, del codice penale: mentre per i fatti relativi alle droghe “leggere” c’è la reviviscenza della più favorevole disciplina di cui al testo anteriore al d.l. del 2005, con la conseguente applicabilità anche alle sentenze passate in giudicato in base al principio di legalità della pena elaborato dalla CEDU[2], discorso opposto è tendenzialmente da fare per i fatti relativi alle droghe “pesanti”, giacché il ritorno alla previgente disciplina del 1990 si risolve in un aggravamento sanzionatorio quanto alla misura della pena minima della reclusione (la Fini-Giovanardi prevedeva la pena più mite della reclusione nella misura da sei a venti anni).
Quanto al fatto di “lieve entità”, orami divenuto reato autonomo, la relativa disciplina è rinvenibile nell’articolo 73, comma 5, come da ultimo modificato dal d.l. 36/2014. La sanzione prevista è la reclusione da sei mesi a quattro anni e la multa da euro 1.032 a euro 10.329: il livello più basso delle pene, nonché la possibilità di sostituirle con il lavoro di pubblica utilità rendono la novellata disciplina più favorevole, cosicché deve trovare applicazione, ex art. 2, comma 4 c.p., anche per i fatti commessi sotto il vigore della previgente disciplina e giudicati con sentenza irrevocabile.
Non si distingue tra droghe “pesanti” e“leggere”: lo stesso trattamento sanzionatorio, tuttavia, è stato ritenuto costituzionalmente legittimo dalla Consulta, come si analizzerà nel prosieguo.
I plurimi interventi legislativi e giurisprudenziali sulla disciplina sanzionatoria degli stupefacenti – e, in particolar modo, sulle due direttrici indicate – si sono resi necessari per la perdurante tensione esistente tra le fattispecie criminose previste nel D.P.R. e i principi costituzionali di legalità, offensività e necessità.
Tali principi fissano i limiti dell’incriminazione, ossia delineano in chiari termini cosa incriminare e come farlo, vincolando sia l’attività legislativa, nella costruzione della figura criminosa di reato, che quella del giudice, nell’interpretazione del fatto di reato.
Il principio di legalità formale fissa la legittimazione della norma a prevedere il reato; la legalità sostanziale, invece, disciplina il grado di penetrazione della norma nel contenuto del reato e suoi corollari sono determinatezza, tassatività e tipicità: il legislatore deve indicare con chiarezza e precisione il fatto punibile, al fine di orientare il destinatario della norma nella distinzione tra ciò che è lecito e cosa è illecito e delimitare l’interpretazione da parte del giudice, consentendogli la formulazione di un giudizio di corrispondenza tra fattispecie astratta e quella concreta.
I principi di offensività e necessità rappresentano, invece, i limiti sostanziali dell’incriminazione e intervengono nella selezione dei fatti di reato, ponendo vincoli precisi al legislatore nella scelta di quale porzione della realtà incriminare: il principio di offensività impone di incriminare solo le condotte che arrechino una lesione, sia sotto forma di danno che pericolo, all’interesse protetto dalla norma; il principio di necessità fissa le tipologie di interessi e le tecniche di aggressione di rilevanza penale.
Stupefacenti e principio di legalità sostanziale
Se la contrapposizione tra droghe leggere e pesanti – attuata tramite la formulazione di quattro tabelle, secondo un sistema analitico-casistico di matrice anglosassone – è del tutto rispettosa del principio di legalità sostanziale, non può, tuttavia, sottacersi che altre previsioni del testo unico si sono poste in tensione con i principi di determinatezza e precisione.
Come si è rilevato, prima del referendum abrogativo del 1993 si utilizzava un criterio oggettivo-quantitativo certo e misurabile per discernere tra detenzione di sostanza stupefacente penalmente o solo amministrativamente rilevante; oggi si utilizza il più generico parametro della finalizzazione all’uso esclusivamente personale della sostanza detenuta.
Tale parametro – che funge da presupposto, in negativo, dell’incriminazione – è generico e, pertanto, la giurisprudenza ha elaborato taluni criteri, indicativi e non esaustivi, utili per compiere una valutazione prognostica della destinazione della sostanza e rendere più determinata la fattispecie.
Tali criteri sono stati sostanzialmente recepiti dal legislatore, prima con la legge Fini-Giovanardi e poi con il d.l. 36/2014: oggi il comma 1 bis dell’art. 75 prevede, ai fini dell’accertamento della destinazione ad uso esclusivamente personale della sostanza stupefacente, di tener conto del quantitativo di sostanza stupefacente (che non deve essere superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute) e della modalità di presentazione delle sostanze stupefacenti, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato ovvero ad altre circostanze dell’azione.
Il contributo giurisprudenziale (Cass. Pen., Sezioni Unite, sentenza n. 36258/2012) è stato decisivo anche per rendere maggiormente determinata la fattispecie di cui all’art. 80, comma 2, del TU, relativamente all’aggravante di “ingente quantità”.
Chiarito che il presupposto di operatività della aggravante, per quanto ampio, non può ritenersi indeterminato, rispondendo all’esigenza di evitare l’introduzione di parametri legali precostituiti, la Suprema Corte ha stabilito che il compito della giurisprudenza è (anche) quello di rendere concrete, calandole nella realtà fenomenica, previsioni legislative astratte e apparentemente indeterminate e ciò va fatto attraverso il richiamo al diritto vivente, che si manifesta nella interpretazione giurisprudenziale.
In tale direzione, si è rilevato come il dato quantitativo è determinante sia per stabilire (ai sensi del comma 1-bis dell’art. 75) la soglia al di sotto della quale si presume l’uso personale, sia per la individuazione dell’ipotesi lieve di cui al comma 5 dell’art. 73, sia per la configurabilità dell’ipotesi aggravata di cui al comma 2 dell’art. 80.
Ne è derivato l’utilizzo di un moltiplicatore – desumibile proprio da una indagine condotta dall’ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, sul materiale giudiziario a sua disposizione – pari a 2.000 volte il valore-soglia espresso in mg nella tabella: la circostanza aggravante non è, quindi, ravvisabile quando la quantità sia inferiore a “2000 volte” il valore massimo in milligrammi determinato per ogni sostanza nelle tabelle, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata; discorso analogo può esser fatto con riferimento alle droghe leggere, avendo come discrimen il quantitativo di 50 chilogrammi.
Stupefacenti e principio di offensività
Il surriferito principio opera sia sul piano normativo, sotto forma di precetto rivolto al legislatore affinché prevedi fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo o la messa in pericolo di un bene o di un interesse oggetto di tutela penale (offensività in astratto), sia sul piano giurisprudenziale, quale criterio di cui il giudice debba tener conto per accertare se il fatto ha effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato (offensività in concreto). Qualora già a livello legislativo il fatto previsto dalla norma incriminatrice sia privo dei requisiti dell’offesa, allora la norma dovrà essere sottoposta a giudizio di legittimità costituzionale.
La fattispecie che più è stata sottoposta al vaglio costituzionale sotto il profilo dell’offensività è quella inerente alla coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti: tale condotta integra un tipico reato di pericolo presunto, connotato dalla necessaria offensività della fattispecie criminosa astratta, volta a sanzionare il pericolo del pericolo in funzione della tipologia della condotta incriminata e della natura del bene protetto; tuttavia, in ossequio al principio di offensività in concreto, spetterà al giudice verificare se la condotta contestata all’agente sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva.
Interessanti sono gli approdi cui è giunta la giurisprudenza nel valutare, in concreto, l’offensività della condotta, soprattutto a seguito dell’introduzione dell’art. 131 bis c.p. sulla particolare tenuità del fatto.
L’orientamento prevalente[3] ritiene che la condotta sia inoffensiva soltanto se il bene tutelato non sia leso o messo in pericolo, neanche in grado minimo, ovvero se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non sia idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile. Quest’impostazione si fonda sul rilievo che l’offensività della condotta si radica nell’idoneità della coltivazione a produrre la sostanza per il consumo, sicché non occorre considerare la quantità di principio attivo ricavabile in un determinato stato di coltivazione ma, piuttosto, il tipo di pianta coltivata (ovvero la conformità della pianta al tipo botanico previsto) e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente utilizzabile per il consumo.
Negli ultimi anni[4] parte della giurisprudenza ha ristretto le maglie dell’incriminazione, valorizzando l’elemento della necessaria offesa al bene giuridico, con il risultato di non ritenere integrato il reato (anche) in caso di coltivazione idonea a produrre sostanza con minima capacità drogante: si è fatto leva, per escludere la punibilità, sull’inidoneità della coltivazione ad aumentare la disponibilità di droga, quando non sia prospettabile alcuna ulteriore diffusione della sostanza, dovendosi presumere il conclamato uso esclusivamente personale.
Tale orientamento esalta la valutazione sull’offensività in concreto: dopo aver accertato la tipicità della condotta – che consiste nella coltivazione di una pianta conforme al “tipo botanico” e che abbia, se matura, raggiunto la soglia di capacità drogante minima – il giudice deve verificare se la coltivazione integri in concreto l’offesa al bene giuridico.
L’orientamento maggioritario e più rigoroso, condiviso dalla pronuncia della Corte Costituzionale 109/2016, ritiene che – posto che la condotta di coltivazione di piante da stupefacente può essere ritenuta inoffensiva soltanto ove la sostanza ricavabile non sia idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile – a fronte di fatti di minore gravità, pur se offensivi, la condotta può essere inquadrata nell’ipotesi di reato di cui all’articolo 73, comma 5, ovvero, ricorrendo le condizioni di legge, può essere dichiarata non punibile ai sensi dell’articolo 131-bis c.p..
Diversamente, seguendo l’orientamento meno rigoroso, i fatti di minore gravità, contenenti una modesta carica offensiva, sono del tutto irrilevanti e non sanzionati penalmente.
Stupefacenti e principio di necessità
L’introduzione dell’art. 131 bis c.p. apre le porte ad ampie riflessioni sull’intervento penale, sulla necessità di sanzionare determinate condotte e di graduare la pena.
Il principio di necessità colma gli spazi lasciati vuoti dal principio di offensività: mentre quest’ultimo principio vincola il legislatore a costruire le fattispecie di reato in termini di offesa, ma non stabilisce quali debbano essere i beni giuridici da proteggere e selezionare, il principio di necessità, invece, indica quali sono i beni da tutelare.
Sino ad ora non si è ancora pervenuti a risultati che evidenziano un ruolo incisivo del principio di necessità, inteso nella sua accezione forte, ossia come principio di sussidiarietà[5] e proporzionalità[6]; rimane sempre ferma l’idea che la configurazione delle ipotesi criminose, nonché la scelta delle sanzioni, rientrino nella discrezionalità del legislatore e non possano essere oggetto di sindacato. Così, si continua a far applicazione del principio di necessità mediante l’operare del principio di ragionevolezza, volto a censurare, ex art. 3 Cost., i casi di intrinseca irragionevolezza delle disposizioni normative e di disparità di trattamento.
L’impiego del principio di ragionevolezza può avvenire tramite un giudizio trilaterale, in cui il precetto costituzionale governa il rapporto tra la disposizione censurata e quella che prevede il caso analogo (tertium comparationis), o tramite un giudizio bilaterale volto a rilevare l’intrinseca illogicità tra la disposizione censurata e lo stesso articolo 3 Cost..
Il giudizio trilaterale, finalizzato a valutare se tra due fattispecie che regolano casi simili non vi sia una irragionevole disparità di trattamento, è stato impiegato per ribadire la legittimità costituzionale dell’incriminazione della coltivazione di piante stupefacenti.
In particolare, si è dichiarata non fondata (Corte Cost., sentenza n. 360/95) la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 73, nella parte in cui non prevede che anche la coltivazione di piante da cui si estraggano sostanze stupefacenti – oltre che l’importazione, l’acquisto o la detenzione – sia punita soltanto con sanzioni amministrative se finalizzata all’uso personale. La questione era stata sollevata proprio sotto il profilo della violazione dei principi di ragionevolezza e di parità di trattamento rispetto alla condotta, non più penalmente perseguibile, di chi illecitamente importa, acquista o comunque detiene sostanze stupefacenti per farne uso personale. La Consulta ha rilevato che la configurazione delle ipotesi criminose e la determinazione delle sanzioni per ciascuna di esse rientrano nella discrezionalità del legislatore, essendo giudizi, per loro natura, tipicamente politici.
Il giudizio bilaterale, finalizzato a verificare la corrispondenza tra gli interessi tutelati dalla legge e i valori ricavabili dal sistema costituzionale, è stato impiegato per dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 73 comma 5 nella parte in cui non distingue il trattamento sanzionatorio previsto per i fatti di lieve entità aventi ad oggetto droghe “leggere” rispetto a quello relativo ai fatti di lieve entità aventi ad oggetto droghe “pesanti”.
La Consulta (sentenza n. 23/2016) ha ribadito che il sollecitato intervento additivo in materia penale, in assenza di soluzioni costituzionalmente obbligate, interferirebbe nella sfera di politica sanzionatoria riservata al legislatore e, pertanto, violerebbe il principio di separazione dei poteri. Quanto al profilo della “irragionevolezza estrinseca”, il fatto che l’attuale art. 73 co. 5 costituisca una fattispecie autonoma di reato, e non più una circostanza attenuante, farebbe venir meno l’esigenza di mantenere una simmetria sanzionatoria tra fatti di lieve entità e quelli non lievi; i dubbi di “ragionevolezza intrinseca” si supererebbero in quanto il comma censurato lascia al giudice un margine di valutazione sufficientemente ampio da permettergli di graduare proporzionalmente la pena anche in ragione della natura della sostanza.
Rosalia Ruggieri
[1] Per le droghe pesanti sono previste le sanzioni della reclusione da otto a venti anni e della multa da euro 25.822 a euro 258.228; per le droghe leggere la reclusione da due a sei anni e della multa da euro 5.164 a euro 77.468
[2] Corte Costituzionale, sentenza n. 32/2014. Per ulteriori spunti in relazione alla legalità della pena stabilita per il delitto continuato, cfr. Cass. Pen., sezioni unite, n. 22471/2015.
[3] Cass. Penale, Sezioni Unite n. 28605/08, sez. III, sentenza n. 38364/2015.
[4] Cass. Penale, sez. VI, sentenze nn. 5254/2016, 9156/15, 33835/14, 25674/2011.
[5] Inteso in tale eccezione, l’intervento dell’ordinamento penale è legittimo solo allorquando tutti gli altri ordinamenti si siano rilevati insufficienti: in tale ottica va letta la recente proposta di legge volta alla legalizzazione della coltivazione, lavorazione e vendita della cannabis e dei suoi derivati.
[6] Il principio di proporzionalità attiene, quindi, alla meritevolezza e alla graduazione della pena, ossia postula che l’intervento penale sia idoneo al raggiungimento dello scopo e adeguato rispetto ai diritti e alle libertà dei cittadini che risultano compressi. Sotto tali aspetti, si giustifica il differente trattamento sanzionatorio tra droghe pesanti e leggere e tra fatti di lieve e non lieve entità.
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Rosalia Ruggieri
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