“Dopo di noi”… a prescindere da noi? Riflessioni a margine della L. 112/2016
E’ stata di recente pubblicata (G.U. n. 146 del 24 giugno 2016) la Legge 22 giugno 2016, n. 122, c.d. “Dopo di noi”, recante “Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare”, provvedimento giornalisticamente definito “dopo di noi”. Peccato che, per preoccuparsi del “dopo”, il Legislatore finisce per dimenticare l’ “ora” e, di conseguenza, poggiando quello su questo – e cioè sul nulla giuridico -, la montagna partorisce (come spesso accade: del resto è nota la crisi della natalità, in Italia, non solo infantile, ma anche, se non soprattutto, legislativa) un topolino, anzi, probabilmente la carcassa amorfa di un animale che, nel nome, vuol rievocare il simpatico topolino. Ma vediamo più nello specifico quelle che, ad avviso di chi scrive, sono le criticità del nuovo testo normativo.
In realtà, la pecca è originale e di fondo: un testo normativo che nasce di retorica, si pasce di retorica, non può che morire nella retorica. E questo, purtroppo, è accaduto, con buona pace di tutti i buoni propositi (almeno nelle dichiarazioni, più o meno propagandistiche) del Legislatore.
Onde evitare un inutile dispendio di energie e tempo a chi legge, ci si concentrerà sul proprium civilistico del provvedimento (o, almeno, su quello che vorrebbe avere implicazioni civilistiche), tralasciandosi norme come quelle degli artt. 2, 3, 4, 5 (dedicati ad interventi direttamente pubblicistici e a detrazioni di polizze assicurative) 7 e 8 (di sospetta inutilità concreta).
Ci si concentrerà, dunque, sull’analisi dell’art. 6.
Una prima considerazione è d’obbligo. Il provvedimento nasce come legge in materia fiscale, recante agevolazioni di tale natura, non nuove norme di diritto sostanziale. E questo pone il primo problema, in quanto, come vedremo, nel momento in cui il Legislatore fa riferimento a istituti sconosciuti (del tutto o quasi) al nostro ordinamento, si pone il problema di comprendere se, nominandoli – si ripete – in un provvedimento di natura fiscale, li abbia tipizzati (anche senza disciplina) ovvero se, invece, la loro esistenza nel diritto privato italiano vada ravvisata altrove e, solo ove esistenti, trovino applicazione i benefici fiscali previsti. Ma esaminiamo più nello specifico la questione.
Codice civile e leggi complementari Copertina flessibile – 29 gen 2016
Accanto agli interventi più spiccatamente amministrativi, il Legislatore, già nell’art. 1 (co 3) della Legge, menziona come finalità quella di «agevolare le erogazioni da parte di soggetti privati, la stipula di polizze di assicurazione e la costituzione di trust, vincoli di destinazione di cui all’art. 2645-ter del codice civile e di fondi speciali, composti di beni sottoposti a vincolo di destinazione e disciplinati con contratto di affidamento fiduciario anche (ma verrebbe da dire “perchè no?”, dal momento che gli enti sono ormai tutti riconosciuti come “soggetti giuridici”; inoltre, l’uso della congiunzione “anche” fa intendere che è possibile affidare – e infatti nessuno ne dubitava – “non solo” a ONLUS con personalità giuridica, ma allora anche in genere, ad ogni soggetto giuridico) a favore di» ONLUS con personalità giuridica.
Come si comprende, l’attenzione si focalizza sui tre strumenti privatistici che il Legislatore indica: a) trust, b) fondi speciali, costituiti con beni vincolati allo scopo e affidati fiduciariamente ad un terzo; c) vincoli ex art. 2645-ter c.c..
A) TRUST. E’ noto il dibattito – dai toni spesso accesi: si vedano gli scritti di Gazzoni, Lupoi, Gambaro – che anima la dottrina in Italia circa la esistenza o meno di questo istituto. Non è questa la sede per ripercorrere le argomentazioni pro e contro l’ammissibilità di un trust italiano; basti ricordare, appunto, che il punto è controverso, perché, in mancanza di una norma interna che preveda l’istituto dell’affidamento fiduciario con efficacia reale (dal momento che di questo, in sostanza, si tratta), sembra che non sia possibile il riconoscimento di una segregazione patrimoniale del tipo recato dal trust, nemmeno in presenza della legge di ratifica della Convenzione dell’Aja (L. 364/1989), che chiaramente reca norme di D.I.P., né si può con certezza predicare la natura sostanziale degli artt. 2 e 11 – come fa la dottrina che riconosce il trust interno -, in quanto gli artt. 13 e 15 Conv. sono chiarissimi nel senso di lasciare impregiudicato il diritto interno di ciascuno Stato, che è abilitato a non riconoscere i trust che siano più strettamente collegati (cfr. il combinato disposto tra artt. 13 e 6,7 Convenzione) con ordinamenti c.d. “no trust”.
E’ altrettanto noto, tuttavia, la che dottrina prevalente (per varie ragioni che qui non si riportano per economia della trattazione) e, soprattutto, la giurisprudenza prevalente ammettono il trust c.d. interno (cioè quel trust che non presenti nessun elemento di estraneità, salvo per la legge applicabile, scelta ai sensi dell’art. 6 Conv., che dovrà essere quella di un Paese che preveda una normativa sul trust).
A questo proposito, va segnalato che parte cospicua della dottrina, in maniera peraltro non convincente, ritiene che il trust (o quanto meno un suo “frammento”) abbia ormai fatto ingresso nel nostro ordinamento con la previsione di cui all’art. 2645-ter c.c., la quale – trasferendo i beni vincolati ad un mandatario-attuatore – consentirebbe di riprodurre quella segregazione patrimoniale che nei paesi di common law è consentita dall’istituto in esame.
A fronte di tutto ciò, il Legislatore ha perso (o ha voluto perdere?) l’ennesima occasione per fare chiarezza. E allora le alternative che, ad avviso di chi scrive, si pongono dinanzi all’interprete sono:
– ritenere che il trust sia stata espressamente tipizzato, in quanto nominato nel provvedimento in esame: contro tale ricostruzione, peraltro, si rileva la natura soltanto fiscale del provvedimento e, soprattutto, il fatto che non rechi una disciplina sostanziale dell’istituto: il che, attesa la natura reale del diritto del trustee e il principio del numerus clausus dei diritti reali, rende inammissibile la conclusione;
– pensare che il Legislatore abbia previsto delle agevolazioni fiscali per degli istituti che presuppone esservi nell’ordinamento civilistico: la questione dell’ammissibilità di tali istituti, tuttavia, viene demandata alle norme sostanziali di diritto privato. Con il che si ritorna a quanto detto sopra.
E’ evidente che soltanto questa seconda interpretazione può essere sostenuta, de iure condito, anche perché la Legge ha cura di specificare che si occupa solo di stabilire “agevolazioni o esenzioni fiscali” e che i contenuti (di cui ai commi 3 ss. dell’art. 6) richiesti in relazione ai tre istituti vengono previsti solo a fini fiscali.
E allora, con riferimento al trust, per concludere:
– sicuramente si applica ai trust riconosciuti ai sensi della Convenzione dell’Aja (ma verrebbe il dubbio che questi trust, perchè dotati di elementi di estraneità, non siano sottoposti al diritto tributario italiano, onde l’inutilità – sospetta – della Legge);
– se si ritiene che in Italia il trust vi sia e sia previsto dall’art. 2645-ter c.c., non si comprende il perchè di una previsione ad hoc;
– se si ritiene che in Italia, nonostante l’assenza di disposizioni espresse e ritenendo sostanziali gli artt. 2 e 11 Conv. Aja, l’istituto in esame sia possibile anche in assenza di elementi di estraneità, allora avrebbe un senso l’art. in esame. Peraltro, meglio avrebbe fatto il Legislatore – come detto – a chiarire il punto e a cogliere l’occasione per introdurre, seppur con una disciplina minimale, una regolamentazione interna del trust.
B) FONDI SPECIALI. tralasciando il vincolo ex art. 2645-ter c.c. (di cui si dirà in appresso sub C), occupiamoci dei “fondi speciali”. La Legge sembra immaginare una vicenda strutturata in due atti o segmenti di una fattispecie complessa (il punto non è chiaro):
– il vincolo di destinazione sui beni oggetto dei fondi;
– l’affidamento fiduciario ad un terzo di questi beni vincolati.
Che cosa siano questi fondi rimane un mistero. Si deduce – ma il legislatore non lo dice chiaramente – che, nella mens legis, i beni oggetto del fondo siano patrimonio segregato rispetto agli altri beni del fiduciario: con ciò, dunque, la Legge avrebbe innovato l’ordinamento, nel quale fino a ieri il c.d. contratto fiduciario si riteneva pacificamente che potesse avere soltanto effetti obbligatori, in linea con la derivazione romanistica dell’istituto. Ma se così fosse, se cioè si fosse data efficacia reale a tale contratto … si sarebbe in presenza di un trust (cfr. art. 2 Conv. Aja)! E questo a prescindere dalle considerazioni sopra svolte – e anche per questa ipotesi valide – della possibilità che un provvedimento recante sole norme su agevolazioni e detrazioni fiscali possa incidenter, anzi, tacitamente, introdurre istituti sconosciuti all’ordinamento sostanziale.
Vi è di più. La Legge parla di beni “vincolati”. Ora, salvo a ritenere che il vincolo in questione possa gravare ed operare anche con riferimento ai beni mobili non registrati (per i quali, tuttavia, varrebbe comunque la riconducibilità ad un trust e, in mancanza, la difficoltà di sostenerne una segregazione in assenza di qualsivoglia forma pubblicitaria, derogandosi così agli artt. 1153, 2740 e 2741 c.c.), per i beni immobili e i beni mobili registrati, vincolare un bene ad uno scopo (segnatamente quello di far fronte ai bisogni di persone affette da disabilità) e affidarlo ad un terzo (scil. attuatore del vincolo) significa, scorrendo le pagine di qualsiasi testo in merito, costituire… un vincolo ex art. 2645-ter c.c.!
Se poi si ritiene che trust e vincolo di destinazione (+ mandato all’attuatore) non abbiano significative differenze (come sostenuto da alcuni Autori), si comprende come questi fondi non siano nulla: o sono trust o sono vincoli ex art. 2645-ter c.c. o sono entrambe le cose, perché non vi è differenza tra le due.
Peraltro, se i fondi in parola non fossero (anche se non si comprende come e cosa possano essere, allora) nè trust nè vincolo di destinazione, non si capisce quali caratteristiche abbiano, visto che la legge non ne prevede la segregazione patrimoniale dagli altri beni del fiduciario (e allora si ritorna ad un normale contratto fiduciario, ad effetti obbligatori, che la Legge avrebbe consentito – senza che ciò fosse necessario, essendo già immanente nel sistema), nè tale segregazione potrebbe essere desunta in via interpretativa, stante il chiarissimo disposto degli artt. 2740, co. 2, e 2741 co. 2, c.c.; inoltre, per poter opporre un tale vincolo a terzi si richiede una pubblicità, onde risolvere i conflitti (cfr. artt. 162 ss e 2647 c.c. per il fondo patrimoniale; 2645-ter per il vincolo di destinazione in generale, etc…) cosa che mancherebbe in questo caso, almeno per i beni mobili non registrati (per i quali, anzi, il possesso in buona fede vale titolo, con buona pace di ogni diritto di terzi: o deve ritenersi che si sia derogato anche all’art. 1153?), perchè per immobili e beni mobili registrati sarebbe utilizzabile l’art. 2645-ter c.c. (ma allora l’istituto non è cosa diversa da questo vincolo: e si ritorna a quanto detto supra).
E’ evidente allora che anche il Legislatore, purtroppo, «Nae iste magno conatu magnas nugas dixerit».
C) Sicuramente più pregnante è il riferimento al vincolo di destinazione, l’unico istituto, dei tre, che con certezza è utilizzabile nel nostro ordinamento. Anche in questo caso, tuttavia, pare che il Legislatore abbia “dimenticato” la disciplina del vincolo ex art. 2645-ter c.c., richiedendo requisiti ovvi e per nulla innovando al sistema. Infatti, il vincolo:
– è già ex se possibile per la tutela di interessi “riferibili a persone con disabilità”; anzi, secondo autorevole dottrina (Gazzoni), solo a questi (cfr. art. 6, co. 2, L. 112/16);
– già richiede la forma ad substantiam (secondo l’opinione prevalente e preferibile) dell’atto pubblico (come fa anche l’art. 6, co. 3, lett. a) L. in esame);
– per la sua determinatezza (art. 1346 c.c.) richiede l’indicazione specifica dello scopo e delle facoltà sul bene, che, secondo alcuni è “conformato” dalla volontà del disponente, secondo altri sarebbe collegato ad obbligazioni propter rem, secondo altri sarebbe oggetto di una servitù irregolare;
– già richiede – secondo i più – o semplicemente può (senza necessità) comportare – secondo l’opinione preferibile ad avviso di chi scrive – un trasferimento ad un terzo attuatore del vincolo, cui l’obbligo di attuazione viene addossato o da un mandato collegato al vincolo (di cui, anzi, il vincolo è garanzia relativa ai “mezzi somministrati dal mandante” ex art. 1719 c.c.) ovvero dalle riferite obbligazioni propter rem oppure ancora dalla servitù o dalla conformazione della proprietà trasferita (dunque il terzo affidatario è soggetto solo ad un pati).
Il punto che, invece, è innovativo è quello relativo alla devoluzione dei beni dopo l’estinzione del vincolo (previsione pacifica in un trust, molto meno pacifica in un vincolo del genere).
Se non pare che si pongano grossi problemi all’ammissibilità di una condizione risolutiva di reversibilità quale quella delineata dall’art. 6, co. 4, della Legge, per la devoluzione a terzi del quod superest c’è il rischio concreto che, in assenza di una accettazione di tale devoluzione durante la vita del disponente, tale previsione incappi nel divieto dei patti successori o nel divieto di sostituzione fedecommissaria (artt. 692 e 795 c.c.). Ma la Legge, sul punto, dando per pacifica l’ammissibilità di una tale clausola, prevede soltanto il trattamento fiscale del trasferimento. Per le cose dette supra a vario titolo, c’è più di una ragione per dubitare che sia stata portata una tacita ed implicita deroga a principi fondamentali dell’ordinamento, quali quelli richiamati.
A questo punto e, concludendo, qualche considerazione finale.
Un ulteriore elemento di irrazionalità della Legge in commento è il richiedere, per istituti tanto diversi, gli stessi requisiti: ma è elemento di illogicità o presa d’atto, da parte del Legislatore, che quanto sopra detto è vero, cioè che si è utilizzato un nomen diverso per indicare, in sostanza, la stessa cosa (con un trinitarismo di tre cose in una sostanza, di derivazione quasi teologica)? Se così fosse, non sarebbe certo una encomiabile tecnica legislativa: entia (et nomina) non sunt moltiplicanda praeter necessitatem, in un ordinamento – quale quello italiano – già fin troppo farraginoso, confusionario e molto poco “sistematico”.
Probabilmente, visto il contenuto scarso, nullo o quanto meno problematico, in termini civilistici, del provvedimento in esame, è da vedersi anche quanto riuscirà a favorire concretamente destinazioni patrimoniali in favore di discendenti disabili.
Allo scopo, per le incertezze evidenziate (se non motivi di nullità), pare ancora una volta che la riscoperta della autonomia testamentaria, secondo un trend in essere di recente, potrebbe portare a migliori e più concrete soluzioni, in termini di sostituzione fedecommissaria: meglio avrebbe fatto, dunque, la Legge a modificare l’art. 692 c.c., consentendo tale istituto anche con riferimento ai soggetti affetti da disabilità e a prescindere dalla loro interdizione.
In tal modo, se i genitori avessero voluto provvedere “dopo di loro”, avrebbero potuto farlo vita natural durante, con un vincolo ex art. 2645-ter c.c. (che anche oggi, per le cose dette, è plausibile ritenere che rimarrà l’istituto principe utilizzato, salvo per quei notai che ritenessero ricevibile un atto istitutivo di trust), mentre post mortem con una disposizione testamentaria ex art. 692 c.c.. In alternativa a tutto ciò, non rimane che la strada della amministrazione di sostegno, con indicazione, da parte dei genitori, del soggetto che ritengono idoneo a curare gli interessi del figlio.
Purtroppo così non è stato e la (brutta) sensazione che si ha è che si sia voluto fare propaganda, ma non si sia voluto (o saputo) fare molto di concreto per dare un aiuto vero a chi versi in situazioni di bisogno – non sempre economico, ma spesso morale, sociale -, apprestando mezzi, anche giuridici, idonei ed efficaci.
Per pensare, o meglio, per propagandare il “dopo di noi”, ci si è dimenticati dell’ “ora di noi”, cioè del nostro attuale ordinamento e, indicando soluzioni di dubbia validità o promulgando norme di dubbia utilità, si è pregiudicato sia l’ “ora” sia il “dopo” di noi e di loro.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Ideatore, Coordinatore e Capo redazione avv. Giacomo Romano
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Salvatore Pepe
Salvatore Pepe,
- Laurea Magistrale in Giusprudenza presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, conseguita in data 16 luglio 2014 con votazione di 110/110 e lode, discutendo una tesi di Laurea con il prof. Avv. Nicola Rascio in Diritto Processuale Civile con titolo “Le impugnazioni incidentali”;
- Dal 2 febbraio 2014 al 2 agosto 2015, pratica notarile nel Consiglio Notarile di Napoli, Torre Annunziata e Nola
- Dal 3 febbraio 2015, praticante avvocato iscritto all’Ordine degli Avvocati di Nola, dal 1° marzo 2015, abilitato al patrocinio.