FALSO IN BILANCIO: rilevanza del falso valutativo (Sez. Un. 22474/2016)
Con la sentenza n. 22474/2016 le Sezioni Unite sono intervenute ponendo fine ai contrasti dottrinali e giurisprudenziali sorti a seguito dell’ entrata in vigore della legge n. 69/2015 e sancendo il seguente principio di diritto :
“sussiste il delitto di false comunicazioni sociali, con riguardo alla esposizione o alla omissione di fatti oggetto di valutazione, se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l’agente da tali criteri si discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni”
La legge 27 maggio 2015 n. 69 ha modificato la disciplina dei reati di false comunicazioni sociali, di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c. ed ha introdotto l’ ipotesi di lieve entità all’ art. 2621 bis, nonché l’ ipotesi di particolare tenuità di cui all’ art. 2621 ter cc.
La novella legislativa ha inciso prevalentemente sull’ oggetto della condotta penalmente rilevante.
L’attuale art. 2621 c.c. recita : ” Fuori dai casi previsti dall’art. 2622, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, consapevolmente espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore sono puniti con la pena della reclusione da uno a cinque anni. La stessa pena si applica anche se le falsità o le omissioni riguardano beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi.”
L’ art. 2622 cc. rubricato “False comunicazioni sociali delle società quotate” dispone : “ Gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o di altro Paese dell’Unione europea, i quali, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico consapevolmente espongono fatti materiali non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore, sono puniti con la pena della reclusione da tre a otto anni. Alle società indicate nel comma precedente sono equiparate: 1) le società emittenti strumenti finanziari per i quali è stata presentata una richiesta di ammissione alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o di altro Paese dell’Unione europea; 2) le società emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un sistema multilaterale di negoziazione italiano; 3) le società che controllano società emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o di altro Paese dell’Unione europea; 4) le società che fanno appello al pubblico risparmio o che comunque lo gestiscono. Le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano anche se le falsità o le omissioni riguardano beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi”
Confrontando le novelle formulazioni legislative con quelle precedenti vengono subito in evidenza le modifiche apportate.
La fattispecie prevista dall’ art. 2621 c.c., ante riforma 2015, era di natura contravvenzionale, conteneva ai commi 3 e 4 le soglie di punibilità ed era configurabile come reato di pericolo astratto. La norma puniva la condotta di chi tra amministratori, direttori generali, dirigenti, sindaci, liquidatori, esponeva fatti materiali non rispondenti al vero ancorchè oggetto di valutazioni. Era, altresì, punita la condotta omissiva concernente l’ esclusione intenzionale di informazioni imposte dalla legge.
Sotto il profilo soggettivo era richiesto il dolo intenzionale di profitto; ossia non solo il dolo della falsità delle comunicazioni ma anche l’ intenzionalità nell’ ingannare i soci o il pubblico al fine di conseguire per se o per altri un ingiusto profitto. In altri termini, un dolo intenzionale specifico.
L’ art. 2622 c.c. prevedeva, invece, un delitto di evento essendo richiesto un danno alla società, ai soci o ai creditori. La condotta prevista era la medesima descritta dall’ art. 2621 c.c., quindi, sia attiva che omissiva ed il dolo richiesto era sempre specifico ma non intenzionale. Era sufficiente un dolo diretto ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni e delle informazioni. La pena prevista per il reato di cui all’ art. 2622 c.c. era la reclusione da 6 mesi a 3 anni; mentre, per la contravvenzione ex art. 2621 c.c. la norma prevedeva l’ arresto fino a 2 anni.
Oggi la fattispecie di false comunicazioni sociali è divenuta un delitto di pericolo concreto. E’ stato espunto il dolo intenzionale ma è stata aggiunta la locuzione “ consapevolmente” che caratterizza il profilo rappresentativo dell’ agente nella consumazione del fatto. Il termine “ consapevolmente”, aggiunto anche all’ ipotesi ex art. 2622 c.c. permette di distinguere la conoscenza dalla conoscibilità, eliminando ogni spazio per il dolo eventuale.
Tuttavia, la novità più rilevante, come già anticipato, attiene alla condotta tipizzata dal legislatore, rectius all’ oggetto della stessa.
Più nel dettaglio, entrambe le attuali fattispecie ( artt. 2621 e 2622) puniscono la condotta sia attiva che omissiva. Per quanto concerne la condotta attiva, alla formulazione legislativa di cui all’ art. 2621 c.c., è stato aggiunto l’ aggettivo “rilevanti” con riguardo ai “fatti materiali non rispondenti al vero”. In entrambi gli artt. 2621 e 2622 è stato eliminato il sintagma “ancorchè oggetto di valutazioni”. Ed è proprio tale elisione che ha posto il dubbio della rilevanza penale del falso valutativo.
Un orientamento dottrinale, sostenuto anche dalla giurisprudenza di legittimità ( sentenza Crespi n. 33774/2015) afferma l’ intervenuta abrogazione del falso valutativo. Una prima motivazione a sostegno di tale tesi si basa sull’ interpretazione letterale della norma che evidenzia come, non facendosi alcuna menzione delle valutazioni, l’ intenzione del legislatore fosse quella di eliminarle dal campo applicativo del reato de quo. Altro elemento a sostegno dell’ irrilevanza del falso valutativo è il raffronto con il reato di “ostacolo all’ esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza” ex ert. 2638c.c., nel quale il legislatore ha lasciato intatto il sintagma “ ancorchè oggetto di valutazioni”. Il non aver modificato anche l’ art. 2638 c.c. è sintomo della voluntas legis di dare rilevanza esclusivamente agli elementi espressamente menzionati.
Ancora, la terminologia “ fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero” è già stata utilizzata dal legislatore speciale nel reato di frode fiscale ( art. 4, lett f, L. n. 516/1982 e successiva L. n. 154/1991) con la chiara e oramai pacifica volontà di rendere irrilevante penalmente il falso valutativo e, dunque, dinanzi alla medesima formula nel reato di falso in bilancio, non può attribuirsi un significato diverso.
L’ orientamento in questione esamina, altresì, le prescrizioni legislative precedenti. Nella formulazione originaria, ante riforma 2002, si faceva esclusivamente riferimento ai “ fatti falsi” ma l’ interpretazione quasi unanime faceva rientrare in tale locuzione anche le” valutazioni” false. Nell’ attuale formulazione del 2015, l’ aver eliminato il riferimento alle valutazioni indica la volontà di non voler più dare rilevanza al falso estimativo.
Un opposto orientamento giurisprudenziale ( Cass. n. 890/2016 sentenza Giovagnoli) afferma, invece, l’importanza di dare rilievo penale alle valutazioni false, con il rischio, altrimenti, di rendere scarsa l’ applicazione degli artt. 2621 e 2622 c.c.. Articoli questi molto poco utilizzati nelle precedente formulazione per la presenza nella struttura del reato di elementi che rendevano quasi impossibile la loro applicazione. Si pensi alle soglie di punibilità, di cui ai commi 3 e 4 dell’ art. 2621 che, se non superate, facevano declinare il reato in illecito amministrativo; o la condizione di procedibilità della querela prevista nell’ art. 2622 c.c.
Oggi tali elementi sono stati eliminati, ma per i giudici, se non si riconosce rilevanza al falso valutativo non si risolve il problema della carente applicazione del reato de quo.
Infatti, nella sentenza Giovagnoli ma anche nella sentenza delle SSUU, si sottolinea come il bilancio di esercizio sia costituito da dati certi ( es. costo di acquisto di un bene), dati stimati ( es. prezzo di mercato di una merce) e dati congetturali ( es. le quote di ammortamento). Il bilancio è un documento composito e complesso, frutto non solo dell’ elencazione di fatti e dati ma anche della valutazione di quei dati secondo i criteri legali e tecnici vigenti.
Con la recente riforma si è passati da una tutela prettamente patrimonialistica ad una tutela incentrata sulla trasparenza e sulla veridicità delle comunicazioni sociali. La circostanza che nella formulazione originaria con la locuzione “ fatti falsi” ci si riferiva anche alle false valutazioni, porta a ritenere che l’ attuale formula “ fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero” debba essere necessariamente interpretata come nella formulazione originaria. Non solo, l’ inserimento nel 2002 del sintagma “ ancorchè oggetto di valutazioni” fu definito dalla dottrina e giurisprudenza maggioritarie come una inutile superfetazione linguistica che nulla aggiungeva e nulla toglieva al termine “ fatti falsi”.
I giudici di legittimità hanno, altresì, specificato che la verità che qui si predica non è una verità oggettiva, impossibile da raggiungere per le caratteristiche proprie del bilancio e delle altre comunicazioni sociali; ma una verità legale, ossia una corrispondenza tra i procedimenti valutativi normativamente previsti e quelli nella realtà effettuati. Esaminata in questi termini la questione, ecco che anche le valutazioni possono essere oggetto di verifica sulla falsità o meno, tutte le volte in cui vengono violati i criteri e i parametri valutativi prescritti dal legislatore.
Il dettato normativo deve essere interpretato in maniera sistematica con le altre norme del Titolo V del codice civile ed in ossequio al principio di legalità sostanziale. Non ci si può fermare ad una interpretazione esclusivamente letterale, soprattutto quando i termini utilizzati dal legislatore possono assumere diversi significati.
Con sentenza 31 marzo 2016 n. 22474 le Sezioni Unite hanno condiviso l’ orientamento da ultimo esaminato confermando, dunque, la rilevanza penale del falso valutativo tutte le volte in cui, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l’agente si discosti da tali criteri consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni.
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Cristina Casamassima
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