I poteri del giudice dell’esecuzione ex art. 586 c.p.c.
La “Tolomeo Finance s.r.l.” proponeva ricorso straordinario per Cassazione ex art. 111, comma VII, Cost., contro la curatela fallimentare ed avverso la sentenza del 3 marzo 2014 con la quale il Tribunale di Palermo rigettava un’opposizione agli atti esecutivi, vertente su un’espropriazione forzata immobiliare introdotta con pignoramento, in forza di credito basato su un mutuo fondiario garantito da ipoteca volontaria.
Nella procedura citata, la “Tolomeo Finance” aveva spiegato intervento litisconsortile, tramite la propria procuratrice (SBS s.r.l.), subentrando alla creditrice pignorante tramite cessione di credito derivante da operazione di cartolarizzazione ex l. n. 130 del 1999.
Ciò posto, il notaio delegato aveva proceduto all’esperimento di sette operazioni di vendita, l’ultima delle quali (in data 19 gennaio 2011) ebbe esito positivo.
Tuttavia, in data 9 febbraio 2011 i debitori esecutati chiedevano al G.E. la sospensione della vendita ex art. 586 c.p.c., motivando sulla base del fatto che il valore dell’immobile fosse tre volte superiore (744.746,00€), stante perizia giurata di un architetto, a quello effettivamente corrisposto ( 275.684,00€), anche a cagione del fatto che la stima precedentemente posta in essere si basava sul presupposto che l’immobile fosse destinato ad uso ufficio, mentre, come risultante da nuova documentazione allegata dagli stessi, si trattava di una villa.
Inoltre, la richiesta veniva corroborata dall’indicazione dell’orientamento della Corte di Cassazione, espresso nella sentenza n. 6269/2003, posto che il prezzo di vendita risultava “notevolmente inferiore a quello giusto”.
Il G.E. riteneva fondata l’istanza dei debitori, motivando principalmente l’accoglimento sulla scorta del lasso di tempo decorso dalla prima CTU e, pertanto, disponeva una nuova perizia al fine di accertare la ricorrenza dei presupposti per applicare l’art. 586 c.p.c., che veniva esperita in data 4 novembre 2011, all’esito della quale il valore dell’immobile veniva stimato in 578.677,00 € (al netto di 52.807,00 € necessari per la regolarizzazione urbanistica).
Pertanto, il giudice dell’esecuzione revocava l’aggiudicazione, motivando tale provvedimento sulla scorta del fatto che la differenza percentuale tra il prezzo di aggiudicazione e quello da ultimo stimato fosse del 52,36 %, e che in alcun modo l’obbligo del giudice ex art. 586 c.p.c. nel dover stimare il “giusto prezzo” venisse meno a motivo delle concrete attività costituenti le vendite con incanto, che solo astrattamente sono idonee a connotarlo.
Indi, autorizzava la restituzione delle somme all’aggiudicatario a qualunque titolo versate, e mandava gli atti al professionista delegato affinché procedesse a nuove operazioni di vendita, con prezzo base l’ultimo valore stimato nella CTU.
In merito al rigetto dell’opposizione agli atti esecutivi, il Tribunale di Palermo motivava asserendo che la sospensione dell’ordinanza di vendita ex art. 586 c.p.c. può disporsi NON unicamente allorquando vi siano interferenze patologiche nella determinazione del prezzo, essendo bastevole (come sancito nella sentenza n. 6269/2003 cit.) “la mera notevole sproporzione del prezzo di aggiudicazione rispetto a quello giusto”, aggiungendo che il potere del G.E. ex art. 586 c.p.c., è analogo a quello conferitogli dall’art. 108 L. fallimentare del 1942 (in cui il criterio imperante è quello della notevole sproporzione oggettiva, che con la novella fallimentare viene arricchito dalla perifrasi “tenuto conto delle condizioni di mercato”).
Pertanto, la lettura fornita dell’art. 586 c.p.c. è costituzionalmente orientata (in riferimento all’art. 3 Cost.), poiché rifuggendo dalla necessaria sussistenza di “fattori anomali o devianti” (breve, patologici), evita che s’incorra in difformità di trattamento di situazioni soggettive omogenee.
Inoltre, va sottolineato che l’accertamento ex. art. 586 c.p.c. deve essere esperito dal G.E. ex post, successivamente all’aggiudicazione, dovendosi ovviamente poter vagliare l’eventuale notevole sproporzione tra prezzo stimato e corrisposto, ed anche che l’aggiudicatario, quantunque i suoi diritti siano stati implementati incisivamente da varie novelle legislative, non ha alcun diritto ad acquistare beni pignorati ad un prezzo c.d. “vile” (cit. pag. 10 della sentenza oggetto di esame).
Infine, l’interpretazione fornita è coerente con l’interesse dei creditori, i quali fisiologicamente prediligeranno un valore del bene il più possibile vicino a quello di mercato.
Relativamente ai motivi di ricorso, i ricorrenti lamentano:
1) la violazione e l’ errata applicazione dell’art. 586 c.p.c., poiché il Tribunale di Palermo avrebbe statuito in modo difforme a quanto precedentemente fatto con riferimento ai presupposti di applicabilità della norma in esame (i c.d. fattori devianti citati), ed avrebbe parimenti forzato la lettura della parte motiva della sentenza n. 6269/2003 della Corte di Cassazione, poiché si ritiene esplicitata chiaramente la sufficienza della mera notevole sproporzione del prezzo d’aggiudicazione rispetto a quello “giusto”, quando invece gli elementi indiziari sono stati, secondo i ricorrenti, considerati solo in via esemplificativa.
2) la violazione del D.lgs. 14/03/2005 (convertito con modifiche, da ultimo, in L. n 51 del 23/02/2006), poiché in merito alla percentuale di sproporzione tra i prezzi del 52, 36 %, l’interpretazione fornita dell’art. 586 c.p.c. non terrebbe conto della testé citata legge, che consente il ribasso del prezzo di vendita per un quarto, con conseguente possibilità, a seguito di due ribassi, di aggiudicare il bene con valore dimezzato rispetto a quello stimato e di mercato.
3) la violazione dell’art. 2 L. n. 89/2001, in relazione ai principi ex art. 6 CEDU, § 1, sulla ragionevole durata del processo.
4) la mancata tutela del terzo aggiudicatario, a cagione dell’interpretazione fornita dell’art. 586 c.p.c.
5) la contrarietà della sentenza all’interesse del ceto creditorio dettata dalla revocabilità dell’aggiudicazione che finirebbe con il danneggiare i creditori procedenti.
L’iter motivazionale posto in essere dalla Corte Palermitana esplicita la sussistenza di due differenti chiavi interpretative in relazione all’art. 586 c.p.c. : un primo orientamento, definito minoritario e cristallizzato nella citata sentenza n. 6269/2003, ed un secondo, contrario, espresso in altre pronunce richiamate dal Tribunale nella motivazione [Ex plurimis, – Cass. sentenza n. 8464/1999 (il cui approdo è che la ratio dell’art. 586 c.p.c. è quello di evitare l’illegalità del prezzo d’aggiudicazione per garantire “la trasparenza ed il buon andamento dell’attività amministrativa”); – Cass. sentenza n. 5073/2003 ( valgono le stesse considerazioni testé prospettate)].
In premessa, la Corte di Cassazione ha sancito come non sia pienamente condivisibile l’assunto prospettato dalla Corte d’Appello di Palermo sull’esistenza di duplice orientamento sulla ratio dell’art. 586 c.p.c., poiché, da un’attenta disamina della sentenza n. 6269/2003, emerge chiaramente che i presupposti motivazionali sull’origine della norma siano analoghi a quelli delle due sentenze che il Tribunale palermitano connota quali antitetiche rispetto a questa; invero, l’elemento innovativo non è tanto quello della discrezionalità del potere del giudice dell’esecuzione (ridimensionato alla stregua dell’introduzione dell’art. 360 ultimo comma c.p.c.), quanto più il richiamo al fatto che il presupposto dell’esercizio del potere sospensivo non richiedesse la sussistenza di reali o presunte interferenze illecite nella procedura, e tale affermazione non contrasta con quanto sancito nella sentenza n. 8464/1999, perché in essa si individuava, quale presupposto dell’agire del giudice ex art. 586 c.p.c., il riscontro di “interferenze meramente illegittime” ( aggettivo contenutiscamente più ampio rispetto a quello di “illecito”); e la segnalazione che il presupposto del potere del G.E. debba basarsi su fatti nuovi (quantunque tali anche solo in ottica soggettiva).
Indi, non v’è un vero punto di rottura tra le due sentenze citate e la n. 6269/2003, anzi, a contrariis, sussiste un legame motivazionale tra queste e le pronunce nn. 23799/2007, 14634/2009, 4344/2010 e 1612/2012 (per l’ultima tra quelle richiamate, occorre segnalare che la sentenza n. 6269/2003 viene richiamata insieme con le altre, quale facente parte di un unico orientamento), come testimoniato dal fatto che quest’ultime, in merito alla ricostruzione della logica sottostante all’art. 586 c.p.c., riprendono espressamente le citate pronunce del 1999 e del 2000.
La Corte di Cassazione ha rilevato, preliminarmente, che è erronea la prospettazione del Tribunale di Palermo di difformità tra l’orientamento della sentenza n. 6269/2003 e quello della pronuncia n. 8464/1999, poiché in quest’ultimo provvedimento, la Corte di Cassazione non aveva fatto riferimento ad “interferenze illecite”, bensì al più generale concetto di “interferenze illegittime e fattori devianti”, intese quali attività “non funzionali allo scopo cui il processo è deputato”, in cui le prime sono certamente ricomprese, ed inoltre l’iter motivazionale della sentenza n. 6269/2003 muove dai medesimi presupposti di quella del 1999 citata.
In virtù dell’erroneo incipit della parte motiva, i due conseguenti assunti della stessa risultano parimenti fallaci: il primo concerne l’identità presunta tra il valore di mercato ed il “prezzo giusto”, che in alcun modo viene sancito nella pronuncia del 2003, la quale si limita a parlare di “valore oggettivo di stima dell’immobile” (mutuando dalla genericità dell’indicazione legislativa del “giusto prezzo”), da connotare alla stregua di circostanze, individuate o quali fatti nuovi sopravvenuti, o come fatti “vecchi” ignorati dal G.E. .
Invero, sussumere dall’art. 586 c.p.c. il potere del giudice di sospendere la vendita alla stregua di un mero vaglio di non rispondenza tra prezzo di mercato e valore di aggiudicazione implicherebbe la necessità che le citate circostanze palesino sempre una notevole sproporzione tra i due fattori, stante che unicamente i fatti nuovi e sopravvenuti hanno tale potere, poiché successivi ed alla stima, ed ai momenti del procedimento di vendita ed alla sua conclusione (quelli vecchi non possono più essere considerati rilevanti, nella misura in cui al massimo avrebbero potuto esserlo per l’originaria stima effettuata).
Il secondo assunto motivazionale sul quale occorre focalizzarsi concerne l’identificazione e la delimitazione dei presupposti per l’esercizio del potere di cui all’art. 586 c.p.c. .
Nello specifico, il primo punto critico riguarda l’uso del verbo “potere” in riferimento all’attività del giudice; muovendo dall’assunto in base al quale il G.E. opera qualora ritenga il prezzo notevolmente inferiore a quello “giusto”, e successivamente all’aggiudicazione ed al versamento del prezzo”, la lettera normativa giustifica l’esercizio di un potere, sicuramente discrezionale, ma non esercitabile al di fuori dei presupposti che, necessariamente, devono sussistere ed essere precipuamente individuati al fine di legittimarne la fruizione: indi, il potere si sustanzia in capo al giudice allorquando ricorrano le condizioni legittimanti, come conseguenza del fatto che questo non sia autonomo, ma s’inserisca in una logica sequenziale di atti, e pertanto necessita di un presupposto giustificante, anche in relazione alle situazione soggettive coinvolte nel processo.
Invero, tutti i soggetti coinvolti devono avere cognizione di quali siano i limiti e controllarne il rispetto, avendo eventualmente il rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi per poter far valere qualsivoglia tipo di violazione riscontrata, sotto il profilo della falsa applicazione della norma di merito cui allude l’art. 360 n. 3 c.p.c.
La seconda nota dolens riguarda l’esegesi dell’art. 586 c.p.c., in merito all’insorgenza del potere sospensivo.
In base alla lettera della norma, quest’ultimo sussisterebbe dal momento del versamento del prezzo, ma in realtà il testo dell’articolo è frutto di mancato coordinamento (post novella del 1991), in forza del quale il potere di sospensione del G.E. non è da riferire all’evento testé citato (regolato dall’art. 585 c.p.c.), bensì al momento successivo all’avvenuta aggiudicazione, come testimoniato dal fatto che il versamento del prezzo è regolato dall’art. 576 n. 7 c.p.c., e che il Legislatore, nell’art. 586 c.p.c., non faccia riferimento alcuno all’emissione del decreto di trasferimento .
Pertanto, il profilo giuridico che viene in rilievo è che “il potere di sospensione della vendita da parte del giudice dell’esecuzione previsto dall’art. 586 c.p.c. sorge dopo l’aggiudicazione e non dopo il versamento del prezzo da parte dell’aggiudicatario”.
Ciò posto, la Corte rileva che il potere del giudice ex art. 586 c.p.c. abbia due presupposti giustificativi, uno sussistente in via diretta, e l’altro indiretta.
Il primo è quello della necessaria correlazione, tra la nozione di “giusto prezzo” e quella di “prezzo offerto”; quest’ultimo è il risultato della procedura di svolgimento di vendita, ed è considerato “ingiusto” allorquando sussista un’anomalia che lo porti a discostarsi, nell’ottica procedimentale, da quello “giusto”, il che può sussistere unicamente a cagione del mancato rispetto delle modalità fissate dalla legge per l’esperimento dell’iter del procedimento.
Indi, l’ingiustizia del prezzo va correlata alla sussistenza di un presupposto oggettivo, cioè che l’esito finale della procedura di vendita sia costituita da un’offerta che non paia corrispondere al “prezzo giusto” stante quello che avrebbe dovuto essere in base all’ordinaria procedura di vendita.
Tuttavia, tale elemento oggettivo è condizione necessaria, ma non sufficiente per rilevare il presupposto del potere di cui all’art. 586 c.p.c., poiché occorre tenere conto anche delle posizioni soggettive coinvolte nella procedura, ossia quelle del debitore e dei creditori (procedente ed intervenuti), nella misura in cui gli atteggiamenti, positivi o negativi, tenuti da costoro incidono sulla sequenza procedimentale, e dunque anche sulla correttezza (rectius giustezza) del prezzo di vendita.
Quest’ultimo rappresenta l’elemento indirettamente desumibile dal dettato dell’art. 586 c.p.c.; pertanto, il potere di cui alla norma citata poc’anzi non può essere esercitato sulla scorta di fatti od elementi che le parti avrebbero potuto evidenziare al G.E. prima dell’avvenuta aggiudicazione, poiché l’inerzia pattizia, voluta o colpevole, non incide sull’eventuale pronuncia di sospensione che, una volta disposta, qualora corretta, si consolida facendo caducare il procedimento di vendita, con la necessità, eventualmente, di incardinare uno nuovo (cfr. sentenza n. 6269/2003).
Nondimeno, in merito al potere ufficioso del G.E., qualora egli abbia conosciuto i fatti o gli elementi taciuti dalle parti, in virtù dell’uso del verbo “potere” nella norma, non è abilitato all’esercizio del potere stesso, poiché qualora avrebbe potuto esplicarlo prima dell’aggiudicazione e non l’abbia fatto, e gli si consentisse di fruirne, finirebbe con il connotarsi quale dominus del processo di esecuzione forzata, atto a garantire non l’assicurazione della vendita al “giusto prezzo”, quanto più che la vendita si realizzi non “sotto costo”, indipendentemente dall’agire degli attori processuali, il che contraddice totalmente l’assunto in base al quale v’è un titolare della posizione giuridica nel processo esecutivo con sacrificio di un’altra.
Invero, il potere ex art. 586 c.p.c. è attribuito al giudice sempre a garanzia dei diritti delle parti, e la possibilità che egli ne eserciti uno ufficioso successivo all’aggiudicazione contrasta, in particolare, con la tutela della posizione dell’aggiudicatario.
Tale argomentazione contrasta con quanto affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 6269 del 2003, in cui non veniva esclusa la possibilità delle parti di far rilevare al giudice fatti ed elementi, anche dopo l’aggiudicazione, qualora questi fossero idonei ad evitare una grave sproporzione tra prezzo di vendita e “giusto”; tuttavia, l’inerzia o la consapevole inattività delle parti nella fase di vendita sicuramente inficia il prezzo, concorrendo alla sua determinazione quale “giusto”, poiché espressione della loro volontà ( tra l’altro, tale potere pattizio sfugge ai termini di cui all’art. 617 c.p.c.).
Nell’eventualità in cui a conoscere le c.d. “circostanze” sia solo una delle parti, occorre discerne tra l’eventualità in cui alla loro rilevazione siano oggettivamente interessate o meno anche le altre parti: qualora l’elemento de quo rappresenti un “fatto nuovo” per ciascuna di esse, possono dichiarare di volersene avvalere, ed il giudice potrà esercitare il suo potere.
Ergo, per la parte che ne viene messa a conoscenza in una fase successiva, il prezzo di vendita non potrà in alcun modo risultare “giusto”, poiché alla sua cristallizzazione non si è addivenuti con la partecipazione di tutti coloro i quali avevano un interesse ad interloquire nel processo esecutivo, posto che è ovviamente onere pattizio valutare se sia il caso di assentire alla richiesta sospensione (in caso contrario, il G.E. non potrà esercitare il suo potere).
Viceversa, la posizione dell’aggiudicatario, qualora il procedimento di vendita risulti erroneo per qualsivoglia aspetto, non è meritevole di tutela, poiché la determinazione del prezzo non è stata corretta, ed egli non è titolare di alcun diritto a corrispondere un prezzo c.d. “vile” per il bene.
Dall’esegesi dell’art. 586 c.p.c. emerge il seguente principio di diritto : “ il potere di sospendere la vendita attribuito dall’art. 586 c.p.c.( nel testo novellato dall’art. 19-bis della l. 203/1991) al giudice dell’educazione dopo l’aggiudicazione perché il prezzo offerto è notevolmente inferiore a quello “giusto” può essere esercitato allorquando:
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si verifichino fatti nuovi successivi all’aggiudicazione;
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emerga che nel procedimento di vendita si siano verificate interferenze illecite di natura criminale che abbiano influenzato il procedimento di vendita, ivi compresa la stessa stima;
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il prezzo fissato nella stima posta a base della vendita sia stato frutto di dolo che si scopra dopo l’aggiudicazione;
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vengono prospettati da una parte del processo esecutivo fatti o elementi che essa sola conosceva anteriormente all’aggiudicazione e che non fossero conosciuti o conoscibili dalle altre parti prima di essa, purché tali altre parti li facciano proprio esse stesse, adducendo tale soltanto tardiva acquisizione i conoscenza come ragione giustificativa per l’esercizio del potere del giudice dell’esecuzione.
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