Il diritto all’identità prevale sul diritto al c.d. parto anonimo alla morte della madre
Cass. civ., sez. I, 21 luglio 2016, n. 15024
Con la sentenza in commento la 1° sezione civile della S. Corte ha stabilito che, alla morte della madre biologica che aveva scelto di celare la sua identità, l’interesse alla segretezza diventa recessivo rispetto a quello del figlio che ha diritto a conoscere le sue origini biologiche e, in particolare, di poter accedere alle relative informazioni.
Nel caso di specie, il Tribunale aveva in prima istanza accolto la richiesta della figlia maggiorenne di poter accedere ai dati della cartella clinica relativi al suo parto biologico; tuttavia, dopo aver appreso dall’ospedale del decesso della madre, considerando l’impossibilità di raccogliere la sua volontà in merito, aveva concluso per il rigetto. Dopo aver invano proposto reclamo presso la Corte d’Appello, la figlia si era quindi rivolta alla S. Corte ai sensi dell’art. 111 cost., rappresentando la violazione e falsa applicazione dell’art.28, comma 7, legge n. 184/1983, così come interpretato dalla Corte cost. con sentenza n. 278/2013.
Nella sua articolata sentenza la Corte trae le mosse dall’analisi del diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche e alle circostanze complessive della propria nascita. In particolare, si pone in evidenza il rilievo che tale posizione giuridica è venuta ad assumere, sia nel contesto internazionale (art. 7 Convenzione di New York sui diritti del fanciullo; art. 30 Convenzione dell’Aja sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale; raccomandazione n. 1443/2000 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa), sia nel diritto interno di numerosi Stati europei (Spagna, Trib. cost., sent. 21 settembre 1999; Olanda, Corte Suprema, sent., 15 aprile 1994, Valkenhorst; Germania, BVerfG, sent., 31 gennaio 1989; più restrittivo in Svizzera, comb. disp. artt. 29 e 138 OSC). La Cassazione dà poi conto anche degli interventi sul punto della Corte EDU: celebre è la sentenza Godelli c. Italia (25 settembe 2012, ric.-33783/09), ove si era stabilito a chiare lettere che il diritto a conoscere la propria ascendenza rientri nell’ambito dell’art. 8 Convenzione EDU, giacché rientra nella “vita privata” anche il diritto all’identità e allo sviluppo personale, comprensivo della facoltà di allacciare e approfondire relazioni con i propri simili e con il mondo esterno, cui è certamente strumentale la piena conoscenza della “verità” dei profili più rilevanti della propria persona (come l’identità dei propri genitori: caso Godelli, cit., §§ 45-46).
In un precedente arresto (Odièvre c. Francia, 13 febbraio 2002, ric.-42326/98), di cui il caso Godelli costituisce, secondo la nostra S. Corte, ” coerente riaffermazione”, la Grande Chambre aveva invece scrutinato la disciplina francese (oggetto di riforma con la legge 22 gennaio 2002 n. 2002/93), giudicando ragionevole il bilanciamento effettuato tra le due posizioni. Da un lato, si garantiva il diritto della madre al parto c.d. anonimo, ossia a mantenere il riserbo sui propri dati personali; sebbene tutelato da un numero esiguo di Stati contraenti, un tale diritto si presenta astrattamente meritevole, ove volto ad evitare che le condizioni della madre la inducano ad aborti clandestini o abbandoni c.d. selvaggi, nonché a garantire alla donna di poter procreare assistita da adeguate condizioni medico-sanitarie, salvaguardando in tal modo anche la salute e l’integrità del nascituro. D’altro canto, la disciplina francese non rendeva la scelta materna preclusivo in assoluto dell’accesso a ogni dato personale (in particolare per alcuni dati non identificativi che la partoriente era tenuta a comunicare quando manifestava la propria opzione al medico), facendo poi in modo che la scelta rimanesse sempre revocabile, anche istituendo a tal proposito un organismo ad hoc finalizzato a raggiungere l’accordo tra madre e figlio (il Consiglio Nazionale per l’accesso alle origini personali) per gestire il dialogo fra le due figure e dando effettività alla possibilità per la madre di proporre interpello alla richiesta del figlio.
La 1° sezione della nostra S. Corte, partendo da tale caso, evidenzia che il caso Odièvre è stato un precedente “sofferto”, come evidenziato dal nutrito schieramento dei giudici in dissenso; in particolare, nella dissenting opinion si era rappresentata la netta prevalenza attribuita alla madre, cui, a prescindere da una qualsiasi indagine sulla validità delle sue ragioni, era consentito di decidere per il figlio, privandolo della verità sulle sue origini (e, quindi, su una parte consistente della sua identità personale), senza che alcun soggetto, anche pubblicistico, avesse alcuno strumento per opporsi (configurandosi in definitiva il suo quale un vero e proprio diritto c.d. di veto). La madre, in definitiva, veniva invitata al dialogo e a riflettere sulla reversibilità della sua scelta: che, tuttavia, rimaneva sempre e soltanto sua, con grave compromissione del contrario diritto del figlio (volto, in seno ideale, alla scoperta della verità, almeno personale).
Sulla base di tali premesse, la S. Corte evidenzia che, a rigore, appare scorretto tratteggiare la questione in termini di “bilanciamento tra diritti fondamentali” in reciproca antinomia: un tale conflitto potrebbe al più esservi al momento della gestazione e del parto (con il contrasto tra il diritto alla vita del nascituro e quello alla salute, o addirittura alla vita, della madre). In seguito, a confrontarsi sono esclusivamente un diritto fondamentale (il diritto a disvelare la propria origine, che è parte del proprio diritto all’identità) con una scelta personale radicale ritenuta meritevole e la cui tutela non può che porsi in termini assoluto per le conseguenze deteriori che si potrebbero realizzare ove l’opzione fosse vietata o non garantita nel tempo. Del resto, il nostro ordinamento non consente di rinvenire né un diritto alla riservatezza nei confronti di dati così rilevanti per l’altrui personalità, né un diritto fondamentale sotteso alla decisione di assumere o meno il compito e le responsabilità connesse alla genitorialità. L’anonimato è protetto in quanto strumentale al buon esito della vicenda della gravidanza, con una situazione, per certi versi, di tipo “convenzionale”: la madre accetta di portarla a compimento, senza poter però essere costretta da alcun soggetto dell’ordinamento a far coincidere genitorialità sociale e giuridica; ove poi decidesse di superare tale scissione, in modo libero ed incondizionato, dovrà però tener conto della volontà del figlio, che ben potrebbe essere contrario ad una tale diffusione (con il conseguente corollario per cui la scelta per l’anonimato potrebbe tramutare in obbligo di segretezza).
Tanto precisato, la S. Corte si richiama alla sentenza della Consulta invocata dalla ricorrente (Corte cost., sent., n. 278/13), la quale era intervenuta, a seguito della pronuncia Godelli, sull’art. 28, comma 7, l. ad., come modificato dall’art. 177, comma 2, d.lgs. n. 196/03, per il mancato esame della “persistenza” della volontà dell’anonimato in capo alla madre ove vi fosse richiesta di accesso ai dati da parte del figlio biologico. La Corte Costituzionale aveva nell’occasione evidenziato che l’anonimato era funzionale a salvaguardare madre e neonato da un qualsiasi perturbamento, nonché a garantire che l’evento della nascita potesse avvenire nel modo più sereno possibile; tuttavia, il meccanismo era censurabile sotto il profilo “diacronico”, giacché determinava una sorta di “immobilizzazione” o “cristalizzazione” della volontà materna, finendo per ingenerare un vincolo obbligatorio con efficacia espansiva esterna al suo stesso titolare. Il vulnus, secondo la Corte, era dunque dato non dalla previsione del segreto in sé e per sé, ma dalla sua irreversibilità, che, attribuendo una protezione eccessiva all’anonimato della madre (esposta a rischio non appena qualcuno ne “cerchi il contatto”), finiva per sacrificare irragionevolmente la posizione del figlio, cui era definitivamente preclusa anche la genitorialità biologica (oltre che quella giuridica).
Alla luce di ciò, la 1° sezione pone in rilievo che appare iniquo considerare operativo il termine generale di cui all’art. 93, comma 2, d.lgs. n. 196/03 (rilascio di copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica dopo 100 anni dalla formazione del documento) anche in caso di morte del genitore biologico, giacché si finirebbe per reintrodurre in modo surrettizio la “cristalizzazione” della volontà espunta dall’intervento demolitorio della Consulta. Difatti, oltre all’evidenza per cui l’evento esiziale rende sicuramente non più reversibile ogni previa manifestazione di intenti, non si vede per quale ragione si dovrebbe tutelare una posizione giuridica (quella della madre) le cui ragioni di protezione sono venute meno, condannando invece il figlio biologico a permanere nell’ignoranza di una parte significativa della propria storia personale (che ne condiziona l’intimo atteggiamento e, in generale, l’evolversi della sua vita di relazione). Per giungere a tale conclusione non è necessario arrischiarsi in barocche ricostruzioni, quasi che la morte potrebbe eleggersi a circostanza presuntiva della volontà di rimozione post mortem: più correttamente, la morte non rende più attuale né ipotizzabile la reversibilità del segreto, elidendo in tal modo la condizione di compatibilità costituzionale della sua previsione legale e provocando dunque la piena “riespansione” del diritto fondamentale a conoscere compiutamente la verità biologica del proprio io.
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