Il diritto del minore ad avere una famiglia
Negli ultimi anni, nella materia del diritto di famiglia, sono intervenute importanti modifiche legislative che hanno inciso in misura rilevante anche sulla tutela civile del minore.
Tralasciando l’analisi specifica delle singole novelle legislative, soffermiamoci ad esaminare in generale i passaggi fondamentali di questa importante evoluzione legislativa per quel che interessa in questa sede.
Partiamo dal 2001, anno in cui fu emanata la L. n. 149, che introdusse una serie di modifiche al codice civile e alla L. 184/1983 (L. adoz.).
Una prima novità è consistette nella modifica del titolo della stessa da «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento» in «Diritto del minore ad una famiglia».
In questo modo, si è inteso sottolineare lo spostamento della logica della legge da adulto-centrica, adozione di un bambino da parte di due soggetti adulti, a quella che, invece, riconosce il diritto del bambino a vivere e crescere in una famiglia. Non una qualsiasi famiglia ma, possibilmente, la sua famiglia di origine ovvero altra famiglia quando quest’ultima non sia in grado di garantire i diritti costituzionali del minore di venire mantenuto, istruito ed educato (art. 30 Cost.), così garantendogli una crescita armonica e che tenga conto delle sue inclinazioni.
La famiglia, riconosciuta e garantita dalla Costituzione, è da sempre il luogo ove i soggetti hanno trovato gli elementi necessari alla crescita e alla sopravvivenza in virtù di quei rapporti oltre che affettivi, solidaristici che la caratterizzano.
Partendo dall’originaria concezione della famiglia, parte della dottrina rileva come per essa «s’intendeva quel nucleo comprendente più generazioni di soggetti in linea di massima legati da rapporti di parentela che, vivendo insieme, determinavano rapporti di solidarietà e collaborazione indispensabili per una vita in comune».
La famiglia, sin dall’epoca romana, si è caratterizzata come un nucleo autogestito all’interno del quale alcun potere veniva esercitato dallo Stato e questa impostazione non è mutata nel corso dei secoli e ha visto una concreta evoluzione solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando la donna la iniziato in modo concreto a lavorare fuori dalla casa.
Prima di questo momento, la famiglia ha perso quella caratteristica patriarcale che l’aveva contraddistinta soprattutto nella società agricola e si è modellata sempre più su schemi nucleari (padre, madre, figli ed, eventualmente, nonni) con l’affermarsi della cultura industriale; modello patriarcale che ha perso consistenza anche in virtù dei considerevoli fenomeni migratori dal sud del paese verso il nord ove si trasferiva, in genere, prima il padre e, successivamente, la madre con i figli.
In ogni caso, la famiglia ha continuato a conservare uno schema verticistico anche nell’ambito della così detta legislazione moderna.
Sia il codice italiano del 1865, che quello del 1942, individuavano nel capo famiglia, il padre, come il responsabile della vita familiare, sia nei confronti dei figli, sottoposti alla «patria potestà», sia nei confronti della moglie, sottoposta alla potestà maritale.
Soprattutto con il codice del 1942, si affermò il principio per il quale la famiglia è il luogo in cui far crescere i figli che rappresentano un’ineliminabile risorsa per lo Stato.
Fu lo stesso guardasigilli dell’epoca che, nella sua relazione al codice, rappresentava come lo spirito della legge non fosse la tutela dell’individuo, ma la protezione degli interessi superiori e permanenti della comunità nazionale che trascendono la breve vita dei singoli.
D’altra parte, lo schema e le regole della famiglia erano rigidamente prefissate ed erano assolutamente inderogabili.
Se questa era la concezione della famiglia, appare evidente che preoccupazione dello Stato non era quella di garantire al minore la possibilità di vivere e crescere nella sua famiglia di origine ma solo quella di assicurare al minore stesso un luogo, anche non una famiglia, che gli desse la possibilità di crescere ed essere educato secondo i fini e gli interessi della società statale.
L’affermazione del diritto alla propria famiglia di origine, come detto, troverà la sua consacrazione legislativa solo con la legge 149/2001 che ha modificato l’art. 1 della L. 184/1983, in base al quale «Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia».
Tale principio trova la sua ragion d’essere in quanto l’uomo, animale sociale, ha la necessità di affermare la propria identità nell’ambito del gruppo di appartenenza che, con le sue caratteristiche e specificità, consente all’individuo di sentirsi parte di un aggregato e non un soggetto solo e senza legami.
La famiglia rappresenta proprio quell’aggregato, di dimensioni tali da consentire una facilità di scambi e di relazioni sia al suo interno che verso l’esterno, che consente al bambino di sperimentarsi e, quindi, di strutturare le sue caratteristiche.
È questo il motivo per il quale non vi è legislazione che non si occupi della famiglia garantendola e tutelandola.
Premesse queste considerazioni generali, definiamo il concetto di famiglia. Fino a non molti anni fa, la nostra cultura e la nostra disciplina legislativa, intendevano per famiglia, mutuando dalla morale cattolica, solo quella fondata sul matrimonio.
L’evoluzione della società ha, tuttavia, imposto al legislatore di riconoscere come famiglia anche quella fondata sulla volontaria scelta di convivenza in assenza del formale «contratto» matrimoniale. E, sia pur in assenza di un formale riconoscimento delle unioni di fatto, già con la legge 149/2001 si era riconosciuta la famiglia di fatto, ritenendo valida la convivenza continuativa prima del matrimonio per valutare come sussistente il decorso dei tre anni previsti dall’art. 6 L. adoz., come requisito per poter accedere all’adozione, ma, ancora di più, con la legge 54/2006, in tema di separazione tra i coniugi, estendendo la disciplina della separazione anche alla famiglia di fatto.
Va qui sottolineato che, peraltro, il concetto di famiglia come persone che convivono comincia ad essere un concetto obsoleto.
La Corte Europea dei diritti dell’uomo valuta in modo più elastico il concetto di famiglia, ritenendo che, per tale, debba intendersi anche quella tra genitori che non convivano in virtù del rapporto che s’instaura tra loro ed il figlio nato dalla loro unione.
In una società che, però, diventa sempre più multirazziale è necessario tener conto delle diverse sensibilità sociali e culturali.
Diverso, infatti, il concetto di famiglia in ambito occidentale, da quello orientale o del mondo arabo.
In questa materia, il Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite ha adottato un significato particolarmente ampio del concetto di famiglia, andando molto oltre quella che, nella nostra cultura, è la famiglia nucleare o quella allargata. Si pensi che, nella cultura islamica ad esempio, il concetto di famiglia nucleare è del tutto estraneo; immaginare un nucleo familiare che non abbia rapporti con il resto della famiglia o con i propri vicini di casa è cosa inconcepibile. Questo, infatti, spinge all’apertura verso gli altri, all’instaurazione di buoni rapporti che determinano solidarietà e, quindi, aiuto reciproco nei momenti di difficoltà.
È facilmente intuibile che questa concezione di famiglia e di rapporti tra le famiglie può incontrare una difficoltà di comprensione da un punto di vista culturale e una difficoltà di inquadramento da un punto di vista giuridico quanto al rispetto del principio del diritto del bambino a vivere nella sua famiglia di origine. Per il mondo islamico, infatti, un bambino che sia allevato dai vicini di casa è un bambino che continua a vivere nell’ambito della sua famiglia di origine mentre, nella nostra concezione di famiglia, potrebbe essere un bambino che è dato in affido familiare se non abbandonato dalla sua famiglia.
Va detto che il diritto del minore a vivere nella propria famiglia di origine, comunque essa sia intesa, non ha la sua origine nel dettato legislativo, quanto in quei diritti personalissimi e umani che trovano il loro riconoscimento al di là dei confini nazionali.
La dottrina individua, ormai in modo indiscusso, tra i diritti umani quello alla vita, alla libertà, al nome, all’identità personale, alla proprietà e alla famiglia. Ed è proprio la famiglia che consente lo sviluppo di quei meccanismi, studiati dalle scienze psicologiche, attraverso i quali, si pensi all’attaccamento del bambino al genitore, il bambino avverte, sin dalle prime fasi della sua vita, quella protezione che gli permette serenamente di sperimentarsi nei diversificati momenti della sua crescita.
Nel nostro ordinamento, è la Costituzione a fornire il quadro normativo di riferimento a tutela della famiglia e, soprattutto, del figlio. Gli articoli 2, 3, 29, 30 e 31, è stato osservato, integrano un autentico statuto dell’infanzia e della gioventù.
Il minore non più oggetto del diritto dello Stato alla sua crescita, ma soggetto titolare del diritto ad essere mantenuto, educato ed istruito da parte dei suoi genitori che ne devono assicurare una corretta ed armonica evoluzione.
È lo stesso articolo 30 Cost. che, prevedendo la possibilità per lo Stato di intervenire in caso di incapacità dei genitori ad assolvere i loro compiti, predispone la via attraverso la quale è possibile garantire a tutti i minori una base di partenza adeguata eliminando le cause di disagio e riconducendo a normalità situazioni anomale.
Un contributo interpretativo è stato offerto dalla Corte Costituzionale, tra l’altro con la sentenza 166 del 1998 ove, tra l’altro, è stato affermato che: «il concetto di mantenimento comprende in via primaria il soddisfacimento delle esigenze materiali, connesse inscindibilmente alla prestazione dei mezzi necessari per garantire un corretto sviluppo psicologico e fisico del figlio, tra le quali assume profonda rilevanza quella della predisposizione e conservazione dell’ambiente domestico, considerato quale centro di affetti, interessi e consuetudini di vita, che contribuisce in misura fondamentale alla formazione armonica della personalità della prole. Sotto tale profilo, l’obbligo di mantenimento si sostanza, quindi, nell’assicurare ai figli idoneità di dimora, intesa quale luogo di formazione e sviluppo della personalità psico-fisica degli stessi».
Ed il diritto del bambino a vivere nella sua famiglia di origine è riconosciuto anche dai trattati internazionali e, tra questi, la Convenzione sui diritti dell’infanzia, approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 20-11-1989 e ratificata dall’Italia con la legge 176/1991 ove, tra i diritti riconosciuti al bambino, vi è quello alle relazioni familiari ed affettive meglio, poi, specificato dall’articolo 9, che impone agli Stati aderenti alla convenzione l’obbligo di vigilare affinché il bambino non sia separato dai suoi genitori contro la sua volontà, a meno che le autorità competenti non decidano, sotto riserva di revisione giudiziaria e conformemente con le leggi di procedure applicabili, che questa separazione è necessaria nel preminente interesse del fanciullo.
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