Il disegno criminoso nel reato continuato: alla ricerca della “unicità” tra dicta giurisprudenziali e dubbi non sopiti

Il disegno criminoso nel reato continuato: alla ricerca della “unicità” tra dicta giurisprudenziali e dubbi non sopiti

1. Premessa. 2. Il reato continuato: una visione d’insieme. 3. L’unicità del disegno criminoso in dottrina e giurisprudenza. 4. Ipotesi di cambiamento nell’accertamento del medesimo disegno criminoso. 5. Riflessioni conclusive.

1. Premessa.

Il reato continuato è disciplinato dall’art. 81 c.p. che, regolamentando primariamente l’ipotesi di concorso formale di reato, sancisce al secondo comma che colui il quale, con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge, soggiace alla pena inflitta per la violazione più grave aumentata sino al triplo.

Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale orbitante attorno all’esegesi, disciplina e concreta applicazione del reato continuato rende l’argomento di costante attualità e meritevole di continua trattazione.

A suffragio, si osserva come la Suprema Corte di Cassazione, nell’assolvimento della funzione nomofilattica, sovente colga l’occasione di fornire dei chiarimenti con l’obiettivo di rendere uniforme un istituto giuridico che non di rado è (eccessivamente?) plasmato dall’interpretazione delle Corti di merito.

Nel contempo, stante la normativa che ritiene astrattamente configurabile [rectius-rinvenibile] il medesimo disegno criminoso anche in sede esecutiva, si comprende l’oggettiva difficoltà nel giudicare ammissibili o prive di fondamento istanze volte a riunire più violazioni in un progetto criminoso, così da poter beneficiare dell’effettiva riduzione di pena che indubbiamente ne consegue.

Sin dalla primigenia lettura della norma si evince che il reato continuato è la risultanza di una pluralità di elementi costitutivi che, singolarmente, pongono specifiche problematiche.

Il presente contributo tratta del concetto di unicità del medesimo disegno criminoso, presupposto indefettibile per la configurazione della continuazione tra più reati, nonché – in via primaria – delle criticità riscontrabili nell’accertamento di tale requisito nelle aule di giustizia.

La corretta comprensione del thema decidendum postula l’analisi dell’istituto nella sua generale fisionomia, prius indispensabile per poter poi coscientemente focalizzare l’attenzione su di un solo specifico requisito, ovvero il medesimo disegno criminoso.

2. Il reato continuato: una visione d’insieme.

L’art. 81 c.p. è norma “neutra”, che non fornisce all’interprete alcuna indicazione circa la sottesa volontà del Legislatore: difatti, attraverso la rubrica <<Concorso formale. Reato continuato>> si limita sostanzialmente a indicare una tecnica di calcolo di pena allorquando si manifesti un concorso formale di reati, specificando, al secondo comma, la peculiarità del reato continuato.

L’assetto codicistico del 1930 ammetteva la continuazione solo in presenza di omogeneità delle fattispecie violate[1]: attraverso una precisa tecnica di redazione della norma, il Legislatore veicolava l’interpretazione, ancorando la sussistenza di un medesimo disegno criminoso esclusivamente innanzi a più violazioni della medesima disposizione di legge[2].

Il reato continuato è stato modificato mediante l’art. 8 del decreto legge 11 aprile 1974, n. 99, convertito dalla legge 7 giugno 1974, n. 220: con siffatto intervento la norma, originariamente fondata sull’omogeneità della fattispecie, veniva ampliata ammettendo altresì disegni criminosi essenzialmente eterogenei[3].

L’effettiva ratio della norma non era di facile individuazione già all’atto della prima stesura; l’avvento della nuova disciplina, ontologicamente più estesa della prima formulazione, ha diviso la dogmatica e la giurisprudenza in ordine alle motivazioni che avevano indotto a plasmare l’istituto del reato continuato.

Per una prima interpretazione, il regime di favore del profilo sanzionatorio, ovvero il cumulo giuridico in luogo di quello materiale, si giustificava alla luce del minor disvalore complessivo dei fatti commessi, poiché l’autore, nell’interezza della vicenda, ha ceduto una sola volta all’impulso criminoso; per converso, secondo un orientamento minoritario, l’interprete avrebbe dovuto, invero, ravvisare proprio nell’unicità del piano criminoso perseguito dall’agente un motivo di aggravamento, piuttosto che di attenuazione, del regime sanzionatorio[4].

La giurisprudenza maggioritaria è decisamente orientata a ravvisare un minor disvalore nel reato continuato, poiché solo il soggetto che pone in essere una serie di violazioni di legge, rappresentandosele preventivamente e come complesso unitario, cede una sola volta alle spinte delinquenziali e, conseguentemente, dimostra una capacità a delinquere inferiore[5].

Tanto chiarito in relazione alla storia e alla ragione istitutiva del reato continuato, ci si sofferma – in breve – sugli elementi essenziali che, come noto, sono la pluralità di azioni od omissioni, la distanza cronologica fra le violazioni di legge, la plurima violazione della medesima o di diverse disposizioni di legge e, per ultimo, il medesimo disegno criminoso.

In primo luogo, la pluralità di azioni od omissioni pretesa dall’art. 81 c.p. deve essere tenuta ben distinta dall’ipotesi in cui, per converso, vi sia pluralità di atti costitutivi di un’unica condotta.

Quanto all’elemento cronologico, l’inciso <<anche in tempi diversi>> permette di cogliere due assunti precisi: dapprima, il trascorrere del tempo non è condizione ostativa al riconoscimento del medesimo disegno criminoso; inoltre, ragionando a contrariis, la sussistenza può essere negata anche per violazioni commesse in un breve lasso di tempo, quando queste non risultino preventivamente e unitariamente deliberate[6].

La Corte di Cassazione, tenuto conto del requisito “cronologico” del reato continuato, ha definitivamente ammesso la configurabilità tra un reato oggetto di condanna irrevocabile e un altro commesso successivamente a esse, congiuntamente alla recidiva o disgiuntamente a essa[7].

Quale eccezione, non è applicabile “in executivis” la continuazione tra reato giudicato in Italia e quello oggetto di statuizione da parte di una Corte estera: difatti, dal riconoscimento nell’ordinamento nazionale discendono i soli effetti indicati nell’art. 12 c.p.[8], in cui non è contemplato il regime di reato continuato che necessita di un giudizio di merito derivante dall’ermeneutica delle norme di diritto sostanziale interno[9].

Per completezza, deve essere ricordato che l’individuazione della violazione più grave è stata oggetto di contrasti sia sul versante dottrinale che giurisprudenziale.

Per una prima tesi, la norma più grave doveva intendersi quella concretamente individuata dal giudice nello specifico caso; le motivazioni a sostegno di tale impostazione riposavano nell’assunto che una valutazione strettamente legata alla singola vicenda meglio convergeva con lo spirito di riforma dell’anno 1974, caratterizzato dall’intento di ampliare i poteri discrezionali dell’organo giudicante, non più legato al requisito dell’omogeneità delle violazioni.

Ancora, tale criterio “in concreto” era normativamente rinvenuto nell’art. 187 disp. att. c.p.p. che, stabilendo un principio generale, sancisce che <<per l’applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato da parte del giudice dell’esecuzione si considera violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave, anche quando per alcuni reati si è proceduto con giudizio abbreviato>>.

Si è osservato che l’impostazione de qua palesemente subordinava l’applicazione della norma alla mera discrezionalità del giudice, ammesso a plasmare a suo piacimento una disposizione che, in realtà, cristallizza un istituto di carattere generale che tuttora non può – e non deve – essere legato alla mera valutazione potestativa del giudicante.

Così, a sostegno della “gravità in astratto” è stata invocata proprio la necessità di garantire la certezza del diritto e di evitare che le valutazioni discrezionali del giudice possano disattendere le

previsioni legislative circa la gravità dei singoli reati, desumibile dai limiti edittali di pena.

Nella giurisprudenza di legittimità non sussistono dubbi in ordine alla preminenza di tale criterio:

<<peraltro la scelta della violazione più grave deve avvenire in astratto, cioè con la valutazione, da parte del giudice, del trattamento sanzionatorio come minacciato (recte comminato) dal precetto penale, e non in concreto: il legislatore ha utilizzato l’espressione “violazione più grave” e non “pena più grave”, come avrebbe fatto se avesse voluto attribuire alla pena da infliggere in concreto – tenuto conto dei criteri di cui all’art. 133 l’efficacia determinatrice della più grave violazione. Ne deriva che il giudice non può “liberamente scegliere” quale sia la violazione più grave individuando “in concreto” il reato più grave perché è viceversa tenuto, senza discrezionalità alcuna che si porrebbe in contrasto con il principio di stretta legalità, ad effettuare la valutazione astratta della violazione più grave sulla base della individuazione della comminatoria più grave>>[10].

Anche le Sezioni Unite hanno confermato la tesi della gravità in astratto[11]; successiva pronuncia ha altresì escluso che la gravità della violazione potesse essere ricondotta mediante il criterio di cui all’art. 187 disp. att. c.p.p., atteso che trattasi di regola a latitudine applicativa limitata alla sola fase esecutiva, insuscettibile di applicazione generalizzata. La Corte ha precisato altresì che ai fini della determinazione della pena per il reato continuato deve aversi riguardo alla violazione più grave considerata in astratto e non in concreto, nel caso di concorso fra delitto e contravvenzione la violazione più grave si individua nel delitto, in relazione al quale il giudizio di maggior gravità discende direttamente dalle scelte del legislatore[12].

Delineata la struttura essenziale del reato continuato, è d’uopo analizzare l’elemento costitutivo primario, ovvero il disegno criminoso, con particolare riferimento all’unicità che lo caratterizza.

3. L’unicità del disegno criminoso in dottrina e giurisprudenza.

La disamina dell’argomento è complessa e articolata e richiede di essere trattata inizialmente – a parere di chi scrive – attraverso la puntuale indicazione dell’attuale assetto giurisprudenziale in subiecta materia.

A dissipazione di ogni dubbio (come si vedrà, la chiarificazione è meramente apparente), la Corte di Cassazione ha statuito, in una recente decisione, che:

<<l’unicità del disegno criminoso, presupposto indefettibile per la configurabilità della continuazione fra più reati anche quando l’applicazione dell’istituto sia invocata in sede esecutiva, richiede sotto il profilo soggettivo la rappresentazione dei singoli episodi criminosi, individuati almeno nelle loro linee essenziali sin dall’inizio dell’attività illecita, nel senso che l’autore deve avere già previsto e deliberato in origine ed in via generale l’iter criminoso da percorrere, nonché i singoli reati attraverso i quali attuarlo, che nella loro oggettività si devono presentare compatibili giuridicamente e posti in essere in un contesto temporale di successione o contemporaneità. Ne consegue che tale problema si risolve in una “quaestio facti” la cui soluzione è rimessa di volta in volta all’apprezzamento del giudice di merito. Si esclude comunque che l’unicità del disegno criminoso possa identificarsi con l’abitualità criminosa, o con scelte di vita ispirate alla continua violazione delle norme penali, così come, sul fronte opposto, non può nemmeno pretendersi che tutti i singoli reati siano stati in dettaglio progettati e previsti nelle varie occasioni temporali e nelle modalità specifiche di commissione delle loro azioni, atteso che la disciplina normativa richiede identità del disegno criminoso, ovvero che i singoli reati siano mezzo per il conseguimento di un unico intento, sufficientemente specifico e rintracciabile sin dalla commissione del primo di essi sulla scorta di un apprezzamento in punto di fatto spettante al giudice di merito e, come tale, se congruamente motivato, insuscettibile di censura nel giudizio di legittimità>>[13].

L’esegesi del concetto di medesimo disegno criminoso ha visto contrapporsi due distinte teorie volte al dare concretezza a una definizione, che per lo scrivente rimane tale, particolarmente “astratta”.

Una prima corrente inquadra il medesimo disegno criminoso in accezione intellettiva e consisterebbe in una mera “rappresentazione mentale anticipata” dei singoli episodi delittuosi, da realizzarsi a opera dello stesso soggetto agente.

Ai fini dell’oggettivo accertamento, non è sufficiente dimostrare un mero generico programma di attività delinquenziale ovvero l’abitualità al delitto (principi oramai pacifici in giurisprudenza); è d’uopo verificare l’esistenza di un piano, un programma iniziale, che l’agente si è rappresentato[14].

Un secondo orientamento, preferito in giurisprudenza, richiede oltre alla rappresentazione anticipata, un ulteriore requisito: l’agente deve essere mosso da una precipua finalità, ovvero perseguire uno specifico scopo. Ne discende che, per aversi un reato continuato è indispensabile che i diversi fatti criminosi rappresentino l’attuazione di un preciso e concreto programma diretto alla realizzazione di un obiettivo unitario. In altri termini, occorre che i diversi reati siano in rapporto di interdipendenza funzionale rispetto al conseguimento di un unico fine e tale interdipendenza deve, a sua volta, estrinsecarsi in una serie di dati obiettivi esteriormente riconoscibili[15].

Come dianzi accennato, la tesi che ricomprende una componente intellettiva e una finalistica è preferita [rectius-condivisa e applicata] dalla giurisprudenza maggioritaria[16].

Le teorie de quibus, seppur chiare nel loro tenore letterale, rimangono allo stato gassoso e tocca alle Corti di merito e di legittimità condensarle in principi concretamente suscettibili di applicazione concreta e immuni da vizi logici.

Pertanto, la giurisprudenza ha precisato che l’unicità del disegno criminoso richiesto per la configurabilità del reato continuato non si identifica con una scelta di vita che implica la reiterazione di determinate condotte criminose, essendo invece necessario che le singole violazioni, concepite almeno nelle loro caratteristiche essenziali, costituiscano parte integrante di un unico programma deliberato per conseguire un determinato fine[17].

Nemmeno la mera inclinazione a reiterare violazioni della medesima specie, anche se eziologicamente connessa a una determinata scelta di vita, o ad un programma generico di attività delittuosa da sviluppare nel tempo secondo contingenti opportunità, integra di per sé l’unicità del disegno criminoso[18].

Il requisito dell’unicità del programma criminoso non si identifica con una concezione di vita improntata al crimine e dipendente dagli illeciti guadagni che da esso possono scaturire; infatti il movente assume rilievo esclusivamente allorquando il proposito criminoso risulti connotato da specificità e concretezza[19].

Minoritario l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale l’unicità di disegno criminoso potrebbe essere ravvisata anche nell’ipotesi di una generica programmazione di crimini[20].

In particolare, si è osservato che non è contemplata la predeterminazione, sin dal primo momento, di ciascuna azione facente parte della condotta criminosa con dettagliata programmazione delle modalità delle azioni criminose nel loro graduale susseguirsi, essendo sufficiente la generica programmazione dei crimini aventi tutti la finalità di raggiungimento dello scopo propostosi dall’agente.

Il dolo d’impeto o l’occasionalità di una delle condotte sono incompatibili con il riconoscimento della continuazione con altri episodi delittuosi[21].

4. Ipotesi di cambiamento nell’accertamento del medesimo disegno criminoso.

L’obiettivo del contributo è fornire una visione differente, ontologicamente in contrasto con l’attuale approccio della giurisprudenza, così da sollecitare – con spirito critico – riflessioni in tema di accertamento del medesimo disegno criminoso.

Inquadrato siffatto requisito del reato continuato nella sua fisionomia dogmatica e interpretativa, l’operatore di diritto, a parere di chi scrive, si trova innanzi a una fattispecie non di immediata comprensione, ma in parallelo di costante applicazione.

Dubbi che trovano maggior vigore avuto riguardo al contenuto dell’art. 671 c.p.p., a mente del quale <<fra gli elementi che incidono sull’applicazione della disciplina del reato continuato vi è la consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza>>[22].

Ciò premesso, l’unicità del medesimo disegno criminoso è un fattore meramente soggettivo che deve essere accertato mediante riscontri di caratteri oggettivo.

Sovente, in presenza di una pluralità di reati, oppure in istanze in executivis, il reato continuato è individuato sulla scorta della tipologia degli illeciti commessi e del contesto temporale, senza avere riguardo dell’effettiva volontà del soggetto agente; nel senso, si soprassiede e non di rado se ne presume (anche se celatamente) l’esistenza.

La qualificazione giuridica del fatto da parte del pubblico ministero, nella fase delle indagini preliminari, ben può ricomprendere l’ipotesi di reato continuato ma, sempre a parere di chi scrive che ben si discosta dalla prassi, deve essere ulteriormente provata in giudizio.

Non si dimentichi che la pena viene ridotta e quindi lato sensu vi è una celata premialità nell’istituto a cui deve accompagnarsi la relativa prova della sua sussistenza.

Eppure, nel corso dei processi di cognizione o esecutivi, solitamente nessuna indagine soggettiva specifica viene eseguita in ordine all’effettiva, come afferma la Cassazione, deliberazione ab origine e in via generale dell’iter criminoso da percorrere.

Tanto premesso, il ragionevole dubbio che può essere sollevato potrebbe essere risolto attraverso un cambio di disciplina, in antitesi, però, con l’attuale corrente di politica giudiziaria, tendente a non inasprire la capacità punitiva dello Stato, tra cui primeggia l’introduzione della particolare tenuità del fatto.

Il riconoscimento del vincolo della continuazione dovrebbe seguire sempre a una concreta partecipazione dell’indagato/imputato che, in sede di interrogatorio nelle indagini preliminari o durante l’esame in sede dibattimentale, confermi – anche indirettamente, dato che al profano di diritto non è chiesto di sapere la puntuale normativa sul medesimo disegno criminoso – la sussistenza di quel originario e rappresentato iter criminoso costituente il quid pluris che distingue il reato continuato dal mero concorso materiale di reati, puniti con il più afflittivo cumulo materiale delle pene.

Non sarebbe allora ammissibile inserire nel capo di imputazione il vincolo della continuazione e definire il processo con rito abbreviato, salvo che negli atti delle indagini preliminari non si rinvenga un atto utilizzabile (per intenderci, non le spontanee dichiarazioni) da cui si evinca che le più violazioni erano esecutive di un medesimo disegno criminoso.

D’altronde, la riforma della legge n. 67/2014 mira a garantire l’effettiva partecipazione e conoscibilità del processo: quindi, il processo si celebra solo se l’imputato è stato messo in condizione di averne piena cognizione.

E’ suo onere attivarsi affinché la propria posizione processuale sia degnamente difesa in giudizio e sia ricercata la migliore scelta processuale.

Se l’imputato decidesse di non rispondere se esaminato, in ossequio all’intangibile facoltà accordata dal codice di procedura, qualora il medesimo disegno criminoso non fosse individuato con assoluta certezza da elementi oggettivi nel corso del procedimento e del processo, l’istituto non dovrebbe trovare applicazione, alla luce del fatto che l’indubbia conferma dell’esistenza di una iniziale rappresentazione anticipata e scopo finalistico potrebbe essere esclusivamente confermata dall’imputato.

Invece, è dato noto che durante i processi l’originaria imputazione di reato continuato ben viene accolta dai giudicanti.

In sede di legittimità, la Suprema Corte maggiormente rende oggettiva l’applicazione del reato continuato, affermando che l’analisi deve essere effettuata dal giudice di merito, il cui apprezzamento è incensurabile in sede di legittimità laddove congruamente motivato, sulla base della pluralità di indici sintomatici, rivelatori dell’ideazione e della determinazione volitiva unitaria (quali, ad esempio: la prossimità temporale di commissione, l’omogeneità delle condotte sotto il profilo oggettivo, le circostanze concrete di tempo e luogo dell’azione, il bene giuridico leso, le finalità perseguite), i quali non è necessario che ricorrano contemporaneamente, potendo assumere valore significativo anche la ricorrenza di uno o più di essi, atteso che maggiore è il novero degli elementi indicativi, maggiore sarà la possibilità di riconoscere la continuazione[23].

La totale devoluzione al giudice di merito nell’accertamento del medesimo disegno criminoso, in assenza di ausilio da parte del Legislatore, limitatosi a implementare l’art. 671 c.p.p. con un riferimento che, a sua volta, non specifica nulla, se non fornire un ulteriore indice sintomatico, rende la norma dell’art. 81 c.p. vaga ed eccessivamente lasciata alla libera determinazione del giudice.

Forse sarebbe meglio riscoprire la reale ratio del reato continuato, che ravvisa la tenuità della pena rispetto al cumulo materiale in ragione del fatto che il reo cede una sola volta agli impulsi delinquenziali.

Per “premiare,” però, tale situazione, sarebbe opportuno che il Legislatore vincolasse la latitudine applicativa dell’istituto ex art. 81 c.p. a un accertamento maggiormente pregnante, in cui non sia sufficiente indicare [recte-motivare] i sintomi del medesimo disegno criminoso, così da responsabilizzare l’imputato/indagato, interessato, oltre all’assoluzione, a dimostrare che i reati commessi erano esecutivi proprio di un iter criminoso che si era rappresentato con uno scopo preciso, così da beneficiare del cumulo giuridico delle pene.

5. Riflessioni conclusive.

L’argomentazione dianzi formulata è avulsa dalla reale applicazione che oggi è riservata all’accertamento dei requisiti del reato continuato.

Chi scrive è conscio che le sollecitazioni critiche esposte non troveranno alcun tipo di riscontro nella prassi dei procedimenti e dei processi: la difesa ha interesse al riconoscimento del medesimo disegno criminoso e di certo non indurrà mai il proprio cliente a deporre in tal senso, poiché il primo obiettivo sarà sempre – come deve essere – perseguire l’assoluzione.

Per converso, gli organi requirenti e giudicanti saranno agevolati nel loro operato mediante il riconoscimento di un vincolo che condurrà a una semplificazione sia dal punto di vista di qualificazione del fatto sia per quanto attiene alla stesura del provvedimento.

La Cassazione, attraverso la propria funzione di uniformare l’interpretazione del diritto, devolve al giudice di merito la valutazione sulla sussistenza del medesimo disegno criminoso, soprattutto facendo ricorso a indici oggettivi che caratterizzano i reati.

Così facendo – a parer personale – ci si dimentica che il m.d.c. è costituito anche da una componente soggettiva data dalla rappresentazione dei singoli episodi criminosi, individuati almeno nelle loro linee essenziali sin dall’inizio dell’attività illecita. E’ dunque necessario che tale componente sia accertata in maniera rigorosa; qualora non si riesca in tale obiettivo, i singoli reati saranno sottoposti alla disciplina del cumulo materiale.

In conclusione, differenti visioni permettono al diritto di evolvere poiché, in sostanza, la dialettica fra opinioni contrapposte è il terreno fertile su cui si fonda il progredire del pensiero giuridico.


Note

[1] Il testo originario così recitava: <<Le disposizioni degli articoli precedenti non si applicano a chi con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette, anche in tempi diversi, più violazioni della stessa disposizione di legge, anche se di diversa gravità. In tal caso le diverse violazioni si considerano come un solo reato e si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave violazione aumentata sino al triplo>>.

[2] Per un’esaustiva trattazione, v. R. GAROFOLI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Roma, NelDiritto Editore, 2014, p. 1254 ss.: in merito, si osserva che <<quanto più le violazioni siano omogenee, tanto più può dedursi l’esistenza di un medesimo disegno criminoso e, dunque, di un reato obiettivamente e soggettivamente unico. Da ciò deriva, poi, la più mite disciplina sanzionatoria, ispirata alla esigenza dogmatica di un regime afflittivo che rompa il rigore del cumulo materiale ed appresti un sistema di individuazione della pena meno intransigente>>.

[3] In ordine alla riforma, si rinvia a R. BERTONI, La riforma penale dell’aprile 1974 nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, in RIDPP, 1976, pag. 1343 ss.

[4] In tema A. DI FONZO, F.P. GARZONE, M. SANTOIEMMA, G. SCHIAVONE, Natura e disciplina del reato continuato. In particolare, l’applicazione dell’istituto “in executivis”, in www.diritto.it

[5] G. PANUNZIO, Il reato continuato: aspetti processuali, in rete www.diritto.it, pp. 1-5.

[6] P. BORTONE, Reato continuato: alle Sezioni unite la questione dei criteri di identificazione della violazione più grave, in Rivista Neldiritto, vol. I, 2013, p. 87.

[7] Cass. pen., sez. I, 2 aprile 2004, n. 19544, <<in presenza dei presupposti richiesti dall’art. 81 cod. pen., la continuazione è configurabile anche tra un reato oggetto di condanna irrevocabile e un altro commesso successivamente ad essa, congiuntamente alla recidiva o disgiuntamente da essa>>; Cass. pen., sez. I, 13 marzo 2008, n. 14937, secondo cui <<non esiste incompatibilità fra gli istituti della recidiva e della continuazione, sicché, sussistendone le condizioni, vanno applicati entrambi, praticando sul reato base, se del caso, l’aumento di pena per la recidiva e, quindi, quello per la continuazione, che può essere riconosciuta anche fra un reato già oggetto di condanna irrevocabile ed un altro commesso successivamente alla formazione di detto giudicato>>.

[8] Per agevolare la lettura, si riporta integralmente il testo dell’art. 12 c.p.: <<alla sentenza penale straniera pronunciata per un delitto può essere dato riconoscimento: 1) per stabilire la recidiva o un altro effetto penale della condanna, ovvero per dichiarare l’abitualità o la professionalità nel reato o la tendenza a delinquere; 2) quando la condanna importerebbe, secondo la legge italiana, una pena accessoria; 3) quando, secondo la legge italiana, si dovrebbe sottoporre la persona condannata o prosciolta, che si trova nel territorio dello Stato, a misure di sicurezza personali; 4) quando la sentenza straniera porta condanna alle restituzioni o al risarcimento del danno, ovvero deve, comunque, esser fatta valere in giudizio nel territorio dello Stato, agli effetti delle restituzioni o del risarcimento del danno, o ad altri effetti civili. Per farsi luogo al riconoscimento, la sentenza deve essere stata pronunciata dall’Autorità giudiziaria di uno Stato estero col quale esiste trattato di estradizione. Se questo non esiste, la sentenza estera può essere ugualmente ammessa a riconoscimento nello Stato qualora il Ministro della giustizia ne faccia richiesta. Tale richiesta non occorre se viene fatta istanza per il riconoscimento agli effetti indicati nel n. 4>>.

[9] Cass. pen., sez. V, 21 gennaio 2004, n. 19106, commentata da J.P. PIERINI, Lo scomputo della pena sofferta all’estero nel caso di bis in idem internazionale e la continuazione internazionale, in CP, 2004, pagg. 3564 ss.; principi confermati da Cass. pen., sez. I, 11 maggio 2006, n. 31422, a mente della quale <<non è applicabile in executivis la continuazione tra reato giudicato in Italia e reato giudicato all’estero, previo riconoscimento della relativa sentenza penale straniera, producendo quest’ultimo nell’ordinamento nazionale i soli effetti indicati nell’art. 12 cod. pen., tra i quali non è compreso, neanche “sub specie” di effetto penale della condanna ai sensi del comma primo n. 1 del citato articolo, il regime del reato continuato, che presuppone un giudizio di merito e, quindi, il riferimento a categorie di diritto sostanziale (reati e pene) che si qualificano soltanto in ragione del diritto interno>>.

[10] Cass. pen., sez. II, 6 novembre 2009, n. 47447; Il Collegio si discosta da Cass. pen., sez II, 20 aprile 2007, n. 19156, per cui <<in tema di continuazione tra reati diversi, l’individuazione del reato ritenuto in concreto più grave incontra un limite invalicabile costituito dal fatto che la pena prescelta non può mai essere inferiore a quella che sarebbe stata irrogabile per un reato concorrente, sanzionato con pena edittale maggiore nel minimo: ne consegue che, alla presenza di due reati puniti con pene edittali diverse nella misura massima e minima, il giudice potrà liberamente scegliere quale sia la violazione più grave, ma dovrà irrogare per essa una pena non inferiore a quella che avrebbe dovuto infliggere per l’altra violazione punita, a seguito del giudizio di comparazione, con pena edittale maggiore nel minimo>>.

[11] Cass. pen., sez. Un., 28 febbraio 2013, n. 25939, con commento di A. CONZ, Sulla determinazione della pena nel reato continuato. Rilievi critici alla teoria della individuazione della violazione più grave “in astratto”, in CP, II, 2014, pagg. 465 ss.

[12] Cass. pen., sez. II, 16 settembre 2014, n. 49007.

[13] Cass. pen., sez. I, 30 luglio 2014, n. 33803; pronuncia confermata da Cass. pen., sez. I, 5 novembre 2014, n. 45908, rinvenibile in www.giurisprudenzapenale.it; nell’articolo di riferimento, si precisa come <<la Corte ha ribadito che per poter applicare l’istituto della continuazione è necessario che ricorrano i seguenti presupposti: sotto il profilo oggettivo, più azioni od omissioni e più violazioni di legge; sotto il profilo soggettivo: il fatto che la loro commissione sia avvenuta in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. Proprio con riferimento alla nozione di medesimo disegno criminoso, secondo giurisprudenza ormai consolidata deve ritenersi che sia un requisito di natura psicologica – quindi interiore al soggetto agente – che postula la rappresentazione dei singoli episodi criminosi, individuati almeno nelle loro linee essenziali sin dall’inizio dell’attività illecita. In altri termini, l’autore deve aver già previsto e deliberato in origine ed in via generale l’”iter” criminoso da percorrere ed i singoli reati attraverso i quali attuarlo, che nella loro oggettività si devono presentare compatibili giuridicamente e posti in essere in un contesto temporale di successione o contemporaneità. Quanto al livello di “dettaglio” di tale disegno, resta comunque escluso – specificano i giudici – che l’unicità di disegno criminoso possa identificarsi con l’abitualità criminosa o con scelte di vita ispirate alla continua violazione delle norme penali, così come, sul fronte opposto, non può nemmeno pretendersi che tutti i singoli reati siano stati in dettaglio progettati e previsti nelle varie occasioni temporali e nelle modalità specifiche di commissione delle loro azioni. Ciò che, infatti, il codice richiede è che vi sia l’identità del “disegno” criminoso, ossia che i singoli reati siano il mezzo per il conseguimento di un unico intento, sufficientemente specifico e rintracciabile sin dalla commissione del primo di essi>>.

[14] C. BERNASCONI, s.v. “Reato continuato”, in Enc. Giur., Il Sole 24 Ore, XIII, Bergamo, 2007, pagg. 22 ss.

[15] G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto Penale. Parte Generale, Bologna, Zanichelli Editore, 2014, pag. 671. Giova prospettare un’ulteriore teoria dogmatica, a mente della quale il medesimo disegno criminoso sarebbe connotato da una comune situazione motivante alla base dei comportamenti delittuosi, al presentarsi della quale il soggetto sarebbe portato a reagire nel medesimo modo, con minor partecipazione psicologica e quindi un inferiore grado di colpevolezza, giustificando così il mite trattamento sanzionatorio (v. D. BRUNELLI, Dal reato continuato alla continuazione di reati: ultima tappa e brevi riflessioni sull’istituto, in CP, 2009, p. 2749).

[16] Cass. pen., sez. V, 19 gennaio 2010, n. 11902; Cass. pen., sez. I, 21 ottobre 2008, n. 43043; Cass. pen., sez. VI, 26 settembre 1997; Cass. pen., sez. I, 27 novembre 1996; Cass. pen., sez. I, 20 febbraio 1996.

[17] Cass. pen., sez. V, 3 ottobre 2013, n. 5599.

[18] Cass. pen., sez. I, 26 febbraio 2014, n. 39222.

[19] Cass. pen., sez. I, 2 luglio 2013, n. 35639; Cass. pen., sez. V, 12 gennaio 2012, n. 10917.

[20] Cass. pen., sez. I, 14 marzo 1984; Cass. pen., sez. V, 9 febbraio 1988.

[21] Cass. pen., sez. I, 2 luglio 2013, n. 35639.

[22] Periodo aggiunto dall’art. 4-vicies, decreto legge 30 dicembre 2005, n. 272 , convertito in legge, con modificazioni, con legge 21 febbraio 2006, n. 49 , quest’ultima recante la rubrica <<conversione in legge, con modificazioni del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, recante misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi>>.

[23] Cass. pen., sez. I, 30 luglio 2014, n. 33803.


Bibliografia di riferimento

BERNASCONI, s.v. “Reato continuato”, in Enc. Giur., Il Sole 24 Ore, XIII, Bergamo, 2007.

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BRUNELLI, Dal reato continuato alla continuazione di reati: ultima tappa e brevi riflessioni sull’istituto, in CP, 2009.

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Filippo Marco Maria Bisanti

Dottore magistrale in Giurisprudenza - Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Dottore in Operatori della Sicurezza Sociale - Facoltà di Scienze Politiche - Università degli studi Cesare Alfieri di Firenze; Diplomato alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali - Università Guglielmo Marconi di Roma; Esito positivo del tirocinio formativo ex art. 73 d.l. 69/2013, conv. in l. 98/2013, svolto presso la Sezione Penale del Tribunale Ordinario di Trento (dicembre 2014-giugno 2016); Cultore della materia presso la cattedra di Diritto civile dell’Università degli Studi di Trento, Cultore della materia presso la cattedra di Istituzioni di diritto privato dell’Università di Trento

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