Il giudicato nel prisma della legalità costituzionale
Il valore del giudicato sotto la lente della legalità costituzionale: il caso delle sentenze irrevocabili in materia di “droghe leggere”
Sommario: 1. Le peculiari fattezze di una questione unitaria: gli interrogativi posti – 2. Un approccio multifocale alle coordinate evolutive del sistema penale e processuale – 3. (Segue): Il giudicato al cospetto dei valori costituzionali: esiste un “giudicato sulla pena”? – 4. Una rivisitazione degli istituti in chiave costituzionalmente orientata – 5. Un quadro interpretativo composito: la scelta di un itinerario nella dosimetria della pena
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Le peculiari fattezze di una questione unitaria: gli interrogativi posti
Gli ormai noti casi “Ercolano” e “Gatto” ([1]), pur lasciando aperte alcune questioni di non poco momento, soprattutto sul piano dei criteri applicativi([2]), recano dei punti fermi e fissano dei principi evocando questioni di primaria importanza.
Lo scopo del presente contributo è quello di tematizzare il contenuto di tali dicta per fornire un apporto, anche nei suoi risvolti operativi, in sede di definizione dell’orizzonte valutativo del giudice dell’esecuzione, problematica che si è posta in modo sempre più pressante nell’esperienza processuale penale,
Questione così delicata, quella dei moduli procedimentali, tanto da occupare, anche da ultimo l’attenzione della Corte di cassazione, a Sezioni unite[3], risultando vulnerato, a tacer d’altro, il principio di uguaglianza, in ragione di orientamenti non univoci.
Così presentate, le problematiche che saranno affrontate, prima facie, potrebbero sembrare destinate ad esaurirsi all’interno della fenomenologia esecutiva, anche in ragione delle istanze immediate che sollecitano la gestione processuale dei casi cui i giudicanti si trovano a fornire risposta.
Ove maturi il crisma dell’irrevocabilità sull’accertamento del fatto storico, il contesto naturale diviene infatti quello dell’attività post rem iudicatam e, quindi, del procedimento di esecuzione.
Per comprendere i nodi problematici, giova dare atto del tessuto normativo che viene in rilievo.
Inserito dall’art. 4 bis della legge Fini-Giovandardi ([4]), il comma 1 bis è venuto meno, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 32/2014, che ha determinato la caducazione degli artt. 4 bis e 4 vicies ter, legge 49/2006 ([5]), con l’effetto di “far risorgere” il previgente comma 4 dell’art. 73 d.P.R. 309/1990, che, rispetto ai fatti di cui al comma 1, differenziava, rendendolo più mite, il trattamento sanzionatorio delle c.d. “droghe leggere” rispetto a quello previsto, nel primo comma, per le “droghe pesanti”.
In particolare, il comma 1 bis per la fattispecie tipizzata rinviava, agli effetti sanzionatori, ad altra disposizione, nella specie al comma 1 ([6]).
Sempre nell’ottica di perimetrazione del campo di indagine, si impone una premessa.
Pacifica, oltre che intangibile post rem iudicatam, la definizione giuridica del fatto, si riporrà l’attenzione esclusivamente sulle vicende che hanno interessato il primo comma: afferendo all’aspetto sanzionatorio, queste ultime pongono questioni di rilevanza decisiva nella casistica delle sentenze irrevocabili in materia di “droghe leggere” ([7]).
Tanto chiarito, immediatamente, allora, si realizza che ad essere coinvolta è l’intricata questione relativa alle conseguenze, in caso di condanna definitiva, di una pronuncia di illegittimità di norme penali non costituenti autonomi titoli di reato.
Per vero, va notato come il terreno iniziale su cui è fiorito il dibattito non sia stato quello in cui si radica la materia de qua, bensì la vicenda relativa all’aggravante di clandestinità di cui all’art. 61 n. 11 bis ([8]); tale confronto si è di li a poco esteso, sostanzialmente negli stessi termini, non solo alla nota “saga dei fratelli minori di Scoppola” ([9]), ma anche su molti altri fronti ([10]), prima di concentrarsi sulla materia consegnata alla disciplina degli stupefacenti ([11]).
Sarebbe privo di senso il tentativo di definire a priori l’ambito della casistica giurisprudenziale potenzialmente interessata, per la semplice ragione che ipotesi di questo tipo presentano, ad uno sguardo attento, un elemento comune di criticità che travalica la specificità della materia o della singola vicenda: il fondamento della pena in esecuzione su una norma penale non incriminatrice successivamente dichiarata invalida.
Orbene, dalla questione discende un triplice ordine di problemi.
Un primo nodo interpretativo che deve essere infatti sciolto si colloca sotto il profilo dell’an dell’intervento del giudice dell’esecuzione in simili casi; dilemma che prelude a quello che si appunta sulla base legale di un tale esercizio di poteri, vale a dire sullo strumento fornito dall’ordinamento processuale; di qui l’insorgere di perplessità ed interrogativi – non meno importanti – nel momento in cui ci si trovi a sperimentare il problema del quomodo ([12]), delle modalità operative da seguire, e le implicazioni, sul piano operativo, in funzione delle diverse scelte astrattamente ipotizzabili in tale frangente.
Partiamo dal traguardo: ciascuno di questi interrogativi, che, come si vedrà, costituisce potenzialmente uno scoglio, va decifrato con nettezza.
Quanto alla prima problematica stando ai capisaldi enucleati dalle due sentenze di legittimità summenzionate, emerge la tesi per cui la formazione del giudicato non può giustificare l’esecuzione di una pena inflitta sulla base di una norma dichiarata incostituzionale, spettando al giudice dell’esecuzione rideterminare la pena sulla base della disciplina legislativa conforme a Costituzione.
In controluce c’è la volontà di mostrare come destituite di fondamento tutte quelle obiezioni ([13]) volte a confinare la questione ai soli casi in cui si debba dare attuazione ad un obbligo convenzionale – a dire – tese a “sterilizzare” la soluzione nell’ambito della categoria delle violazioni della Cedu. Che tale assunto non sia affatto persuasivo viene messo allo scoperto nella pronuncia della Cassazione a Sezioni unite Gatto, la quale attribuisce all’autentico “fondamento” ([14]) della sentenza Ercolano e della pronuncia di incostituzionalità n. 210/2013 ([15]) – ma anche della sentenza della Consulta n. 249/2010 ([16]) – una “valenza generale” ([17]), riconoscendo, del resto, nella specificità delle vicende considerate l’occasione di aver fatto chiarezza su aspetti diversi ([18]). Ragionando diversamente, negando cioè l’assimilazione di tali situazioni, si sancirebbe un esito irragionevole, “paradossale” ([19]), risultando vanificato, a tacer d’altro, lo stesso principio di gerarchia delle fonti ([20]). D’altra parte, come si vedrà, se è indubitabile che il diritto vivente della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo acceleri il processo di erosione del giudicato ([21]), è altrettanto vero che questo risulti da tempo già in atto ([22]).
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Un approccio multifocale alle coordinate evolutive del sistema penale e processuale
La comprensione di tale ultimo asserto si intreccia con quella del retroterra fatto proprio dalle sentenze richiamate e, quindi, delle premesse teoriche che giustificano l’esito cui si perviene.
Se, da un punto di vista metodologico, si adotta una prospettiva “multifocale”, ci si avvede di tematiche che si agitano sullo sfondo, delle quali il Supremo Collegio si mostra chiaramente consapevole, che vanno al di là della dimensione prettamente esecutiva.
Un approccio siffatto fa affiorare interessanti riflessioni e mette in luce un’interrelazione tra piani che pare fornire un valido contributo alla migliore definizione della specifica questione sopra anticipata, che, lungi dal costituire “evento”, per così dire, isolato, si inserisce in una precisa tendenza storica, culturale e giuridica.
Individuarne la matrice consente di spiegare le dinamiche profonde, facilitando altresì le interrelazioni dialogiche con altre questioni, punto di contatto dei piani del diritto penale sostanziale ([23]) e processuale ([24]) con quello costituzionale ([25]), sul comune sfondo di principi fondamentali che si inverano ([26]). In tale approccio le questioni si rivelano per una loro connaturale capacità esplicativa reciproca
Si combinano, così, è bene esplicitarlo, livelli di analisi tra loro complementari, perché saggiano, a ben vedere, da un lato la “superficie” del problema, le ricadute concrete ed immediate, che si pongono sul piano delle effettive tutele dei diritti fondamentali del condannato; dall’altro, e più in profondità, le dinamiche complessive, che – lo si anticipa – percorrono la direttrice del prevalere dei valori costituzionali.
In una prospettiva diacronica, lo scenario interpretativo, al di là del manifestarsi di alcune resistenze culturali ([27]), improntate ad un atteggiamento conservativo, sembra, attraversato nel complesso da una sorta di climax nella rivisitazione di varie categorie tradizionali: si assiste ad una rinnovata architettura ermeneutica che trae linfa proprio da quel progressivo affermarsi dei diritti della persona di cui si è detto.
La trattazione non potrà che assumere connotazioni brevi e sinottiche, senza oltrepassare i confini di quello che vuole essere solo un inquadramento generale, esulando dalla presente sede una approfondimento dei singoli aspetti che tessono tale intelaiatura. Quello preannunciato è però uno sforzo ricompositivo che va compiuto, non soltanto per la ricchezza di spunti che offre, ma, a tacer d’altro, perché è lo stesso ragionamento del giudicante che, pur solo sfiorate, intorno a tali prospettive si snoda, facilitandone l’interrelazione dialogica.
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(Segue): Il giudicato al cospetto dei valori costituzionali: esiste un “giudicato sulla pena”?
Riprendendo quanto accennato ([28]), va messo in luce come, nel tempo, si sia imposta ([29]) una rilettura del concetto di giudicato penale e, a cascata, degli istituti che con esso, su diversi piani, entrano in contatto ([30]).
Non essendo questa la sede per ripercorrerne analiticamente tutte le fasi, basti sottolineare come l’evoluzione del clima culturale, prima che giuridico, portando a contatto tale istituto, così come tradizionalmente concepito, con i valori esaltati dalla Carta costituzionale, abbia posto il problema del reperimento di una sua giustificazione sistematica, in sintonia con gli interessi di pari rango implicati.
La nuova configurazione del sistema si tradusse, sul fronte dell’esperienza processual-penalistica, nell’avvertita necessità di ripensare un istituto che, per come era stato congegnato, appariva “consustanziale” ad un preciso assetto istituzionale ed ideologico, ma che si mostrava disarmonico rispetto a quello ormai rinnovato.
Si cominciò quindi a parlare di “cedevolezza del giudicato”, a significarne, icasticamente, il ridimensionamento, culturale e giuridico, l’erosione della portata assolutizzante e monolitica, insita in quello che iniziò ad essere chiamato, con sguardo retrospettivo, come “mito”.
Attese le frizioni emerse rispetto ad una lettura dell’istituto prettamente in chiave di stabilità giuridica, l’ipostatizzazione della auctoritas rei iudicatae finiva così per stemperarsi, nell’ottica di preservare la coerenza del sistema, sul crinale dei rapporti con gli altri principi costituzionali.
Va da sé come il perno del giudicato inizi ad essere avvistato non più nella certezza giuridico-formale ([31]), bensì nel concetto garantistico di ne bis in idem ([32]).
Insomma, secondo tale parabola evolutiva, il valore costituzionale ([33]) del giudicato ([34]) viene modellato dall’interazione con altri valori costituzionali ([35]).
Se è allora questa l’attuale dimensione del giudicato, acclarato che, all’insegna di tale impronta garantistica, la “solidità” che lo connota è attributo del giudizio sul fatto storico ([36]), altrettanto palese risulta, però, come restino fuori dal raggio d’azione di tale immutabilità tutti quegli aspetti che attengono esclusivamente al versante del trattamento sanzionatorio, a fronte del verificarsi di patologie sostanziali ([37]), non potendosi tollerare che siano vulnerate indeclinabili esigenze di giustizia.
Si vuole cioè dire, più semplicemente, che non risulti affatto distonico in tale quadro che le circostanze sopravvenute riguardanti la pena possano essere successivamente considerate dal giudice.
A fornire una traccia ricostruttiva sono le scelte trasfuse nella trama normativa del codice di procedura penale del 1988 ([38]), che segna un’inversione di prospettiva rispetto alla visione della fase esecutiva che emergeva dal codice di rito del 1930. Tale ultimo assetto procedurale configurava infatti l’attività esecutiva come mera appendice, con funzione meramente attuativa del giudicato, per ciò solo “assolutamente insensibile alle situazioni insorte successivamente alla sua formazione” ([39]), funzione che veniva quindi assolta secondo schemi burocratici ed amministrativistici, così da relegare quello del giudice ad un intervento episodico e ad un ruolo minimale.
Per converso, il sistema consegnato dalla riforma reca i caratteri della giurisdizionalizzazione, nella quale gli ampi poteri attribuiti al giudice dell’esecuzione sono finalizzati allo svolgimento di una funzione composita, complementare ([40]) a quella cognitiva. Allontanatasi infatti l’idea che rimettere in discussione la sentenza definitiva – anche solo in punto pena – significasse, in sostanza, rimettere in discussione l’autorità, al giudice dell’esecuzione sono conferiti ampi poteri, preordinati all’attuazione non solo e non tanto di una pretesa punitiva ma di una giusta pronuncia ([41]). Essi assecondano «esigenze di giustizia postume» ([42]) che impongono una modificazione sostanziale della pena: si pensi, per elencare i più incisivi, all’art. 669 c.p.p., che garantisce al condannato il diritto alla sentenza più favorevole tra quelle rese per il medesimo fatto, all’art. 671 c.p.p., che consente, a chi non ne abbia potuto beneficiare, di giovarsi della disciplina del concorso formale o del reato continuato ([43]), o a quello, ancora più penetrante, di revoca del provvedimento di condanna ai sensi dell’art. 673 c.p.p. ([44]).
A ben vedere, quello appena rappresentato è l’epilogo normativo di un percorso prima dottrinale e, su questa scia, giurisprudenziale, particolarmente fecondo – basti pensare al dibattito sorto in tema di reato continuato in caso di reato meno grave oggetto di sentenza definitiva – ([45]), un terreno esegetico che, in tempi successivi, non ha mancato di determinare ulteriori riverberi (a tacer d’altro, si consideri la tendenza espansiva che ha coinvolto l’art. 673 c.p.p.([46])).
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Una rivisitazione degli istituti in chiave costituzionalmente orientata
Ebbene, le indicate sentenze si inseriscono nel senso di marcia così tracciato in linea generale e, in particolare, rientrano a pieno titolo in quell’orientamento interpretativo ([47]) confrontatosi, in epoca recente, con un legislatore sempre meno attento ai principi costituzionali ([48]), specie allorché si sia reso artefice di norme attinenti al solo trattamento sanzionatorio: insomma, la questione da cui siamo partiti ([49]).
A tale proposito, sia consentita una rapida digressione, per focalizzare un aspetto singolare della sentenza di incostituzionalità n. 32/2014 alla luce della tradizionale classificazione che suole distinguere tra effetti in malam partem ed effetti in bonam partem delle pronunce della Corte. La tematica, che pure offre indubbi spunti di interesse, involgendo questioni di portata generale, non può essere qui sviluppata. Per completezza, però, vale notare come, in tale chiave, la sentenza citata esibisca una natura “bifronte”, potendo ricondursi, rispettivamente, alla prima categoria, quanto al frangente delle droghe pesanti ([50]), alla seconda, avuto riguardo alle droghe leggere.
Ora, come risulta immediatamente dalla ricostruzione in fatto delineata in apertura, è a tale ultimo versante che si deve far riferimento per quanto attiene al caso di specie.
In particolare, rispetto ad esso, si è detto come l’avvenuta mitigazione del trattamento sanzionatorio non abbia comportato un’abolitio criminis, interessando solo i limiti edittali e, quindi, il profilo della pena.
Tale precisazione – come ormai si dovrebbe sapere – non è irrilevante.
A prima vista, potrebbe, tutto sommato, reputarsi plausibile che l’effetto dispiegato sia analogo a quello regolato dall’art. 2, comma 4, c.p.
È però necessario chiedersi se i fenomeni alla base siano realmente assimilabili.
Un interrogativo siffatto esibisce un’evidente struttura retorica.
A ben considerare, invero, una risposta affermativa al quesito cozzerebbe con l’evoluzione sopra compendiata ([51]). Ecco che, allora, in adesione alle citate Sezioni unite, vanno distinte categoricamente le due ipotesi.
La questione va però ben compresa, giacché non ha mancato di costituire il clou delle argomentazioni portate avanti da quella recente deriva ermeneutica ([52]) – messa allo scoperto come tale dalle Sezioni Unite nel caso Gatto, – che, riecheggiando la giurisprudenza degli anni ‘70-‘80, focalizzava l’attenzione sulla natura incriminatrice o meno della norma attinta da declaratoria di incostituzionalità, per trarne radicali conseguenze. Con un evidente parallelismo rispetto alla regola intertemporale prevista dal 2, comma 2, c.p., si sostiene infatti che, trattandosi di norme penali sostanziali non costituenti un autonomo titolo di reato, non possa venire in soccorso la norma di cui all’art. 30, comma 4, legge n. 87/1953 ([53]), che si rapporterebbe con le sole norme incriminatrici.
Le ricadute di una tale opzione e, al contempo, la sua incompatibilità rispetto al quadro costituzionale, si apprezzano non tanto avuto riguardo ai processi pendenti ma piuttosto a quelli passati in giudicato.
Che non sia una questione meramente teorica lo svelerà l’esempio plastico che si sta per considerare, che offre un’immagine paradigmatica. Si tratta di un giudizio in corso, nell’ambito del quale la Cassazione ([54]) giunge a rimettere gli atti al giudice del merito – in modo che la pena illegittima venga rimodulata – passando, però, a chiare lettere, per l’omologazione degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità della aggravante di cui all’art. 61 n. 11 bis a quelli del mutamento legislativo in melius. Ora, se il risultato pratico è esatto, non altrettanto le premesse teoriche. Per rendere intuitiva detta conclusione, si pensi a cosa sarebbe accaduto se fossimo stati al cospetto di una sentenza passata in giudicato: aderendo alla tesi espressa dalla Cassazione nel caso considerato, il condannato avrebbe continuato ad essere sottoposto ad una porzione di pena fondata su una norma invalida.
È dunque appena il caso di rinnovare l’iniziale domanda, declinandola in termini di (ir)ragionevolezza dei risultati che si prospetterebbero. Breve: se la ragione giustificatrice ([55]) del regime di intangibilità del giudicato ex art. 2, comma 4, c.p. sia rinvenibile in tali casi.
In tale ottica, il postulato della Corte si rivela allora del tutto erroneo; non fosse altro perché oblitera che il bilanciamento cui si perviene quanto all’ipotesi di cui al citato art. 2, comma 4, c.p. ([56]) muove dal presupposto di una successione di norme valide ([57]), nel cui fisiologico avvicendarsi si riflette una valutazione di opportunità politica ([58]): ragione, questa, ben lungi dal risiedere in una pronuncia di incostituzionalità – anche considerata la differenza istituzionale dei soggetti competenti ([59]) – che mira ad eliminare, in uno con la norma che «mai avrebbe dovuto essere introdotta», una patologia del sistema, salvaguardando la gerarchia delle fonti ([60]).
A fronte di situazioni così distanti, allora, si giustificano pienamente i differenti riverberi che promanano dai citati fenomeni. Ciò non solo da un punto di vista strutturale-istituzionale, ma soprattutto in una prospettiva di tutela dei diritti fondamentali: in un’ottica, quindi, di bilanciamento ([61]), in cui il principio di intangibilità del giudicato non può prevalere su quello della legalità costituzionale, pena la violazione degli artt. 3, 13 ([62]), 27, comma 3, e, non ultimo, 25, comma 2, Cost. ([63]).
Come accennato, tale principio è espresso essenzialmente dal combinato disposto degli artt. 25, comma 2, Cost., 136 Cost. e art. 1, legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 ([64]).
Ebbene, se è vero che tali disposizioni costituiscono l’addentellato costituzionale dell’art. 30, comma 4, l. n. 87/1953, come sostengono le Sezioni unite ([65]), è ancora più chiaro come non sia sostenibile la tesi secondo cui il limite dei rapporti esauriti, tradizionalmente ravvisato nell’art. 30, comma 3, l n. 87/1953, e alla cui nozione si pretende ricondurre anche il giudicato penale, venga superato solo in presenza di una norma penale incriminatrice dichiarata invalida, ipotesi che esaurirebbe l’ambito applicativo dell’art. 30, comma 4, l. n. 87/1953.
Per converso, in piena sintonia con il quadro costituzionale ([66]), si pongono, da una parte, una nuova lettura del termine “norme” utilizzato da detto comma, da intendersi come norme penali sostanziali ([67]), nonché, dall’altra, una rivisitazione del concetto di “rapporto esaurito”, che cessa di fungere da attributo del giudicato penale, per qualificare la completa espiazione della pena, che configura l’unico ostacolo all’iperretroattività della pronuncia di incostituzionalità, ormai irreversibili gli effetti della norma invalida. Sembra tramontare, infine, – ad indiziare, ancora una volta, il ruolo che si riconosce al giudice dell’esecuzione – anche una concezione del titolo esecutivo come cesura oltre la quale nessuna norma sarebbe più applicabile: se così fosse, infatti, non vi sarebbe la necessità di sottolineare che l’art. 30, comma 3, l. n. 87/1953 pone un obbligo di disapplicazione anche in capo al giudice dell’esecuzione ([68]).
Passati brevemente in rassegna i punti focali di tale rinnovata cornice interpretativa e appurata la sussistenza, sul piano normativo, di un obbligo, fondato sul complesso unitario di norme sopra considerato ([69]), che incombe sul giudice per rimuovere i perduranti effetti dell’applicazione di norme penali sostanziali illegittime, è necessario ora accostarsi al problema, cui si accennava all’avvio della nostra analisi, dello strumento processuale concretamente utilizzabile.
Non si nasconde che siffatto potere non risulti espressamente sancito in alcuna norma. Non si vuole qui ripercorrere l’accesa querelle manifestatasi sulla questione dei rapporti tra l’art. 673 c.p.p. e l’art. 30, comma 4, l. n. 87/1953, sul rilievo che, per quanto detto sopra, questa dovrebbe dirsi ormai sopita, a seguito delle chiare indicazioni fornite dall’Organo nomofilattico. Ci si limita ad osservare, perché l’ordinanza mostra interesse sul punto, che, tra le varie critiche ([70]) all’utilizzo dello strumento dell’art. 673 c.p.p. per risolvere le situazioni considerate, spicca quella che vi ravvisa uno strumento non calibrato rispetto all’effetto che si vuole ottenere, atteso il rimedio espressamente previsto, quello della revoca, non armonizzabile con una pronuncia che deve afferire il solo trattamento sanzionatorio: sotto le mentite spoglie dell’analogia si celerebbe un’estensione non dell’ambito applicativo, ma della portata precettiva della norma.
Dunque, conseguenze non previste ad un caso non previsto, al di fuori dei consolidati schemi e canoni ermeneutici ([71]).
Ad ogni modo, quello che a prima vista sembrerebbe un serio punctum dolens si stempera, trovando una sistemazione che – ad evidenziare, ancora una volta, il legame tra i vari piani di indagine – discende, quale corollario, dalle fattezze assunte dalla giurisdizione esecutiva a livello normativo-formale ([72]), prima ancora che in chiave costituzionalmente orientata. Se vi si volge lo sguardo ci si avvede come le norme di riferimento ([73]), lungi dall’apprestare un «catalogo esaustivo» ([74]), delineino una vera e propria «giurisdizione sul titolo» ([75]), plasmata sulla funzione di garantire il «buon diritto del cittadino» ([76]) all’attuazione di una pronuncia giusta ([77]).
Alla luce dell’esegesi proposta, allora, non si possono che stigmatizzare tutte quelle decisioni ([78]) che nei “casi difficili”, che involgono cioè valutazioni ampiamente discrezionali ([79]) – nei quali non v’è dubbio si inquadri anche quello in esame –, hanno negato la possibilità di intervento in sede esecutiva, sulla base di un asserito difetto di poteri cognitivi o comunque lamentando la mancanza di una risorsa normativa attributiva della competenza.
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Un quadro interpretativo composito: la scelta di un itinerario nella dosimetria della pena
Riemerge così la questione circa le modalità di rideterminazione della pena.
Il cenno ai “casi difficili” ci riporta infatti alla mente l’interrogativo vertente sul quomodo, cui si alludeva in sede introduttiva, perché è proprio in relazione a tali vicende, caratterizzate, come già detto, da un alto tasso di discrezionalità, che si acuiscono le problematiche che attingono il momento operativo, incrociandosi con l’esperienza applicativa il problema generale relativo all’ampiezza poteri cognitivi del giudice dell’esecuzione ([80]).
Se teniamo però presente quanto appena detto, è naturale come non possano convincere ([81]) quegli orientamenti che propugnano soluzioni “a rime obbligate”, per un intervento assolutamente “neutro” del giudice dell’esecuzione, asserendo, apoditticamente, che una valutazione discrezionale sarebbe preclusa in fase esecutiva.
Condivise integralmente le premesse sopra svolte, sembra doversi prendere posizione in tale querelle a favore della soluzione opposta – pur con importanti specificazioni.
Ma andiamo con ordine.
Si possono rintracciare, in linea di massima, quattro filoni principali.
Secondo un primo orientamento (c.d. criterio aritmetico puro) ([82]), la compatibilità aritmetica della pena rispetto al parametro edittale previgente sarebbe condizione sufficiente per qualificare come legale il trattamento sanzionatorio: a ben vedere, così facendo, si minimizzano le conseguenze del riassetto normativo operato dalla Corte costituzionale, in omaggio ad una nozione restrittiva di illegalità della pena, reputandosi tale solo quella porzione che superi il massimo edittale oggi ripristinato, pari a sei anni, che deve, per l’effetto, essere dichiarata non eseguibile (c.d. “riduzione secca”) ([83]).
Sempre nell’ottica di limitare al minimo i poteri valutativi del giudice dell’esecuzione, per preservare delle prerogative che si assumono esclusive della fase di cognizione, si registra un secondo modus procedendi, che assegna a criteri matematico-proporzionali la funzione di “mantenere ferme” le determinazioni del giudice di merito.
I fautori di tale tesi individuano, infatti, una fallacia nel ragionamento sotteso al criterio della “riduzione secca”, pur formalmente rispettoso della valutazione del giudice della cognizione, giacché questo si risolverebbe nell’irrogazione di una pena in misura fissa; il che, lungi dal prestare ossequio alle determinazioni assunte in sede cognitiva, introduce proprio quell’ “arbitrio” che tale tesi intendeva scongiurare.
Arbitrio che comporta, a tacer d’altro, una patente violazione del principio di uguaglianza.
Scoperto il paradosso, propongono quindi di muoversi nel solco del giudizio formulato in sede di cognizione, nel rispetto delle sue proporzioni interne, così da “ripeterne” la “logica” sottostante.
Detto più chiaramente, si dovrebbe, in buona sostanza, operare la stessa percentuale di aumento di pena sul minimo edittale applicata dal giudice della cognizione, traslandola sull’attuale quadro edittale ([84]).
Agli antipodi rispetto ad entrambe, si colloca un’ulteriore impostazione esegetica, che, evidenziate le criticità insite in tali rigidi schemi, si impernia sulla necessità di addivenire ad una rinnovata valutazione del fatto, in tutti i suoi profili, per riportare la pena ad adeguatezza.
Si ribatte al primo orientamento che la legalità della pena, tanto quella base che quella in concreto, non possa essere verificata all’esito di un giudizio di inclusione o meno, condotto in astratto, rispetto alla forbice edittale, ma solo sulla base di un raffronto che relativizza alla cornice edittale la pena determinata, imponendone quindi una rivisitazione se la prima viene a mutare ([85]). Senza considerare, poi, (ma non secondariamente) che una riduzione secca non differenzierebbe in punto di pena le varie fattispecie concrete, ledendo così il principio di uguaglianza.
Se si condivide, quindi, la critica mossa al “criterio puro”, gli strali non risparmiano nemmeno quello proporzionale. Al riguardo, uno degli argomenti sostenuti più tenacemente è quello che fa leva sul rischio di una sorta di “duplicazione” valutativa, effettuata prima in astratto, poi in concreto. Invero, si osserva, l’ampia forbice edittale ha vanificato, nella prassi giudiziaria costante, l’equiparazione legislativa tra droghe leggere e pesanti, laddove, per le prime, i giudici tendevano a fissare la pena base in prossimità del minimo, mentre per le seconde vicino al massimo, attribuendo un peso decisivo alla natura della sostanza drogante ([86]). Era cioè inevitabile che, a fronte della medesima cornice edittale, indice di riferimento apprezzabile della gravità obiettiva delle condotte, sulla scorta del quale graduare la pena, diventasse proprio la tipologia stessa di sostanza considerata ([87]). Diversamente, se oggi è già la norma ad attribuire a tale elemento un rilievo determinante, tale da incidere sulla determinazione astratta della cornice edittale, ne consegue che tale circostanza non potrà essere nuovamente considerata in sede di commisurazione della pena da parte del giudice.
Ne consegue anche che se il limite edittale minimo assorbiva la quasi totalità dei fatti concernenti le droghe leggere, molti casi, in ipotesi, decisamene gravi ([88]), in precedenza comunque ricondotti alla pena di sei anni – in considerazione della natura di droga leggera – possono oggi essere puniti con pene base superiori al minimo attuale di due anni, finanche con la pena massima oggi prevista pari a sei anni: non potendosi quindi escludere a priori che la pena base attestatasi su tale soglia sia legittima e, in altri casi, potendosi confermare la pena originariamente irrogata in concreto.
Una diversa soluzione, cui necessariamente condurrebbe l’utilizzo di un modulo proporzionale, sarebbe irragionevole, giacché la misura di sei anni, punto di contatto tra la cornice introdotta dalla norma illegittima e quella che “rivive”, verrebbe considerata non più congrua in via meramente aprioristica.
L’attuale parametro normativo impone, allora, una nuova verifica del valore dosimetrico del reato, giustificando quindi l’ esercizio del potere discrezionale ai sensi dell’art. 133 c.p. Per concludere, il Giudice dovrebbe applicare la pena, secondo i più favorevoli limiti edittali, in via del tutto autonoma, operando quelle valutazioni che avrebbe compiuto in sede cognitiva, senza essere in alcun modo vincolato alle determinazioni compiute nella sentenza irrevocabile.
Orbene, pur riconosciuto nella sua maggiore adeguatezza, anche tale approdo ermeneutico necessita di un correttivo. Proprio per comprenderne le ragioni, è opportuno introdurre l’ultimo orientamento in tema di rideterminazione.
Affermazioni di principio circa la necessità di «una valutazione globale del fatto» ([89]), dando adito, più o meno consapevolmente, ad operazioni radicali sul piano operativo, che scardinano aspetti dell’impianto costruito dal giudice del merito ([90]), non sono affatto esenti da rischi.
Deve esaltarsi, quindi, una prospettiva di sicuro stampo sostanzialistico, pur non ammettendola senza riserve.
Al fine di evitare un facile sconfinamento, la si deve infatti riportare alla giusta dimensione, che è poi quella che affonda le radici nella funzione demandata al giudice dell’esecuzione, che ha sì natura integrativa del giudizio di merito, ma che si pone in stretta dipendenza col “novum”, l’incostituzionalità di una norma, che nella specie ne legittima l’esercizio. Nell’affermare l’intangibilità di valutazioni del tutto legittime, rispetto alle quali recuperare un criterio proporzionalistico – segnatamente in tema di attenuanti generiche – porre l’accento su tale aspetto, che si potrebbe icasticamente con il riferimento ad una «scissione» del giudicato, è un modo per ribadire che i poteri del giudice dell’esecuzione, pur ampi, non sono privi di confini.
Il criterio sostanzialistico puro oltrepassa tali argini e quindi necessita di un correttivo.
L’approccio sostanzialistico, invece, si ferma di fronte ad un principio generale, sul crinale dei rapporti tra organo esecutivo e giudice del merito ([91]), consistente nel divieto di contraddire le determinazioni di quest’ultimo, come risultanti dal testo della sentenza irrevocabile, divieto che cede il passo solo nel caso in cui tali valutazioni espresse risultino affette da vizi, perché in applicazione di norme poi dichiarate invalide. Divieto che, quindi, risponde all’esigenza di scongiurare uno “sviamento” di potere, esercitato in modo esorbitante rispetto al nucleo della funzione che il sistema riconosce al giudice dell’esecuzione in una prospettiva costituzionalmente orientata: la finalità di attuare una giusta pronuncia.
Operata una breve mappatura delle diverse opzioni ermeneutiche, sembra doversi riservare un’ultima riflessione ad uno specifico profilo non di rado presente nella fenomenologia processuale dei casi considerati.
Va notato che le prime due soluzioni prospettate sono entrambe dettate anche dalla necessità di tenere nella debita considerazione, in ipotesi di patteggiamento, la natura immodificabile della definizione consensuale del procedimento ex art. 444 c.p.p. ([92]).
Anche a voler ammettere i pregi di un approccio sostanzialistico – riconoscendo, al contempo, gli aspetti distonici rispetto al sistema delle altre due impostazioni – potrebbe, infatti, ancora obiettarsi che la possibilità di “rideterminare” la pena adottando poteri discrezionali solleva particolari problemi di compatibilità con l’istituto del patteggiamento ([93]), perché una determinazione giudiziale discrezionale si sostituirebbe all’accordo voluto dalle parti.
Un’obiezione che potrebbe sembrare insuperabile.
Ora, tale argomento, pur suggestivo, non è però dirimente e, anzi, per le stesse ragioni sopra esplicitate, si rivela privo di pregio, proprio perché non tiene conto che anche sulle valutazioni del P.M. e dell’imputato, nonché su quelle del giudice nello stabilire la congruità del trattamento sanzionatorio, la cornice edittale non può che esercitare la stessa fondamentale incidenza appena spiegata.
Soffermando l’attenzione su questo aspetto, sembra comunque doversi propendere per l’irrilevanza della natura del rito prescelto a questi fini.
Si può infatti replicare all’assunto in parola che la “piattaforma consensuale” risulta in radice compromessa dalla presenza di norme invalide, di talché l’accordo sulla stessa, non potendo certo continuare a reggersi, non necessita di essere, in qualche modo, “preservato”.
Non solo.
Non necessita nemmeno di essere «riprodotto», mediante una nuova manifestazione di volontà delle parti: si deve transitare dal piano «negoziale» delle facoltà a quello degli obblighi imposti al giudice dalla legalità costituzionale ([94]).
Per chiarire ancor meglio il concetto, va detto preliminarmente come la necessità di coniugare il principio dell’accordo processuale espresso dall’art. 444, comma 1, c.p.p. con la regola della ineseguibilità della pena abbia suggerito ad una parte degli interpreti di utilizzare lo strumento operativo di cui all’art. 188 disp. att. c.p.p., per rimediare all’ineliminabile vizio dell’accordo precedente con un nuovo accordo fondato sulla forbice edittale oggi in vigore.
Tale dato normativo sembra, infatti, introdurre nel sistema accordi sulla pena anche in sede esecutiva. Pur pensata, allora, per lo specifico caso della richiesta in executivis dell’applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato al cospetto di più sentenze di patteggiamento, la norma viene fatta oggetto di applicazione analogica, stante l’apparente assenza di norme che espressamente regolino l’evenienza di cui si discute.
Ebbene, tale scelta non sembra esente da critiche laddove si evidenzi, dapprima, l’assenza di una lacuna – a fronte del disposto dell’art. 30, commi 3 e 4, l. n. 87/1953 – difettando, quindi, il presupposto necessario per il dispiegarsi dell’analogia, per poi aggiungere, ad abundantiam, che, in disparte tale aspetto, non sussisterebbe comunque l’eadem ratio. Si coglie così l’occasione per sottolineare come l’obbligo di ricondurre la pena ad una dimensione legittima, scaturente da norme che attuano la Costituzione, non possa tramutarsi sic et simpliciter in una mera facoltà, quale è quella prevista nell’art. 188 disp. att. c.p.p. ([95]).
Volendo concludere, a fronte del riconosciuto obbligo del giudice di rideterminare la pena in executivis, l’operatività del richiesto intervento è destinata ad esplicarsi, in una prospettiva garantistica, a nulla ostando il giudicato penale. Più specificamente, ciò deve avvenire, in aderenza ai principi sopra evocati, secondo l’usuale paradigma valutativo di cui all’art. 133 c.p., limitatamente, però, a quei soli aspetti sui quali la norma illegittimamente applicata abbia esteso il proprio raggio di azione: esclusivamente, quindi, sui profili condizionati, direttamente o in via mediata, dall’invalidità del dato normativo, così che l’incidenza venga orientata su quanto strettamente necessario ad ossequiare i precetti costituzionali.
([1]) Si allude a Cass., sez. un., 7 maggio 2014, Ercolano, in www.iusexplorer.it (in merito a tale pronuncia e al dibattito retrostante, v. Viganò, Pena illegittima e giudicato. Riflessioni in margine alla pronuncia delle sezioni unite che chiude la saga dei “fratelli minori” di Scoppola, in www.penalecontemporaneo.it.) e, da ultimo, a Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, in www.iusexplorer.it.
([2]) Un’indicazione sul punto sembra trasparire dalla motivazione delle Sezioni unite nella vicenda Gatto, laddove si affronta il tema dei poteri valutativi del giudice dell’esecuzione, problema risolto in senso affermativo, e dei suoi limiti (cfr. Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punto 9, Motivazione, cit.).
[3] Cass., Sez. Un., 26 gennaio 2015, Pres. Santacroce, Relatori Fumo, Blaiotta e Fidelbo
([4]) Legge 21 febbraio 2006, n. 49.
([5]) Corte cost., 25 febbraio 2014, n. 32, di cui si dirà amplius, concernente la dichiarazione di illegittimità delle norme della legge 21 febbraio 2006, n. 49, c.d. “Fini-Giovanardi”, che avevano previsto la parificazione sotto il profilo sanzionatorio tra le c.d. “droghe leggere” e “droghe pesanti”. La previgente disciplina, che torna quindi ad essere applicabile [l’impianto originario, che, in parte qua, torna ad essere applicabile, si deve alla legge Iervolino-Vassalli, (l. 162/1990, confluita nel d.P.R 309/1990)], operava invece un distinguo tra le due tipologie di sostanze, prevedendo una pena edittale diversificata e, quindi, in riferimento alle droghe leggere, un trattamento sanzionatorio ben più mite (dai due ai sei anni di reclusione e con la multa da euro 5.164,00 a euro 77.468,00), rispetto alla forbice sanzionatoria prevista dalla legge “Fini-Giovanardi” (dai sei ai venti anni e con la multa da euro 26.000,00 a euro 260.000,00).
([6]) Su tale tecnica di rimando, cfr., tra gli altri, Pulitanò, Diritto penale, V ed., Torino, 2013, 107.
([7])Nel presente contributo verrà tralasciata l’analisi delle problematiche sollevate dall’art. 73, comma 5, t.u. stup. con riferimento alle condanne passate in giudicato relative alle “droghe leggere” – come anche l’esame della congerie di interventi legislativi che hanno inciso su tale norma. Per completezza, ci si limita soltanto a segnalare la non insignificante stratificazione di mutamenti legislativi che hanno interessato il comma prefato: si tratta del d.l. n. 146 del 2013, convertito con l. n. 10 del 2014, per effetto del quale l’ipotesi di lieve entità è stata trasformata da mera circostanza attenuante in reato autonomo, punito, senza distinguere tra droghe c.d. pesanti e droghe c.d. leggere, con la pena della reclusione da uno a cinque anni e con la multa da € 3.000 ad € 26.000, e del d.l. 36/2014, convertito con legge n. 79/2014, che ha ulteriormente ridotto i limiti edittali, con previsione della pena della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da € 1.032 ad € 10.329; per un breve commento del primo, cfr. Della Bella e Viganò, Convertito il d.l. 146/2013 sull’emergenza carceri: il nodo dell’art. 73, co. 5 t.u. stup., in www.penalecontemporaneo.it; quanto al secondo, cfr. Viganò, Convertito in legge il d.l. n. 36/2014 in materia di disciplina degli stupefacenti, con nuove modifiche (tra l’altro) al quinto comma dell’art. 73, in www.penalecontemporaneo.it.
([8]) Corte cost., 8 luglio 2010, n. 249; per uno specifico esame cfr. Gambardella, Lex mitior e giustizia penale, Torino, 2013.. La prima pronuncia di legittimità che si registra in tema di aggravante di clandestinità è rappresentata da Cass., sez. I, 13 gennaio 2012, Hauohu (cui né la sentenza Gatto né la sentenza Ercolano mancano di richiamarsi più volte), su cui v. nota di Scoletta, Aggravante della clandestinità: la Cassazione attribuisce al giudice dell’esecuzione il potere di dichiarare la non eseguibilità della porzione di pena riferibile all’aggravante costituzionalmente illegittima, in www.penalecontemporaneo.it..
([9]) Così, Viganò, Pena illegittima e giudicato, cit.; cfr., in dottrina, anche le riflessioni di Gaito e Santoriello, Giudizio abbreviato ed ergastolo, cit. Sul punto, in giurisprudenza, Corte cost., 18 luglio 2013, n. 210, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, d.l. 341/2011, inteso quale disposizione sostanziale, qualifica riconosciuta anche all’art. 442 c.p.p., sul quale la prima norma, “pseudo-interpretativa”, era venuta ad incidere, in violazione dell’art. 7 Cedu e, di conseguenza, del parametro costituzionale di cui all’art. 117 Cost. (cfr. Romeo, Giudicato penale e resistenza alla lex mitior sopravvenuta: note sparse a margine di Corte cost. n. 210 del 2013, in www.penalecontemporaneo.it); nonché Cass., sez. un., 7 maggio 2014, Ercolano, cit. Nella manualistica, v. Garofoli, Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, IX ed., Roma, 2013, 229, cit., 229.
([10]) Cfr. Corte cost. 23 febbraio 2012, n. 31 (relativa all’annullamento dell’automatismo applicativo delle pena accessoria della perdita della potestà genitoriale sancito dall’art. 569 c.p. per il delitto di cui all’art. 567, comma 2, c.p.; per la diversa ipotesi contemplata all’art. 566, comma 2, c.p. (soppressione di stato), v. Corte cost., 23 gennaio 2013, n. 7; Corte cost., 23 marzo 2012 n. 68, (relativa all’annullamento dell’art. 630 c.p., nella parte in cui non estende al sequestro di persona a scopo di estorsione le attenuanti previste per il sequestro a scopo di terrorismo o di eversione ai sensi dell’art. 311 c. p.).
([11]) Cfr. Corte cost., 5 novembre 2012, n. 251 (relativa all’illegittimità dell’art. 69, comma 4, come sostituito dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, art. 3, nella parte in cui poneva un divieto di prevalenza dell’attenuante di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stup. sulla recidiva reiterata di cui all’art. 99, comma 4 c.p.). Sul punto, v. anche Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, cit.; Corte cost., 25 febbraio 2014, n. 32, (per il cui specifico oggetto v. supra, nota 9,) che più rileva in questa sede, concernente la particolare tematica della reviviscenza della norma penale abrogata. Sono poi seguite altre questioni, in relazione a diversi ambiti: cfr. Corte cost.,14 aprile 2014, n. 105 e Corte cost., 22 aprile 2014, n. 106, che hanno dichiarato illegittimo l’art. 69, comma 4, c.p. nella parte in cui escludeva che potesse riconoscersi la prevalenza delle attenuanti di cui, rispettivamente, all’art. 648, comma 2, c.p. (fatto di particolare tenuità) e all’art. 609 bis, comma 3, c.p. (fatto di lieve entità) sull’aggravante di cui all’art. 99, comma 4, c.p.
([12]) Il dibattito si fa acceso, in particolare, nei casi c.d. “difficili”.
([13]) Paradigmatica, al riguardo, Cass., sez. I, 19 gennaio 2012, Hamrouni, in Mass. Uff., 253383, ripresa dall’ordinanza di rimessione nella vicenda Gatto (Cass., sez. I, 31 gennaio 2013, in www.iusexplorer.it).
([14]) Così, Cass., sez. un, 29 maggio 2014, Gatto, Punto 10.1, motivazione, cit.
([15]) Riguardo tale declaratoria di incostituzionalità, va puntualizzato come la condivisione, da parte del Giudice delle leggi, della tesi in parola – secondo cui l’organo giurisdizionale esecutivo può incidere su sopravvenienze quali la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma penale sostanziale (su tale nozione, v. infra)– sia attestata chiaramente dal riconoscimento del requisito della rilevanza della questione sollevata con l’incidente di costituzionalità (v. Corte cost., 18 luglio 2013, n. 210, punto7.3).
([16]) Cfr. Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punti 5 e, in particolare, 11, in cui si assevera che le medesime conclusioni devono essere traslate al caso a sé sottoposto.
([17]) Così Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, Punto 10, motivazione, cit..
([18]) Come la necessità di differenziare l’ipotesi di violazione dell’art. 7 Cedu da quella relativa all’art.6 della Carta europea, soltanto quest’ultima necessitando, per essere eliminata, dello strumento della riapertura del processo, ai sensi dell’art. 630 c.p.p., come risultante dall’intervento della Corte cost., 7 aprile 2011, n. 113 (per tale osservazione, v. Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, Punto 10.1, motivazione, cit.); non meno necessaria, va aggiunto, la conferma dei rapporti tra ordinamento interno ed internazionale con riferimento al parametro di cui all’art. 117 Cost., incardinati sul ricorso necessario alla Corte costituzionale nei casi di incompatibilità di una norma interna rispetto alla Cedu.
([19]) Così, Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, Punto 10.1, motivazione, cit.
([20]) Quelle della Cedu, pur dotate della peculiare rilevanza di norme interposte, occupano un rango “sub-costituzionale” (così, Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, Punto 10.1, motivazione, cit.); un richiamo alla «gerarchia delle fonti», cui è soggetto «il comando punitivo del caso concreto», è presente in Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punto 8.2, motivazione, cit.
([21]) Paradigmatici i casi Dorigo (Corte eur., 9 settembre 1998, Dorigo c. Italia), Somogyi (Corte eur., 18 maggio 2004, Somogyi c. Italia) e Drassich (Corte eur., 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia), nei quali, al di là delle diverse tecniche risolutive proposte – sulle quali sarebbe un fuor d’opera diffondersi (si rinvia, tra gli altri, a Gialuz, Le opzioni per l’adeguamento del codice di procedura penale italiano all’obbligo di restitutio in integrum previsto dalla Corte di Strasburgo, in Spitaleri (a cura di), L’incidenza del diritto comunitario e della C.e.d.u. sugli atti nazionali definitivi, Milano, 2009, 229; v. la critica all’estensione analogica dell’art. 625 bis c.p.p., operata da Gambardella, Lex mitior, cit., 70) – si afferma con nitore l’incompatibilità delle violazioni accertate dalla giurisprudenza della Corte edu con la persistente efficacia del giudicato, i cui effetti devono, in qualche modo, essere neutralizzati.
Si badi, peraltro, che l’interessato deve essere altresì posto nelle stesse condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della violazione: riconciliazione con i crismi del giusto processo che non può certo affidarsi alla giurisdizione esecutiva, insinuatosi il vizio nelle dinamiche processuali che culminano nella valutazione del fatto, prerogativa del giudice della cognizione. All’opposto, il caso che occupa – è bene sottolinearlo fin d’ora – si pone interamente nel solco delle vicende attinenti al solo trattamento sanzionatorio, non estranee all’intervento in executivis.
Su tale frangente, si pensi alla c.d. saga dei fratelli minori di Scoppola, relativa alla vicenda dell’illegittimità costituzionale, dichiarata da Corte cost. n. 210/2013, dell’art. 7, comma 1, d.l. n. 341/2000 quale norma penale sostanziale; sul tema, v. Viganò, Pena illegittima e giudicato, cit.; Gaito e Santoriello, Giudizio abbreviato ed ergastolo: un rapporto ancora difficile, in Dir. pen. proc., 2012, in www.iusexplorer.it. Per un approfondimento del tema della non eseguibilità del giudicato contrastante con la Cedu, ex multis, cfr. Ubertis, L’adeguamento italiano alle condanne europee per violazioni dell’equità processuale, in Balsamo – Kostoris (a cura di), Giurisprudenza europea e processo penale italiano, Torino, 2008, 99; Mazza, L’esecuzione può attendere: il caso Dorigo e la condanna ineseguibile per accertata violazione della CEDU, in Giur. it., 2007, 2637; Negri, Corte europea e iniquità del giudicato penale, in Dir. pen. proc., 2007, 1229. Considerazioni simili possono essere svolte rispetto a Corte cost., 7 aprile 2011, n. 113 (di tipo additivo), che ha arricchito di una nuova ipotesi di riapertura del processo l’art. 630 c.p.p., per garantire l’attuazione dell’art. 46 Cedu (amplius, tra gli altri, cfr. Gialuz, Una “sentenza additiva di istituto”: la Corte costituzionale crea la “revisione europea”, in Cass. pen., 2011, 3308; Ubertis, La revisione successiva a condanne di Strasburgo, in Giur. cost., 2011, 1542; Diddi, La “revisione del giudizio”: nuovo mezzo straordinario di impugnazione delle sentenze emesse in violazione della C.e.d.u., in Giust. pen., 2011, 138; Tabasco, Decisioni CEDU, processo iniquo e nuovo giudizio, in Dir. pen. proc., 2011, 1405.
([22]) Cfr. Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punto 8 motivazione, cit. Sulla questione, per vero, va sottolineato che la soluzione propugnata in motivazione dalle Sezioni unite Ercolano, a favore della rivedibilità del giudicato, era stata anticipata da numerosi giudici di merito, in sede esecutiva, quali, senza pretese di esaustività: i G.I.P. dei Tribunali di Rovigo, con ordinanza del 28 marzo 2014 (giud. Mondaini), Pisa, con ordinanza del 15 aprile 2014 (giud. Ubiali) e Trento con più ordinanze del 18 aprile 2014 (giud. Ancona), nonché il Tribunale di Milano in composizione monocratica (giud. Cotta), ord. 3 aprile 2014; se, però, tutte le ordinanze appena citate concordano su tale conclusione, si differenziano nettamente circa le modalità con cui la stessa dovrebbe attuarsi.
([23]) In tale ambito, si allude al tema della reviviscenza, alla sottolineatura delle conseguenze tra ius superveniens e incostituzionalità con le sue ricadute rispetto alle condanne passate in giudicato, alla tematizzazione del principio di legalità, anche nella sua accezione di conformità alla Costituzione, alla riflessione sulla incidenza delle sentenze della Corte costituzionale, come anche al concetto di norma penale.
([24]) A tal riguardo, si considerino il tema dei rapporti che intercorrono tra gli artt. 673 c.p.p. e 30, comma 4, l. n. 87/1953; quello che delle condizioni per cui una pena possa essere ritenuta giusta; l’identificazione del momento in cui un rapporto possa dirsi “esaurito”; l’interpretazione del concetto di intangibilità del giudicato e la correlativa visione della pena come “effetto” della sentenza irrevocabile, estraneo a tale immodificabilità, con implicazioni in ordine alla rivisitazione del trattamento sanzionatorio, anche in presenza di una sentenza di patteggiamento; lo strumento processuale appropriato a tal fine; l’attenzione posta su ulteriori questioni poste dalle specifiche peculiarità del patteggiamento, nonché i limiti del potere del giudice dell’esecuzione, argomento inevitabilmente connesso a quello delle modalità operative a disposizione.
([25]) Si pensi alle questioni che ruotano intorno al tema dell’incidenza delle sentenze della Corte costituzionale in ambito penale; al tema del bilanciamento dei valori e a quello della ricerca di un’interpretazione degli istituti che sia conforme agli stessi.
([26]) Le tematiche – di cui è stata operata una rapida mappatura nelle note che precedono – pur all’evidenza strettamente connesse, possono essere ricondotte, per un’esigenza di semplificazione e sistemazione teorica – a ciascuna sfera, come appena indicato. Per la necessità di un’impostazione «interdisciplinare» alla problematica, v. Ruggeri, Giudicato costituzionale, processo penale, diritti della persona, nota a Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, cit.
([27]) «Secondo l’antico costume di leggere il nuovo per assorbirlo nel vecchio» (così, efficacemente, Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punto 9.2, motivazione, cit.).
([28]) Laddove si parlava di un’erosione del giudicato già in atto ben prima della spinta proveniente dalla giurisprudenza formatasi sulla Cedu.
([29]) Tale necessità è stata dapprima avvertita da autorevoli voci della dottrina all’indomani della Carta costituzionale, poi seguita, pur a distanza di tempo, dalla giurisprudenza degli anni ’80 (per una tale ricostruzione storica v. Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punto 6.1, motivazione, cit.).
([30]) Come si vedrà, il problema di una rivisitazione degli istituti (quali quello di giudicato, rapporto esaurito, bilanciamento, efficacia delle sentenze della Corte costituzionale e così via) si pone in maniera precipua con riguardo alle sentenze passate in giudicato piuttosto che con riferimento ai giudizi pendenti (è appena il caso di sottolineare che, però, anche in tali ultimi casi viene in gioco il principio di legalità costituzionale). Per il riconoscimento di un legame tra significato assegnato al giudicato e fisionomia della fase esecutiva, e, quindi degli effetti indiretti delle dinamiche evolutive che hanno interessato il primo v. Dean, voce Esecuzione penale, in Enc. dir., Annali II, Tomo 1, Milano, 2008, 231 ss.
([31]) Che continua a rimanere preponderante nelle «relazioni orizzontali» (la terminologia si deve a Viganò, Retroattività della legge penale più favorevole, www.penalecontemporaneo.it); peraltro, anche nel frangente civile si registrano tendenze nel senso di una attenuazione dell’intangibilità del giudicato (cfr. Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punto 8.1, motivazione, cit.).
([32]) Come è noto, tale istituto, disciplinato all’art. 649 c.p.p., risponde all’esigenza di evitare che si celebri un diverso processo de eadem re (v. Dean, voce Esecuzione penale, cit., passim. Al riguardo, v. Iacobbi, La nuova dimensione del giudicato penale ed i poteri del giudice di “modificare” le statuizioni della sentenza, in Cass. pen., 2007, 2675, che puntualizza come dall’irrevocabilità conferita dall’art. 648 c.p.p. discenda non solo l’esecutività ex art. 650 c.p.p., ma anche, per l’appunto, la «preclusione» data dal divieto di un secondo giudizio, ex art. 649 c.p.p., «che impedisce ulteriori procedimenti penali a carico della medesima persona e per lo stesso fatto già giudicato»: in tal senso, si potrebbe parlare di una «certezza in senso meramente soggettivo» (così, Iacobbi, La nuova dimensione del giudicato penale, cit.).
([33]) Sulla dignità costituzionale del giudicato, vuoi in linea generale vuoi con riguardo, specificamente, al ramo penalistico, non sono mancate vivaci discussioni; quanto al settore penale, che qui interessa, ove la si voglia riconoscere, il basamento più solido pare essere quello dell’art. 117 Cost., parametro che consente il sindacato delle norme convenzionali; in particolare, basti pensare che sia il Patto internazionale sui diritti civili e politici, all’art. 14, par. 7, sia il protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, all’art. 4, par. 1, riconoscono il principio del ne bis in idem.
([34]) Per una disamina delle diverse esigenze che devono riconoscersi sottese al giudicato e, specularmente, delle sue distinte declinazioni funzionali, a seconda dei casi, cfr. Viganò, Retroattività della legge penale, cit.; per le conseguenze in tema di bilanciamento, cfr. Viganò, Retroattività della legge penale, cit.
([35]) Esemplarmente, Cass. sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punto 6.2, motivazione, cit.: «è proprio l’ordinamento stesso che è tutto decisamente orientato a non tenere conto del giudicato e quindi a non mitizzarne l’intangibilità, ogniqualvolta dal giudicato resterebbe sacrificato il buon diritto del cittadino».
([36]) Così, è precluso un riesame in ordine al fatto tipico, all’antigiuridicità e alla colpevolezza (sul punto, v. Gaito e Ranaldi, Esecuzione penale, Milano, 2005, 47 ss). Di «garanzia di tipo soggettivo» ma perimetrata da un punto di vista oggettivo (“medesimo fatto”, ovvero coincidente in relazione agli elementi costitutivi, ancorché registri variazioni quanto al titolo, al grado o alle circostanze) discorre Dean, voce Esecuzione penale, cit. Eccettuati – sempre per esigenze sopravvenute di giustizia – il rimedio straordinario previsto dall’art. 630 c.p.p., ampliato nei suoi spazi operativi dalla codificazione del 1988, (sopra richiamato a proposito dell’incidenza della Cedu), quello del ricorso straordinario per errore materiale o di fatto contemplato dall’art. 625 bis c.p.p., nonché quello forgiato, da ultimo, con l. 67/2014, che ha introdotto nel codice di rito l’art. 625 ter c.p.p., la cui rubrica (“rescissione del giudicato”) già ne segnala l’attitudine rescissoria del giudicato, condivisa con i due meccanismi che precedono.
([37]) Questa, infatti, la conclusione cui perviene la recente sentenza Cass. sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punto 6.1, motivazione, cit.
([38]) Dean, voce Esecuzione penale, cit.
([39]) Cfr. Cass. sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punto 7, motivazione, cit.
([40]) Parla di funzione «integrativa» Dean, voce Esecuzione penale, cit.; v. Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, Punto 6.3, Motivazione, cit.
([41]) Parla di forme di controllo sulla giustizia della decisione Vicoli, La rivisitazione del fatto da parte del giudice dell’esecuzione: il caso dell’abolitio criminis, in Cass. pen., 2010, in www.iusexplorer.it; cfr. Dean, Ideologie e modelli dell’esecuzione penale, Torino, 2006, 45 ss.; Gaito e Ranaldi, Esecuzione penale, cit.
([42]) L’efficace locuzione si deve a Dean, Ideologie e modelli, cit.
([43]) Ma anche al giudice di valutare se concedere la sospensione condizionale e la non menzione della condanna, nonché di adottare ogni altro provvedimento conseguente. Per completezza, sia detto incidentalmente che, con l., 5 dicembre 2005, n. 251, è stato inserito quale indice espresso di sussistenza della continuazione proprio lo stato di tossicodipendenza. L’art. 671 c.p.p. – che regola un caso nel quale occorre rimediare ad un limite che si è scontato in fase cognitiva – con ciò determinando un indebito aggravio sanzionatorio in executivis – è significativamente assunto da uno dei principali passi motivazionali (punto 12) della sentenza a Sezioni unite sul caso Gatto, sopra citata, quale termine di raffronto (con ciò, sembra, superando una sua interpretazione in chiave eccezionale) per mettere in luce l’ampiezza dei poteri valutativi – come anche, si badi, i loro confini – del giudice dell’esecuzione; poteri che, del resto, rispondono alla stessa logica del sistema, che attribuisce al giudice dell’esecuzione una determinata funzione. Con ciò destituendo di validità l’argomento che orienta «la ricerca di soluzioni ‘a rime obbligate’ per l’organo esecutivo»: e cioè la «presunta insuperabile refrattarietà dell’incidente di esecuzione a qualunque valutazione discrezionale in materia di commisurazione della pena» (così Viganò, Pena illegittima e giudicato, cit.).
([44]) Così Dean, Ideologie e modelli dell’esecuzione penale, Torino, 2006, 45; per un’enumerazione di questi ed altri poteri, cfr. Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punto 6, motivazione, cit.; al medesimo catalogo allude, per sottolineare la latitudine di poteri, già Corte cost, 18 luglio 2013, n. 210 punto 8, Motivazione, e Cass., sez. un., 7 maggio 2014, Ercolano, punto 9, motivazione, cit.
([45]) Per una ricostruzione sintetica, v. Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punto 6.1, motivazione. In mancanza di una norma analoga all’art. 671 c.p.p., la dottrina degli anni sessanta denunciava come la circostanza che il reato meno grave fosse quello già giudicato impedisse l’applicazione dell’art. 81 c.p. e, quindi, l’esplicarsi di effetti favorevoli, in virtù di una pretesa immodificabilità del trattamento sanzionatorio fissato con sentenza irrevocabile. Su tale scia, una sentenza degli anni ottanta a Sezioni unite (Cass., sez. un., 21 giugno 1986, Nicolini, in Mass. Uff., 173419), esprimendo un cruciale revirement rispetto all’indirizzo consolidato, in nome di esigenze di giustizia sostanziale, ammise la possibilità di superare l’ostacolo del giudicato, emblematicamente additato come «fattore di carattere temporale» («evenienza meramente processuale»”, secondo Corte cost. 9 aprile 1987, n. 115, che avalla tale svolta), a significare l’ineluttabile “laicizzazione” del concetto. Significativa, ai nostri fini, anche l’affermazione che, al di là delle ipotesi tassativamente previste, il giudice può ricavare per interpretazione dal sistema una facoltà di incidere sul giudicato in caso di «eventi accidentali e indipendenti dal fatto del reo» (favorevole a tale soluzione Corte cost. 9 aprile 1987, n. 115). In dottrina, sul punto, v. Ruggeri, Giudicato costituzionale, cit., 8.
([46]) Il riferimento va, da un lato, al noto caso Eldridi (28 aprile 2011, C-61/11) sul quale v. Garofoli, Manuale di Diritto Penale, cit., 226 e Gambardella, Qualche considerazione sull’illegittimità costituzionale della legge “Fini-Giovanardi”, in Arch. Pen., 2014, n. 1, 1237, dall’altro, a quella giurisprudenza (emblematica, Cass., sez. un., 20 dicembre 2005, Catanzaro, in Mass. Uff., 232610) che, sulla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata, si è attestata in senso favorevole al riconoscimento dell’ammissibilità della richiesta in ordine alla sospensione condizionale, ricondotta alla categoria dei “provvedimenti conseguenti” di cui all’art. 673 c.p.p., qualora a risultare di ostacolo nella fase cognitiva sia stata la condanna oggetto della revoca (su tale aspetto v. Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punto 7, motivazione, cit.); cfr. Corte cost., ord., n. 211 del 2011, seguita da Cass., sez. un., 6 febbraio 2006, su cui cfr. Ranaldi, Un ulteriore passo verso il «giudicato aperto»: i dilatati poteri del giudice dell’esecuzione in tema di sospensione condizionale della pena conseguente ad abolitio criminis, in Giur. it., 2007, 727 ss. Nella vicenda che ha interessato l’art. 673 c.p.p. si può avvertire plasticamente la vitalità raggiunta dalla giurisprudenza nella rivisitazione degli istituti.
([47]) Non va taciuto fin d’ora come a tale indirizzo se ne sia contrapposto un altro, che se le Sezioni unite nel caso Gatto tacciano di anacronismo, perché fondato su riferimenti datati e argomenti ormai superati, propugnati da una giurisprudenza che si ferma ai primi anni ’80, ancora restìa, come si è già evidenziato, ad accogliere le sollecitazioni della dottrina e i valori della Carta costituzionale nella loro pienezza.
([48]) Cfr. Gambardella, Lex mitior, cit.; ne è testimonianza palpabile l’aumento, negli ultimi tempi, delle sentenze della Corte costituzionale sul punto. Trattasi di sentenze c.d. ablative quanto di c.d. additive: le prime espungono la norma incostituzionale, mentre le seconde, in sostanza, introducono nuove norme (v. Gambardella, Lex mitior, cit., 113): esempi del primo tipo risultano Corte cost., 8 luglio 2010, n. 249 e Corte cost. n. 32/2014, quest’ultima rilevante ai fini della vicenda in esame; del secondo tipo Corte cost., 23 marzo 2012 n. 68.
([49]) Vale a dire il problema di una pena in esecuzione fondata su una norma penale non incriminatrice successivamente dichiarata invalida.
([50]) Nel caso oggetto dell’incidente di costituzionalità risolto dalla Corte nella sentenza n. 32/14, peraltro, ci troviamo di fronte ad una norma penale sfavorevole, perché attinente a minori limiti edittali, ma tecnicamente non ad una “norma penale di favore”, ossia, con gli occhi della Corte costituzionale, che sottrae una determinata classe di soggetti o condotte dall’ambito applicativo di un’altra norma più generale, sicché potrebbe sorgere un dubbio sulla compatibilità con il principio della riserva di legge in materia penale (per un inquadramento generale delle norme penali di favore, v. Garofoli, Manuale di Diritto Penale, cit., 2013, 143 ss., Marinucci, Irretroattività e retroattività nella materia penale: gli orientamenti della Corte Costituzionale, in Vassalli (a cura di), Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006, 84 ss.; sia consentito un rinvio a Pini, Un Dialogo tra giudici sui confini della punibilità: l’esercizio abusivo di scommesse quale «travagliato» banco di prova dell’incidenza del diritto europeo sul diritto penale interno, in Le Corti Umbre, 2014, 1, 276-277, ove si svolge, sotto la lente della riserva di legge, pur incidentalmente, una digressione in relazione alla tematica specifica delle norme penali di favore). Sennonché, a ben vedere, la Corte è qui intervenuta a censurare una situazione di carenza di potere da parte del legislatore, in ragione del mancato rispetto delle norme in tema di conversione del decreto legge ex art. 77, comma 2, Cost. (Gambardella, La nuova disciplina in materia di stupefacenti, in Cass. pen., 2014, in www.iusexplorer.it), di tal che il sindacato di costituzionalità, lungi dal violare la riserva di legge, se ne rende custode (stando così le cose, del resto, si consuma una duplice violazione della riserva di legge, essendo questa violata anche sotto il profilo della legalità costituzionale, secondo cui la legge ordinaria non può esprimere norme contrarie a norme di rango costituzionale). Peraltro, ammesso lo scrutinio di costituzionalità, rimane comunque vincolante il principio di irretroattività della legge sfavorevole, che quindi preclude l’applicazione della norma più grave, fatta “rivivere” dalla Corte, nei confronti di chi abbia commesso il fatto nel vigore di quella più favorevole (Gambardella, La nuova disciplina, cit., Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, 199 ss. Pizzorusso, Garanzie costituzionali, in Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna, 1981, 255. e Gambardella, Lex mitior, cit., 130. Volendo istituire un raffronto tra l’ipotesi in parola e quella relativa ad una norma rigorosamente “di favore”, sembra potersi sostenere che si assiste anche qui ad una sorta di “effetto automatico”, che non è però la riespansione della norma generale, come nel secondo caso, ma la reviviscenza della norma abrogata a seguito dell’annullamento della norma abrogante (cfr. Corte cost. 23 aprile 1974, n. 107, in Rep. Corte cost., 1974-1975, 244; Corte cost., 23 aprile 1986, n. 108, in Giur. cost., 1986, 582; Rescigno, voce Abrogazione, in Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, vol. I, Milano, 2006, 32 ss. Giacobbe, voce Reviviscenza e quiescenza, in Enc. dir., vol. XL, Milano, 1989, 195 ss.; per un’approfondita rassegna dottrinale e giurisprudenziale su tale ultimo fenomeno, v. Gambardella, Lex mitior, cit., 121 e 172; con riferimento alla sentenza n. 32/2014, cfr. Gambardella, La nuova disciplina, cit.
([51]) Sebbene, per incuriam, nella pronuncia della Corte costituzionale n. 32/2014 venga richiamato l’art. 2, comma 4, c.p. quale criterio regolatore delle conseguenze intertemporali della sentenza medesima (cfr. Viganò, Retroattività della legge penale, cit.), la bipartizione netta di piani è affermata già in Corte cost. 23 aprile 1956, n. 1, i cui principi sono traccia costante nella giurisprudenza costituzionale successiva e, a partire, quanto meno, da Cass., sez. un., 7 luglio 1984, in Giur. it., 1985, II, 178, anche in quella di legittimità.
([52]) V. Cass., sez. I, 19 gennaio 2012, Hamrouni, cit. e Cass., sez. I, 31 gennaio 2014, Gatto, cit.
([53]) Cfr. Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punto 5.1, motivazione, cit.
([54]) Cass., sez VI, 17 novembre 2010, Nasri, in Cass. Pen., 2011, 1348, con nota di Gambardella.
([55]) Sull’identificazione di tale ratio, cfr. Dodaro, Uguaglianza e diritto penale, Milano, 2012, 307 ss. Corte cost., 20 maggio 1980, n. 74, in Giur. cost., 1980, I, 684; Cass., sez. VI, 8 aprile 1994, De Angelis, in Cass. pen., 1996, 1807.
([56]) Cfr. Garofoli, Manuale di Diritto Penale, cit., 2013, 210-217.
([57]) Cfr. Gambardella, La nuova disciplina, cit.
([58]) Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punto 5.1, motivazione, cit.; Viganò, Retroattività della legge penale, cit.
([59]) Cfr. Ruggeri, Giudicato costituzionale, cit.; Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punto 5.2, motivazione, cit..
([60]) Cfr. Zirulia, Aggravante della “clandestinità” e giudicato: rimuovibili gli effetti?, in Corr. merito, 2011, n. 5, 526. Si impernia, dunque, sul principio di legalità costituzionale che esprime il concetto che la norma legislativa non conforme a Costituzione deve considerarsi invalida perché gerarchicamente inferiore (la definizione è ribadita in Gambardella, La nuova disciplina, cit., 23): il principio di costituzionalità, nelle parole di Zagrebelsky, Manuale di diritto costituzionale, Torino, 1987, 57 ss.; su un piano generale, cfr. anche Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Padova, 1984, 381 ss.; Rescigno, voce Abrogazione, cit.; Sorrentino, Le fonti del diritto italiano, Padova, 2009, 80 ss.; Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, Milano, 1998, 199, 233 ss. Sul primato delle norme costituzionali, v. Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, cit..
([61]) Sull’ancoraggio del bilanciamento a precisi indici normativi (si pensi agli artt. 673 e 671 c.p.p.) da cui si può desumere la tutela “forte” accordata dal sistema alla libertà personale, v. Zirulia, Aggravante della “clandestinità”, cit.. Sul bilanciamento, per tutti, Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, Milano, 2004, 216.
([62]) Sulla primazia del principio personalistico che guarda alla persona umana come “valore etico in sé (…) fine primo e fine ultimo, alfa ed omega del sistema penale”, cfr. Mantovani, Il principio di offensività nello schema di legge delega legislativa per un nuovo codice penale, in Riv. It. Dir. Pen. Proc., 1997, 313.
([63]) Posto che «la punizione e la restrizione della libertà personale non potrebbero non avere luogo, rispettivamente, che in base a ovvero nei soli casi e modi previsti da una legge costituzionalmente legittima» (v. Manes e Romano, L’Illegittimità costituzionale della legge c.d. “Fini-Giovanardi”: gli orizzonti attuali della democrazia penale, nota a Corte cost., 25 febbraio 2014, n. 32, in www.penalecontemporaneo.it).
([64]) Non sembra azzardata la qualifica di «pena inesistente», mutuando una terminologia adoperata in sentenze meno recenti per evocare la violazione del principio di legalità: questa infatti non è solo quella ordinaria, come si è avuto modo di precisare, ma anche, e in primo luogo, quella costituzionale (ex multis, Cass., sez. I, 25 giugno 1982, Carbone, in Mass. Uff., 156163.
([65]) Cfr. Cass., sez. un, 29 maggio 2014, Gatto, punto 5.2, motivazione, cit. si esprime in termini di «attuazione del principio di cui all’art. 25, comma 2, Cost.» da parte dell’art. 30, comma 4, l. n. 87/1953.
([66]) Per una diversa prospettiva – comunque coerente con tale cornice di principi – centrata maggiormente sull’art. 30, comma 3, l. n. 87/1953, v. Zirulia, Aggravante della “clandestinità”, cit.
([67]) È precisamente nelle Sezioni unite Gatto che detta nomenclatura fa capolino, variante terminologica, espressiva del medesimo concetto, rispetto alla locuzione “norme penali” presente in Cass., sez. I, 13 gennaio 2012, Hauohu, in www.iusexplorer.it e che si ritrova a pag. 6 dell’ordinanza in commento. Le norme penali incriminatrici («enunciati sintatticamente condizionali che collegano una sanzione penale ad una classe di fattispecie»; cfr. Gambardella, Lex mitior, cit., 134) non assorbono l’intera categoria delle norme di diritto penale sostanziale (con ciò tra l’altro destituendo di fondamento la tesi dell’abrogazione implicita dell’art. 30, comma 4, l. 87/1953 da parte dell’art. 673 c.p.p.) dette anche «norme di diritto penale materiale» (Gambardella, Lex mitior, cit., 57), definite come tutte quelle norme dalle quali deriva una qualche conseguenza sul piano del trattamento sanzionatorio. In tale ottica, sia consentito replicare a Ruggeri, Giudicato costituzionale, cit., che, una volta che ci si intenda sull’esatto significato da attribuire a tale nozione, disancorata dal riferimento al “contenitore processuale” della norma (si pensi, infatti, alla qualificazione che è stata infine attribuita all’art. 442 c.p.p.: nel dettaglio, v. Gaito e Santoriello, Giudizio abbreviato ed ergastolo, cit.), sembra sterile – se non contraddittorio – il rilievo critico con cui si contesta l’irrilevanza, agli indagati fini, del giudizio di costituzionalità di norme processuali (del resto, nell’esemplificazione di una norma asseritamente processuale, l’A. menziona un’ipotesi che potrebbe ben essere reputata «sostanziale», secondo la definizione che si è fornita). Contra, Gambardella, Lex mitior, cit., 178; 182-184; 186-187 sostiene l’impossibilità di effettuare detta interpretazione, a torto, secondo l’A., considerata «adeguatrice», da qualificarsi in realtà come «creativa», giacché non si opterebbe per quello che, tra i possibili significati di una norma, è il più conforme a Costituzione, ma si violerebbero le regole basilari dell’esegesi letterale: l’A. denuncia un’«amputazione» della parte finale della norma; tesi del tutto sconfessata da Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punto 9.2, motivazione, cit., ripresa a pag. 6 dal giudice perugino, che spiega che la locuzione “cessare qualsiasi effetto pregiudizievole” deve reputarsi comprensiva sia dell’ipotesi disciplinata dal art. 673 c.p.p. che di quelle in parola.
([68]) V. Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punto 8.2, motivazione, cit..
([69]) Artt. 134, 136 e 138 Cost.; art. 1, legge costituzionale n. 1/1948; art. 30, commi 3 e 4, l. n. 87/1953, ma anche art. 25, comma 2, Cost.
([70]) Sugli ostacoli insormontabili per un’estensione analogica dell’art. 673 c.p.p., pur operata da una parte della giurisprudenza di merito (ex multis, Trib. Milano) – appoggiata da una parte della dottrina (v., ad es., Di Bitonto, Giudice dell’esecuzione e art. 13 CEDU (Argomenti a sostegno delle conclusioni del P.M. d’udienza disattese da Sez. Un., 19 aprile 2012, n. 34472, Ercolano, in Cass. pen., 2013, 2513 ss.) – forse assecondando quella tendenza espansiva dell’ambito applicativo di tale norma cui si alludeva supra, v. Gambardella, Lex mitior, cit., 190: L’A. denuncia, quindi, la presenza di una «lacuna assiologica», che dovrebbe essere risolta sul piano di un intervento del legislatore o della Corte costituzionale (v. Gambardella, Lex mitior, cit., 197); su tale eventualità, v. anche Manes e Romano, L’Illegittimità costituzionale, cit.).
([71]) Cfr. Zirulia, Aggravante della “clandestinità”, cit. e Gambardella, Lex mitior, cit., 188-189.
([72]) Della fisionomia complessiva che traspare dal sistema processuale come rinnovato nel 1988 si è già detto.
([73]) Si pensi soprattutto agli artt. 669, 670, comma 3, 671, 672 e 673 c.p.p..
([74]) Cfr. Ruggeri, Giudicato costituzionale, cit.
([75]) L’efficace espressione appartiene a Iacobbi, La nuova dimensione del giudicato penale, cit.; cfr. Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, punto 7, motivazione, cit. («ogni questione»[…]) e Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, Punto 12, Motivazione, cit. («funzione»); cfr. Zirulia, Aggravante della “clandestinità”, cit.
([76]) Il giudice deve quindi porre rimedio a tutte le patologie che affliggono il titolo esecutivo, tra le quali vanno ovviamente annoverate anche le ipotesi in cui l’attuazione concreta della pena non risulti più legittima per effetto di una declaratoria d’incostituzionalità; cfr. Cass., sez. un., 29 maggio 2014, Gatto, cit.
([77]) Che si faccia leva sull’art. 666, comma 1, c.p.p. (cfr. Cass., sez. un,, 29 maggio 2014, Gatto, cit.; questa è anche la soluzione accolta dal G.I.P. perugino) o sull’art. 670 c.p.p., quale norma di chiusura valevole per tutti i casi non tipizzati (cfr. quanto affermato dalle Sezioni unite nel caso Ercolano), la sostanza degli argomenti non cambia. E nemmeno gli esiti. In particolare, entrambe le norme sembrano attagliarsi ad una richiesta di sospensione condizionale, giacché questa sarebbe consentita ai sensi dell’art. 30, comma 4, legge 87/1953 (arg. “eliminazione degli effetti penali della condanna”; v., ord. G.I.P., pag. 9); tale risultato, del resto, è anche il precipitato di una lettura costituzionalmente conforme delle norme prefate, giacché non si vedrebbe come quelle istanze di ragionevolezza che hanno imposto di ritenere ammissibile la richiesta di sospensione condizionale ai sensi dell’art. 673 c.p.p. non dovrebbero trovare soddisfazione anche nei casi in cui la pena, una volta rideterminata, soddisfi i presupposti di cui all’art. 163 c.p. (v., per argomentazioni similari, Cass., sez. un., 20 dicembre 2005, Catanzaro, in Mass. Uff., 232610, che detta un principio relativo all’art. 673 c.p.p..)
([78]) Cfr., tra le altre, Cass., sez. I, 2 luglio 2013, F., in www.iusexplorer.it; Cass., sez. I, 31 gennaio 2014, (ord.), in www.penalecontemporaneo.it, con nota di Romeo, Poteri del giudice dell’esecuzione e dichiarazione di incostituzionalità di norma penale ‘non incriminatrice’: metamorfosi di una questione rimessa alle Sezioni Unite?
([79]) Riprendendo, a titolo esemplificativo, alcune delle sentenze già citate: per stabilire se il condannato meritasse l’attenuante, nel caso dell’art. 630 c.p. (Corte cost., n. 68 del 2012, cit.), o la prevalenza dell’attenuante di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990 rispetto all’aggravante della recidiva reiterata – e, nel caso non fosse specificato in sentenza, in che misura tale attenuante debba essere quantificata – una volta rimosso il limite normativo illegittimo (Corte cost. n. 251 del 2012, cit.), o ancora se le circostanze di fatto giustificassero o meno l’applicazione della pena accessoria (Corte cost. n. 31/2012 e Corte cost., n. 7 del 2013, citata); la stessa sentenza n. 32/2014, già citata, trovandoci oggi di fronte ad un diverso limite edittale per le droghe leggere. Al contrario, nel caso dei ‘fratelli minori’ di Scoppola (Corte cost., 18 luglio 2013, n. 210), si trattava di compiere una semplice operazione automatica di sostituzione della pena dell’ergastolo originariamente inflitta con quella di trent’anni di reclusione, senza che, quindi, fosse richiesta una modulazione della pena.
([80]) Va messo in luce che non appena si sono profilati contrasti sui moduli procedimentali, la Corte di cassazione è stata investita a Sezioni unite, come anticipato (Cass., Sez. Un., 26 gennaio 2015, Pres. Santacroce, Relatori Fumo, Blaiotta e Fidelbo, citata).
La trattazione del ricorso, svoltasi all’udienza del 26 febbraio 2015, ha riguardato, tra gli altri, i riflessi dell’illegalità della pena sul patteggiamento; la questione della rilevabilità d’ufficio, nel giudizio di Cassazione, dell’illegalità della pena conseguente a dichiarazione d’incostituzionalità di norme attinenti al trattamento sanzionatorio, anche in caso di inammissibilità del ricorso; la problematica che ruota attorno al riconoscimento o meno dell’illegalità di una sanzione che, pur fissata alla stregua dei parametri edittali illegittimi, sia, nella sua determinazione finale, compatibile anche con i previgenti parametri tornati ad applicarsi; non ultimo, il problema relativo alla continuazione; in particolare, con riguardo al tema del rapporto tra determinazione della pena per il reato continuato e sanzione edittale prevista per i singoli reati uniti dal vincolo della continuazione si agitano numerose questioni – che si possono qui solo segnalare – come quelle che emergono nel caso in cui alcuni dei capi d’imputazione contestino come unitari fatti che abbiano come oggetto materiale sia droghe pesanti sia droghe leggere; o laddove ci si chieda se, per quantificare gli aumenti per la continuazione riguardanti delitti aventi ad oggetto le cd. droghe leggere, il giudice abbia dovuto far riferimento al minimo edittale previsto dalla norma dichiarata incostituzionale, e se, quindi, per tale ragione, debba imporsi una nuova valutazione in ordine alla pena da irrogare (costituiscono, si nota per inciso, tracce favorevoli al rilievo del limite edittale dei reati meno gravi i commi terzo e quarto dell’art. 81 c.p.; contra, ex multis, Cass., sez. III, 30 aprile 2014, Frattolino e altri, in www.iusexplorer.it: «non hanno inciso né le modifiche normative né la declaratoria di incostituzionalità” sulla legalità della pena» in quanto una volta ritenuta la continuazione tra più reati, il trattamento sanzionatorio originariamente previsto per i reati satelliti non esplica più alcuna efficacia, dovendosi solo aumentare la pena prevista per la violazione più grave, senza che rilevino i limiti legali della pena prevista per i singoli reati satelliti).
Ci si limita a riportare sinteticamente le conclusioni raggiunte dalle Sezioni Unite con riferimento alle questioni poste. Segnatamente, quanto all’ultimo tema sopra menzionato, la Corte ha preso posizione nel senso della necessaria rivalutazione del trattamento sanzionatorio, alla luce della più favorevole cornice edittale applicabile per le violazioni costituenti “reati-satellite”, in conseguenza della reviviscenza della precedente disciplina. Anche in relazione al quesito vertente sulla rilevabilità d’ufficio, come sopra specificato, è stata fornita analoga risposta in termini affermativi, così come rispetto alla vexata quaestio circa la doverosa rideterminazione della pena applicata con sentenza di patteggiamento. Soffermandoci su tale ultimo profilo, in particolare, stabilito che la “pena patteggiata” debba essere necessariamente rideterminata in sede di esecuzione – anche nell’ipotesi in cui la stessa rientri nella nuova cornice edittale applicabile –, la Corte ha altresì precisato quale debba essere il modus procedendi da seguire: privilegiata una “rinegoziazione” dell’accordo tra le parti – ratificato dal giudice dell’esecuzione – laddove lo stesso non si perfezioni il giudice è tenuto a rideterminare la pena alla stregua dei criteri di cui agli artt. 132 e 133 c.p.. Per il testo integrale delle ordinanze di rimessione, si rinvia a www.penalecontemporaneo.it, 19 gennaio 2015; con riguardo alla informazione provvisoria cfr. www.penalecontemporaneo.it, 27 febbraio 2015.
([81]) Si, specifica, infatti, che se è vero che il giudice dell’esecuzione deve dotarsi come essenziale strumento di lavoro della sentenza irrevocabile (Cfr. Cass., sez. I, 17 febbraio 2005, Spadola, in Mass. Uff., 231260), non si deve nemmeno dimenticare, come rammentano le Sezioni unite nel caso Gatto, che costui dispone, tra gli altri, anche di poteri istruttori non insignificanti, ex art. 666, comma 5, c.p.p. (sul punto, Viganò, Pena illegittima e giudicato, cit., che afferma che, ad ogni modo, «nella stragrande maggioranza delle ipotesi che si presenteranno alla prassi, i giudici dell’esecuzione potranno stare tranquilli: la nuova commisurazione della pena non richiederà alcun particolare adempimento istruttorio, i fattori rilevanti a tal fine risultando quasi certamente dalla stessa sentenza di condanna»)
([82]) Nella giurisprudenza di merito, Tribunale di Milano (giud. Cotta), ord. 3 aprile 2014, 4-5, in wwww.penalecontemporaneo.it.
([83]) Cfr. De Micheli, La declaratoria di illegittimità, cit.
([84]) Tale orientamento poggia su un arresto della Corte di cassazione (Cass., sez. VI, 20 marzo 2014, L. R., in Mass. Uff., 259253); ad esempio, un richiamo è contenuto in G.I.P. Bologna, 27 maggio 2014, (giud. Giangiacomo), che aderisce a tale filone (cfr. De Micheli, La declaratoria di illegittimità, cit.).
([85]) Da ultimo, pur in un giudizio di cognizione, tale argomento è fatto proprio da, Cass., sez IV, 22 maggio 2014, L., in Mass. Uff., 259398.
([86]) Per tale lucida considerazione, v. De Micheli, La declaratoria di illegittimità, cit.
([87]) Pur non essendo del tutto riconducibile a tale orientamento, per le ragioni che si vedranno infra, la necessità del rispetto del principio di proporzionalità del fatto alla pena, nei suoi risvolti ex art. 27, comma 3, Cost., con le implicite ricadute sul piano del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. (sul punto, v. De Micheli, La declaratoria di illegittimità, cit.), viene sottolineata dalla dottrina; v. Viganò, Retroattività della legge penale, cit., il quale sottolinea, altresì, «i macroscopici profili di diseguaglianza di trattamento rispetto a chi abbia la fortuna di essere giudicato, oggi, per un fatto del tutto identico, per il quale sarà punito con ogni probabilità con una sanzione assai inferiore» sproporzionata rispetto alla effettiva gravità del fatto commesso, incompatibile come tale con la finalità rieducativa che tale pena dovrebbe connotare
([88]) Ad esempio, in considerazione della significativa quantità posseduta.
([89]) Così, tra le altre, Cass, sez. VI, 23 settembre 2014, in Mass. Uff., 260711.
([90]) Nella giurisprudenza di merito, Trib. Trento, 18 aprile 2014, (ord.) Giud. Ancona, che giunge a mutare il giudizio di valenza, in ordine alle attenuanti generiche, già effettuato dal giudice del merito. In chiave critica, sia consentito constatare che lo stesso effetto finale in chiave sanzionatoria si sarebbe potuto determinare, senza alcun sovvertimento, tramite uno scostamento rispetto al limite edittale, adeguatamente motivato.
([91]) Esso si legge espressamente soltanto nell’art. 671 c.p.p., ma ha portata generale; v. Cass., sez. un,, 29 maggio 2014, Gatto, cit.
([92]) «La sovrapposizione di una diversa determinazione rispetto al giudizio di cognizione avrebbe anche l’effetto di travolgere un accordo basato su specifici presupposti come voluto dalle parti ritenuto adeguato e legittimo del giudice» (così, testualmente, ad esempio, ordinanza G.I.P. Bologna, ord. 27 maggio 2014, (Giud. Giangiacomo).
([93]) Tra gli altri, G.I.P. Bologna, ord. 27 maggio 2014, cit. muove proprio da tale riflessione per convalidare il metodo aritmetico-proporzionale.
([94]) Sussistenza quindi l’obbligo di eliminare la porzione di pena incostituzionale, non essendo consentito che una stasi sul piano dell’accordo delle parti possa impedire l’attuazione del principio di costituzionalità, concludendo per l’applicazione da parte del giudice dell’art. 133 c.p.
([95]) «Possono chiedere» (così il testo dell’art. 188 disp. att. c.p.p.). Si può osservare come, anche qui, ci troveremmo di fronte ad un tipico caso di estensione non del caso regolato ma della disciplina prevista, al di là dei confini dell’interpretazione analogica; per inciso, si evidenzia anche come il mancato esercizio di detta facoltà comporterebbe una“stasi” intollerabile in una materia così delicata (su tale ultimo aspetto, v. De Micheli, La declaratoria di illegittimità, cit., che sottolinea come la rideterminazione sarebbe un «atto dovuto e non possa essere rimessa ad un nuovo incontro delle volontà delle parti»).
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Giulia Pini
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