Il lavoratore “assente ingiustificato” alla visita domiciliare può essere licenziato
“In tema di controlli sulle assenze per malattia dei lavoratori dipendenti, volti a contrastare il fenomeno dell’assenteismo e basati sull’introduzione di fasce orarie entro le quali devono essere operati dai servizi competenti accessi presso le abitazioni dei dipendenti assenti dal lavoro, ai sensi dell’art. 5, co. 14, d.l. 12 settembre 1983 n. 496, convertito con modificazioni dalla legge n. 638 del 1983, la violazione da parte del lavoratore dell’obbligo di rendersi disponibile per l’espletamento della visita domiciliare di controllo entro tali fasce assume rilevanza di per sé, a prescindere dalla presenza o meno dello stato di malattia, e può anche costituire giusta causa di licenziamento” (così, Cass. Civ. n. 3226/2008). È questo il principio di diritto emanato dalla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione nella sentenza n. 24681/2016, con la quale ha rigettato il ricorso di un dipendente avverso il licenziamento intimatogli per assenza al controllo domiciliare di malattia, non preventivamente comunicata al datore di lavoro. Come è emerso nel giudizio di primo grado, infatti, il lavoratore era stato rinvenuto ripetutamente assente alle visite domiciliari di controllo della malattia, reiterando tale atteggiamento anche dopo l’applicazione della prima sanzione disciplinare consistente nell’irrogazione di multa e di quelle successive di sospensione dal servizio per uno, cinque e dieci giorni.
I Giudici di Piazza Cavour, richiamando un orientamento ormai granitico, hanno affermato che, con l’art. 5 L. n. 638/1983, è stato imposto al lavoratore un comportamento, quale la “reperibilità nel domicilio durante prestabilite ore della giornata”, che rappresenta un onere all’interno del rapporto assicurativo ed un obbligo accessorio alla prestazione principale del rapporto lavorativo il cui contenuto resta, in ogni caso, la reperibilità in sé. Da ciò consegue che l’irrogazione di una sanzione disciplinare può essere evitata soltanto con la prova, a carico del lavoratore, di un ragionevole impedimento all’osservanza del comportamento dovuto e non anche con quella dell’effettività della malattia.
Inoltre, la giurisprudenza della Suprema Corte ha precisato che, in presenza di CCNL contenente l’obbligo di reperibilità (così come il CCNL del lavoratore licenziato), il lavoratore non può limitarsi a produrre il certificato medico attestante l’effettuazione di una visita specialistica, ma deve dare dimostrazione delle “comprovate necessità” che impediscono l’osservanza delle fasce orarie, e cioè che la visita non poteva essere effettuata in altro orario al di fuori delle predette fasce, ovvero che la necessità della visita era sorta negli orari di reperibilità, tenuto conto che il giustificato motivo di assenza del lavoratore ammalato dal proprio domicilio durante le fasce orarie di reperibilità “si identifica in una situazione sopravvenuta che comporti la necessità assoluta ed indifferibile di allontanarsi dal luogo nel quale il controllo deve essere esercitato” (così, per tutte, Cass. Civ., Sez. Lav., n. 2756/1995).
Da quanto emerso nel corso del giudizio, il Giudice dell’Appello, inoltre, aveva ritenuto inidonea anche la consulenza medico legale depositata dal lavoratore – ricorrente, traendone la conclusione che neppure da tale documentazione fosse possibile ritenere provata la sussistenza di un giustificato motivo di assenza. Infatti, così come confermato dallo specialista medico, la cura praticata dal lavoratore si attuava secondo appuntamenti concordati con il centro terapeutico.
La Cassazione, nel confermare la sentenza d’appello e, quindi, il licenziamento del ricorrente, ha richiamato l’art. 43 del CCNL di riferimento in base al quale il constatato mancato rispetto da parte del lavoratore degli obblighi di reperibilità nel domicilio comunicato al datore di lavoro nonché l’obbligo di dare preventiva comunicazione al datore nel caso in cui, durante le fasce orarie, debba assentarsi dal proprio domicilio per visite, prestazioni o accertamenti specialistici o per altri giustificati motivi (art. 8), comporta la perdita del trattamento di malattia ed è sanzionabile con l’applicazione di provvedimento disciplinare. L’applicazione della sanzione disciplinare massima, è stata giustificata, nella sentenza in commento, anche alla luce di altre disposizioni del CCNL di riferimento, in particolare l’art. 55, commi 4 e 5. Il comma 4 prevede, espressamente, che nella valutazione dell’entità afflittiva del provvedimento disciplinare si debba avere riguardo non solo all’intenzionalità del comportamento ma anche al grado di negligenza dimostrato dal lavoratore. Ai sensi del comma 5, invece, per mancanze della stessa natura, già sanzionate nel corso del biennio, così come nel caso di specie, è prevista l’irrogazione, a seconda della gravità del caso e delle circostanze, di una sanzione di livello più elevato rispetto a quella già inflitta.
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Giuseppe Rossini
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