Il ne bis in idem nello spazio giuridico europeo ed internazionale

Il ne bis in idem nello spazio giuridico europeo ed internazionale

a cura di Giacomo Romano

 

SOMMARIO: 1. Il ruolo della CEDU sul diritto nazionale. 2. Fonti del ne bis in idem. 3. Il concetto di idem factum nella giurisprudenza della Corte EDU. 4. Il principio del ne bis in idem ed il concorso apparente di norme. 5. I c.d. criteri di Engel. 5.1. I criteri riferibili alla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea. 6. L’effetto vincolante delle pronunce della Corte EDU. 7. Il c.d. ne bis in idem internazionale. 8. Ricadute sull’ordinamento giuridico italiano.

ABSTRACT.

La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali è una convenzione internazionale ratificata e resa esecutiva in Italia con legge ordinaria 4 agosto 1955 n. 848. Formalmente l’ordinamento della CEDU è differente e distinto da quello dell’Unione Europea.

Diversi sono anche gli strumenti e le procedure previsti per garantire la conformità del diritto interno rispetto al diritto interunione e a quello di natura convenzionale della CEDU, essendo diversi anche i vincoli derivanti dall’appartenenza dello Stato italiano all’ordinamento CEDU rispetto a quello dell’Unione Europea.

In forza delle sentenze della Corte Costituzionale n. 348 e n. 349 del 2007 emerge che la Convenzione costituisce una fonte interposta tra il piano costituzionale e quello delle leggi comuni, perché si profilerebbe l’eventuale esigenza di un bilanciamento tra i diritti della Convenzione e gli stessi diritti costituzionalmente protetti.

Tale ricostruzione non è inficiata dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1 dicembre 2009), che ha modificato il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità Europea, avendo la Consulta, con la sentenza n. 80 del 2011, rilevato che il Trattato di Lisbona non ha «comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni della CEDU nel sistema delle fonti, tale da rendere ormai inattuale la ricordata concezione delle norme interposte».

Pur senza negare l’orientamento inaugura­to dalle sentenze nn. 348 e 349 del 2007, in forza del quale le norme della CEDU, nel significato loro attribuito dalla Corte europea, integrano, quali «nor­me interposte», il principio sancito dal primo comma dell’art. 117 Cost. la Consulta ha, nel tempo, diversamente interpretato il ruolo della giurisprudenza della Corte EDU.

La questione principale riguarda se le sentenze non rivolte direttamente all’Italia contengo­no affermazioni generali (che la stessa Corte europea ritiene applicabili oltre il caso specifico) vincolanti anche per l’ordinamento italiano.

Il problema interpretativo derivante dalla giurisprudenza della Corte Europea si sostanzia, quindi, nell’alternativa tra interpretazione conforme alla giurisprudenza della Corte EDU ed incidente di costituzionalità.

Recentemente, la questione si è ripresentata con forza nell’ordinamento nazionale.

La Corte di Strasburgo, nel caso Grande Stevens e altri c. Italia, ha affermato che l’illecito di manipolazione del mercato previsto nell’art. 187-ter d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, in considerazione della sua ratio punitiva e della gravità delle sanzioni ad esso conseguenti, ha una sostanziale natura penale, nonostante esso riceva nell’ordinamento giuridico italiano la formale qualificazione di illecito amministrativo.

In ragione della riqualificazione penale dell’illecito (formalmente) amministrativo previsto nell’art. 187-ter d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 e della circostanza che esso fosse già stato oggetto di una sentenza divenuta definitiva, la Corte ha ritenuto che la celebrazione del giudizio per il reato previsto nell’art. 185 d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 in relazione al medesimo fatto concreto (la diffusione di un falso comunicato stampa in merito a strumenti finanziari) fosse preclusa dal principio del ne bis in idem processuale previsto nell’art. 4 Protocollo n. 7 CEDU.

La pronuncia fa leva su due solidi orientamenti della giurisprudenza di Strasburgo: quanto al riconoscimento della natura sostanzialmente penale della sanzione amministrativa comminata dal TUF per gli abusi di mercato, la sentenza Grande Stevens valorizza criteri interpretativi (i cc.dd. “criteri di Engel“) largamente consolidati nella giurisprudenza convenzionale; anche l’approccio che, nello scrutinio dell’identità del fatto, fa leva su un accertamento “in concreto” e non sulla disamina degli elementi costitutivi delle fattispecie astratte può dirsi (almeno a far tempo dall’ultimo quinquennio) ormai consolidato nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo.

La mancata previsione dell’allargamento del principio “ne bis in idem” anche ai rapporti tra processi e, specificamente, tra sanzione penale e amministrativa di natura penale sarebbe, quindi, non conforme alle norme costituzionali giacché in distonia rispetto ai principi sovranazionali sanciti dalla CEDU la previsione del c.d. doppio binario e, quindi della cumulabilità tra sanzione penale e amministrativa, applicata in processi diversi, qualora quest’ultima abbia natura di sanzione penale.

Così, in dottrina ed in giurisprudenza si fa sempre più strada l’idea che per conformare il nostro ordinamento a tale decisum occorra applicare l’art. 649 c.p.p. anche in caso di condanna pronunciata dall’autorità amministrativa.

Tale soluzione, però, colpisce il sistema processuale penale in uno dei suoi capisaldi e rischia di provocare effetti dirompenti a detrimento e non a tutela dei diritti delle persone imputate.

Allo stato, i maggiori problemi in ordine alla tenuta del sistema del “doppio binario” coinvolgono l’art. 10-bis D.Lgs. n. 74 del 2000.

La Suprema Corte ritiene cumulabili i reati previsti negli artt. 10-bis e 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000 con i corrispondenti illeciti amministrativi previsti nell’art. 13, 1° comma, d.lgs. n. 471 del 1997, ravvisando fra i medesimi un rapporto di «progressione illecita» ed affermando che le norme penali costituiscono violazioni molto più gravi di quelle amministrative e, pur contenendo necessariamente queste ultime (senza almeno una violazione del termine periodico di versamento non si possono integrare i presupposti del reato), le arricchiscono di elementi essenziali che non sono complessivamente riconducibili al paradigma della specialità.

Ma non solo.

Infatti, come detto, applicando i c.d. criteri di Engel in una con la norma di cui all’art. 4 del Protocollo 7 ne discende che dopo un primo procedimento di natura sostanzialmente penale chiuso con un provvedimento definitivo (si badi bene: non importa se di assoluzione o di condanna) non può essere iniziato nessun altro procedimento della stessa natura sostanziale: e ciò anche se l’ordinamento statale qualifica come amministrativo uno dei due procedimenti, o anche se li qualifica come amministrativi entrambi.

Sotto quest’ultimo profilo, rileva, come si vedrà (cfr. § 8), la natura sanzionatoria dell’istituto della cauzione provvisoria prevista nel codice degli appalti pubblici (D.Lgs. n. 163 del 2006).

Tale qualificazione ha delle ricadute sulla legittimità delle due disposizioni del Codice nelle quali l’escussione della cauzione si accompagna ad altre misure afflittive, ossia l’art. 49 (per il caso di “dichiarazioni mendaci” in tema di avvalimento) ove si prevede anche la comminatoria della sanzione pecuniaria ex art. 6, comma 11, e l’art. 48 (relativo alla riscontrata carenza di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa (ossia dei c.d. “requisiti speciali”) dichiarati dal concorrente all’atto dell’offerta), ove addirittura viene comminata al contempo l’escussione della cauzione, la sanzione pecuniaria, e la sospensione da uno a dodici mesi dalla partecipazione alle procedure di affidamento.

A ben vedere, infatti, si potrebbe ipotizzare che qui venga violato proprio il principio del ne bis in idem sancito dal comma 1 dell’art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo ai sensi del quale «Nessuno potrà essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un’infrazione per cui è già stato scagionato o condannato a seguito di una sentenza definitiva conforme alla legge ed alla procedura penale di tale Stato».

GIURISPRUDENZA: Corte Costituzionale, 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349, in www.cortecostituzionale.it; Corte Costituzionale, 1 marzo 2011, n. 80, ibidem; Trib. Brindisi, Sez. pen., sent. 17 ottobre 2014, giudice dott. Giuseppe Biondi, in Gazzetta Forense, 2015, 2, 222, con nota di ROMANO, ivi, 222 ss.; Cass. pen. Sez. Un., 28 marzo 2013, n. 37424, Rv. 255757; Sez. V, Ord., 15 gennaio 2015, n. 1782; Cass. civ. Sez. V, Ord., 21 gennaio 2015, n. 950; Cons. Stato Sez. V, 28 giugno 2004, n. 4789; Cons. Stato (Ad. Plen.), 10 dicembre 2014, n. 34.

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avv. Giacomo Romano

Ideatore, coordinatore e capo redazione at Salvis Juribus
Nato a Napoli nel 1989, ha conseguito la laurea in giurisprudenza nell’ottobre 2012 con pieni voti e lode, presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II, discutendo una tesi in diritto amministrativo dal titolo "Le c.d. clausole esorbitanti nell’esecuzione dell’appalto di opere pubbliche", relatore Prof. Fiorenzo Liguori. Nel luglio 2014 ha conseguito il diploma presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. Subito dopo, ha collaborato per un anno con l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli occupandosi, prevalentemente, del contenzioso amministrativo. Nell’anno successivo, ha collaborato con uno studio legale napoletano operante nel settore amministrativo. Successivamente, si è occupato del contenzioso bancario e amministrativo presso studi legali con sede in Napoli e Verona. La passione per l’editoria gli ha permesso di intrattenere una collaborazione professionale con una nota casa editrice italiana. È autore di innumerevoli pubblicazioni sulla rivista “Gazzetta Forense” con la quale collabora assiduamente da giugno 2013. Ad oggi, intrattiene collaborazioni professionali con svariate riviste di settore e studi professionali.

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